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Home - Approfondimenti - Interviste - Ambrogioni, il nostro negoziato è un modello di riferimento

Ambrogioni, il nostro negoziato è un modello di riferimento

di Emanuele Ghiani
1 Agosto 2014
in Interviste
Ambrogioni, il nostro negoziato è un modello di riferimento

Il Diario del lavoro ha sentito il presidente di Federmanager Giorgio Ambrogioni, in merito all’accordo sul rinnovo del contratto dirigenti Fiat, applicato ad oltre 1.500 dirigenti.

 

Ambrogioni, ha considerato l’approccio a questo rinnovo come non tradizionale, in che senso?
Perché l’intesa è scaturita da un lavoro preparatorio avvenuto all’interno di un osservatorio bilaterale, con noi di Ferdermanager e Fiat, che ha fatto emergere con grande serenità e condivisione  quali erano i punti da affrontare con questo rinnovo.

Quindi fuori dai soliti schemi, come la piattaforma rivendicativa, il confronto in negoziato. Insomma è stata proprio un’esaltazione, un modello di relazioni industriali coinvolgente e partecipato. Quindi è un modello di approccio che dovrebbe e potrebbe essere preso come riferimento.

L’altro aspetto che và sottolineato è che si è realizzato quello che io da tempo considero un obbiettivo  prioritario: quello di tornare a valorizzare, come è giusto che sia, il ruolo manageriale, basato certamente sulle competenze, sulle performance, ma anche sui valori.

 

Quindi non avete incontrato nessuna difficoltà a trovare un’intesa?
No, anzi devo dire che le due componenti negoziali si sono completate a vicenda. I negoziatori di Fiat erano oggettivamente preparati e professionali e noi nelle loro posizioni abbiamo trovato una voglia di trovare delle soluzioni ai problemi. Le soluzioni sono state molto responsabili, perché tengono conto del momento difficile che vive il Paese. Abbiamo dimostrato quindi che anche con un contratto collettivo, aziendale sì ma collettivo, si riesce a conciliare la gestione di un gruppo con la gestione personalizzata di un manager.

.

In passato lei sosteneva come sia importante dare più spazio alla retribuzione variabile dei manager legata ai risultati ottenuti, invece che alla retribuzione fissa. Con questo accordo ci siete riusciti?
Non solo ci siamo riusciti, ma lo abbiamo rafforzata. Nel mondo Fiat la retribuzione variabile era già una realtà, ma noi l’abbiamo enfatizzata e resa ancora più partecipata.


Ci sono ancora dei nodi da sciogliere?
Non ce ne sono , solo quello di dimostrare al mondo Fiat, agli azionisti e a noi stessi che questo è l’approccio giusto, un modello di relazioni che noi pensiamo debba contraddistinguere un paese che ha bisogno di coinvolgimento e partecipazione.

 

I rapporti tra Federmanager e Fiat sono cambiati dopo la fusione con Chrysler?
Guardi, tenga presente che negli anni ‘80 e ‘90 i vertici Fiat ritenevano incoerente un contratto collettivo di lavoro per una figura come quella dirigenziale. Siamo passati da questo approccio ad uno, oserei dire, di partnership. Tant’è che adesso negli organi di gestione  dei loro fondi  assistenziali c’è un rappresentante di Federmanager. Quindi siamo passati da un approccio  molto ostico ad uno in cui Fiat ci riconosce come partner utile. Questo è un salto culturale non da poco.

 

Negli altri settori non sempre si riesce a trovare una sintonia come la vostra, colpa anche l’effetto crisi che riduce il potere contrattuale di entrambe le parti. Quindi ad oggi quanto vale ancora la contrattazione?
Ma infatti come avrà visto in questo rinnovo è prevalso il senso di responsabilità da entrambe le parti. L’aspetto economico è stato ed è marginale, mentre invece è diventato ancora più centrale il tema della formazione, il welfare, della valorizzazione delle competenze. Questa è la nuova frontiera delle relazioni, anche dal punto di vista contrattuale. Quindi noi abbiamo dato prova di avere lo sguardo lungo e di avere i piedi ben piantati per terra, che affondano in quella che è la situazione del paese.

 

Quindi un modello applicabile ad altri tipi di