di Vincenzo Bavaro, Università di Bari
Poiché si tratta solo di appunti sull’ultimo documento unitario di Cgil, Cisl e Uil sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva, è bene dichiarare subito che il tema «democrazia e rappresentanza», cui il documento dedica la sua ultima parte, è la croce e delizia della scienza gius-sindacale, cui si deve una vastissima, complessa e sofisticata letteratura che sarebbe pretenzioso racchiudere in poche righe come queste. Ciò detto, lo schema di questi appunti mi è dato proprio dal capitolo del documento unitario intitolato alla rappresentanza e democrazia sindacale.
Dato che l’intendimento dichiarato è di modificare gli assetti contrattuali definiti col Protocollo del 23 luglio del 1993, cominciamo proprio col mettere in evidenza le più vistose lacune rispetto al suddetto Protocollo nella materia in questione. Nell’accordo del 1993 fu esplicitamente convenuto l’auspicio di «un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, ad una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori» seguito dalla richiesta al Governo di attivarsi al fine di «emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende».
Mi sembra importante partire da qui perché, da un lato, si istituì l’organismo di rappresentanza sindacale unitaria dei lavoratori (RSU) sulla base di una previsione normativa (l’art. 19 St. lav.) che assicurava la generalizzazione del diritto alla rappresentanza sindacale in tutte le unità produttivo con più di 15 dipendenti. Dall’altro lato, il Protocollo aveva la consapevolezza che la questione della misurazione del grado di rappresentatività dei sindacati nei luoghi di lavoro, lasciava del tutto irrisolto il problema della efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo, sia al livello aziendale sia soprattutto al livello di settore produttivo in cui si determinava la maggiore condizione di alterazione della razionale organizzazione delle condizioni produttive delle imprese; quantomeno dal punto di vista della organizzazione del lavoro.
Cosa resta di questo contesto politico, sindacale e giuridico? Sostanzialmente nulla. Scritto proprio in apertura del capitolo, secondo il documento unitario «la riforma sulla rappresentanza va attuata per via pattizia attraverso un accordo generale quadro». Il documento ha cassato qualunque richiamo dell’intervento legislativo. E non si può dire neanche che si tratta di una scelta di competenza in quanto trattasi di un documento finalizzato ad una trattativa bilaterale (perciò escludente il Legislatore), dal momento che nello stesso documento non si escludono misure la cui attuazione richiede l’intervento legislativo, peraltro coinvolgendo misure di finanza pubblica (per esempio, si pensi alle varie misure fiscali di detassazione del salario). Quindi, i sindacati hanno consapevolmente obliterato una questione su cui si è dibattuto in sede dottrinaria anche di recente (v. Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2006, nn. 3 e 4 con vari interventi).
A mio parere, il mutato orientamento del sindacato rispetto al 1993 appare davvero ingiustificato perché, prima ancora che di discussione sul merito, abbandonare la prospettiva di un intervento legislativo non solo disconosce il problema dell’efficacia del contratto collettivo ciclicamente denunciato dalla dottrina (cfr. fra gli altri U. CARABELLI e V. LECCESE nel volume L’orario di lavoro, Ipsoa, Milano, 2004) e riconosciuto dalle parti stesse nel 1993, implica ignorare che la Legge sulla rappresentanza sindacale esiste già per il settore pubblico (d. lgs. n. 165/01) tant’è che il documento dichiara di voler confermare, ma esiste anche per il settore privato (l’art. 19 St. lav.) ancorché foriera di inadeguatezze cui la recente scelta dell’autonomia collettiva col documento unitario, dimostra di voler soprassedere.
E che si tratta di inadeguato contesto normativo di definizione dei criteri per la selezione delle rappresentanze sindacali aziendali nei luoghi di lavoro privati è dimostrato dalle numerose sentenze che in un modo o nell’altro mostrano la complessità derivante da una norma (l’art. 19, appunto) troppo caustica per rispondere alle esigenze di selezione dell’agente negoziale e sindacale aziendale (v. in proposito le opinioni di C. CESTER e S. SCARPONI in Tre questioni in tema di rappresentanze sindacali unitarie, DLRI, 2006, p. 168 1 p. 181). Con riferimento alle RSU, rinunciare a porre la questione legale significa lasciare immutati i problemi connessi alla rappresentanza e alla democrazia sindacale, restando impigliati nella trama di soluzioni legittime sul piano privatistico, ma insufficienti a governare l’instabile e residuale prassi delle relazioni industriali nei luoghi di lavoro (v. al contrario l’opinione di M. MAGNANI, I problemi della rappresentanza degli attori sociali: serve una legge?, DRI, 2006).
Beninteso, nulla di male; anzi, proprio al sistema giussindacale spetta l’opportunità di sperimentare soluzioni innovative; ma, dato il contesto ed il precedente, il documento si presenta come un passo indietro rispetto al Protocollo del 1993. Anziché richiedere la legalizzazione di un nuovo art. 19 St. lav., secondo il modello elettivo delle RSU, e abbandonando l’inutile levantinismo della riserva del terzo alle oo. ss. firmatarie del contratto nazionale, il documento unitario si avventura in un meccanismo il cui fine appare alquanto pasticciato, se non inutile.
A tal proposito, il documento unitario annuncia di voler definire «regole e criteri per l’elezione delle RSU e per una loro generalizzazione». Ciò al fine di applicare nel settore privato un sistema analogo a quello del settore pubblico, ma senza l’intervento della legge (finendo per richiamare soltanto l’Accordo quadro del 7 agosto del 1998, e non il d. lgs. n. 165/01 che ne è la fonte generale di legittimazione). Quindi i sindacati intendono attribuire al CNEL il compito di certificare il grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali sulla base dei dati associativi (riferiti alle deleghe) nonché dei consensi elettorali ottenuti alle elezioni delle RSU «che andranno generalizzate dappertutto».
Riguardo al dato delle deleghe associative, questo fattore potrà essere accertato da documenti amministrativi in possesso dell’INPS. Anche in questo caso, non è inutile sottolineare che questo meccanismo è affidabile e certo perché fondato su un principio gius-positivo, nonostante la modifica referendaria del 1995 apportata all’art. 26 St. lav. Infatti, la giurisprudenza ha provveduto a precisare che quando un lavoratore si iscrive ad un sindacato si è in presenza di una cessione di credito, che prescinde dalla volontà privatistica del datore di lavoro di applicare il contratto collettivo che prevede la trattenuta sindacale (cfr. da ultimo Cass. Sez. Un. 21 dicembre 2005, n. 28269).
Quanto al dato elettorale, va da sé che la generalizzazione delle elezioni, senza una legge, resta vincolata solo alla volontà privatistica dei soggetti: esattamente com’è ora. Come obbligare allo svolgimento di elezioni per le RSU senza un obbligo di natura legale? Il sistema, per come immaginato dai sindacati, resta tutto com’è adesso, con la sola variante della raccolta indicativa del numero dei voti ottenuto da ciascuna associazione sindacale, al fine di perfezionare un po’ la configurazione di un indice con cui «comparare» la «maggiore» rappresentatività di un’organizzazione rispetto ad un’altra. Indice pur sempre giurisprudenziale, se non può essere di natura legale.
Vediamo un’altra ambiguità. Non si comprende per quale ragione, il documento prefiguri tale sistema di selezione della rappresentanza nel paragrafo ad essa intitolato, ma releghi la questione della regolazione del sistema delle RSU nel paragrafo della democrazia sindacale, attribuendo tale funzione regolativi a ciascuna associazione di categoria. Insomma, le confederazioni sono riluttanti verso l’intervento della legge, ma lo sono anche nell’assumere indicazioni precise su un tema che – come esse stesse indicano – è rilevante per la tenuta dell’intero sistema. La sensazione è che anche su questo punto il documento abbia voluto dire il meno possibile, forse anche per non concentrare su questo la discussione successiva con la controparte datoriale che pare debba incentrarsi solo sul sistema contrattuale.
Discorso analogo potrebbe valere per altre omissioni. Per esempio: a fronte della disarticolazione della struttura dell’impresa, il documento sembra aver del tutto obliterato la questione della unitarietà anche sostanziale della rappresentanza sindacale, frammentata e disarticolata in corrispondenza della frammentazione dell’organizzazione giuridica delle imprese. Proprio sul piano della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, non c’è nessuna indicazione finalizzata ad adeguare l’assetto organizzativo della rappresentanza dinanzi alla impresa riorganizzata. Si sarebbe potuto almeno porre la questione a partire dalla valorizzazione e potenziamento dell’esperienza organizzativa dei Comitati Aziendali Europei, per coglierne il valore embrionale di una rappresentanza sindacale aziendale che travalica sia gli argini formali dell’impresa che dei confini nazionali, seguendo passo passo la struttura organizzativa dell’impresa (cfr. G. FERRARO, La riforma del sistema contrattuale, RIDL, 2008, I, p. 31 ss., in particolare p. 50 ss.).
Poiché fondata sul contratto collettivo – cioè com’è disciplinata adesso – l’elezione delle RSU può fornire soltanto un dato solo tendenzialmente rappresentativo dell’effettivo consenso dei lavoratori, poiché è la base elettorale complessiva ad essere del tutto aleatoria: quali dati elettorali dovranno essere presi a riferimento? Di quali aziende? Di quali settori produttivi?
Senza ombra di dubbio non può che trattarsi della categoria/settore produttivo, esattamente come nelle PA avviene con riferimento ai comparti. Ma qui si pone un primo problema: come si può pensare di definire una categoria produttiva se essa non esiste in rerum natura ed è solo il risultato della determinazione autonoma della volontà privata collettiva in sede di determinazione dell’ambito di applicazione di un contratto collettivo nazionale di categoria? A differenza delle PA in cui è un contratto collettivo quadro a stabilire quali sono le amministrazioni appartenenti ad un comparto, non c’è possibilità di procedere a tale determinazione se non passando attraverso la determinazione legale della categoria, secondo il modello costituzionale dettato dall’art. 39, commi 2-4, Cost.
A questo ostacolo logico-dogmatico si può ovviare solo se, però, pur restando sul terreno del volontarismo privatistico-contrattuale si adottano sistemi che diano certezza (ancorché sulla parzialità) dei criteri di verifica. In questo senso l’Accordo sulle regole sottoscritto l’11 gennaio 2004 da Fim, Fiom e Uilm rappresenta un esempio di come le parti abbiano voluto determinare il campo di riferimento ai fini della verifica del consenso. Questo accordo non riguardava la rappresentanza sindacale ma la verifica del consenso elettorale-referendaria sulla piattaforma rivendicativa e sull’ipotesi di contratto. A me interessa far notare che si stabilì che «a livello provinciale, Fim, Fiom e Uilm con l’obiettivo della massima estensione possibile definiranno comunemente le aziende, con relativo numero di addetti, nelle quali si svolgeranno le assemblee unitarie…». Su questa base certa, si è potuto poi procedere alla determinazione di un sistema preciso di calcolo del consenso elettorale.
Il problema sta nel guardare la questione del settore privato attraverso una lente deformante, qual è quella del settore pubblico. Qui si individuano i sindacati rappresentativi legittimati alla contrattazione collettiva nazionale e fra i quali si potrà ottenere la maggioranza del consenso sugli Atti (i contratti collettivi) posti in essere dalle parti. Il sistema, dunque, non si pone la questione dell’efficiacia generale del contratto collettivo, come sottolineato più volte dalla Corte costituzionale. Se l’effetto di generalizzazione si ottiene, dipende dalla rappresentanza legale delle P.A.
Nel settore privato, se si vuole ottenere l’efficacia generale del contratto, occorre passare attraverso l’attuazione dell’art. 39 Cost. Altrimenti, ed è questo il punto decisivo, si può legittimamente procedere secondo lo schema del settore pubblico, limitatamente alla indicizzazione legale della rappresentatività.
Per questa ragione è ambiguo e confuso un sistema che metta assieme due opzioni di fondo diverse: un conto è il consenso sul Soggetto-Sindacato (rappresentatività?) altro è quello sull’Atto-Contratto (democrazia?).
Se la misurazione della rappresentatività serve a selezionare il soggetto sindacale titolare di prerogative sindacali nei luoghi di lavoro stabilite dalla legge (ex art. 19. St. lav.) oppure a selezionare il soggetto sindacale legittimato a stipulare contratti collettivi con funzioni normative delegate dalla legge, occorre avere un criterio certo, perciò legale, di misurazione della rappresentatività. Tale misurazione può ben rappresentare quell’«alternativa» al modello del 4° comma dell’art. 39 Cost. di cui parlava D’Antona mediante una presunzione del grado di consenso sull’Atto-contratto collettivo derivante dal consenso sui Soggetti-sindacati (così mi sembra possa essere letto M. D’ANTONA, Il quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione, oggi, in Aa. Vv. Studi sul lavoro. Scritti in onore di Gino Giugni, Cacucci, Bari, 1999, po. 305 ss.). Una volta che il soggetto sindacale risulta selezionato sulla base di indici affidabili (in quanto certi e legali) il problema della misurazione del consenso sugli Atti, cioè il consenso su piattaforme e/o ipotesi contrattuali, potrebbe restare sul piano della dinamica democratica endo-sindacale.
Peraltro, anche una legge regolativa del consenso sul Contratto (si pensi al complesso sistema legale francese) non muta necessariamente la natura giuridica del Contratto (così come la legge sulla rappresentatività sindacale non muterebbe la natura giuridica privatistica del Sindacato). Si tratterebbe, in fondo, di una espressione della volontà collettiva privatistica sul contratto collettivo (pari alla volontà collettiva privatistica che esprime la RSU) finalizzata a porre un vincolo organizzativo alle imprese, secondo il modello concettuale dell’accordo collettivo di gestione delle eccedenze di personale (ancorché contrario all’intervento legislativo, v. la posizione di A. TURSI, È davvero necessaria una «rivoluzione maggioritaria»?, RIDL, 2006, I, p. 299).
Non è questa la sede per sviluppare questo complesso argomento, sia con riferimento al contratto collettivo nazionale di categoria sia con riferimento ai contratti collettivi aziendali. Nondimeno, il fatto che la questione intitolata «democrazia sindacale» non implichi necessariamente modificare la natura giuridica del contratto collettivo è dimostrato dal fatto che la procedura di consultazione prevista dal documento unitario riguarda anche gli accordi confederali che non hanno funzione normativa se non attuati dai contratti collettivi di categoria (per i quali si rinvia alle autonome regolamentazioni delle rispettive federazioni di categoria).
Ciò detto, il documento in esame resta ineffabilmente parco d’indicazioni dinanzi a tali complesse questioni. Proprio con riferimento alla consultazione sull’accordo di categoria, i sindacati non hanno assunto alcuna iniziativa, rendendo così sostanzialmente inutile l’intero paragrafo. Quanto alla consultazione sugli accordi confederali con valenza generale, il documento sembra proteso a sanare una situazione che si è verificata proprio in occasione della consultazione sul Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, stabilendo che le piattaforme sono definite negli organismi direttivi delle Confederazioni e che le ipotesi di accordo debbano essere certificate fra tutti i lavoratori. Il tema è delicato per la storia delle relazioni industriali del nostro Paese. D’altronde, il fatto che pochissime volte si sia proceduto all’approvazione referendaria sta lì a dimostrarlo.
Tuttavia, non si devono tacere alcune osservazioni che derivano anche da quanto detto a proposito dell’ambito di riferimento della certificazione del consenso elettorale in materia di RSU.
La necessità di definire l’ambito di applicazione è una esigenza di certezza della volontà dei soggetti su cui si riversano gli effetti di quella decisione (che sia un organo di rappresentanza sindacale o una norma di un contratto collettivo). L’esigenza di verificare il consenso ha la funzione di determinare una relazione di simbiosi fra la decisione e l’interesse che si esprime. Il documento unitario prevede la consultazione fra tutti i lavoratori e i pensionati, lasciando nell’ambiguità se tale consultazione deve avvenire fra tutti, iscritti e non iscritti, oppure solo fra i primi.
Si comprende bene che limitare solo ai primi la verifica significa predeterminare il campo di applicazione dell’interesse, contraddicendo non solo alcune esperienze presenti nelle categorie (v. accordo fra i metalmeccanici del 2004) ma anche il principio regolatore della verifica del consenso sui soggetti. Insomma se l’interesse su cui ci si deve esprimere riguarda una platea di soggetti più ampia dei lavoratori iscritti, appare coerente dare voce alla platea intera. Ciò però rischia di condurre ad un esito parossistico dal momento che tale ampliamento anche ai non iscritti, riguardando anche i pensionati, potrebbe trasformare la consultazione in una inefficace partecipazione senza alcuna effettiva relazione rappresentativa. Insomma, ancora una volta, la definizione della platea è una questione tecnica essenziale per l’effettività della misurazione dell’indice di rappresentatività dell’Atto, come del Soggetto.
In conclusione, il documento unitario appare deludente proprio nella parte più rilevante dal punto di vista della tenuta del sistema delle relazioni industriali. Probabilmente, l’attenzione delle tre confederazioni è stata concentrata sull’assetto della contrattazione collettiva e – soprattutto – sulla necessità di addivenire ad un testo comune e condiviso. Ma proprio per questa ragione è ancor più incomprensibile la riluttanza ad affrontare con decisione la questione della rappresentanza nei luoghi di lavoro. Proprio in presenza di una accentuazione del ruolo della contrattazione di secondo livello, che vuol dire anche – e prima di tutto – contrattazione aziendale, dovrebbe essere la pre-condizione, il paragrafo 1 di qualsiasi accordo quello di prevedere la «certezza» dell’agente negoziale del secondo livello aziendale.
Come sovente accade negli ultimi lustri, però, i risultati dei grandi proclami consistono – bene che vada – in poco di fatto. Mi sembra il connotato di quest’epoca: le grandi trasformazioni del sistema economico-produttivo cui ci si prepara con ritocchi al sistema giuridico-sindacale del lavoro che non hanno la capacità di governare quelle trasformazioni; solo assecondarle. Com’è abitudine dei nostri tempi recenti, nella roboante parola, «riforma», c’è il disincanto del «minimo possibile».


























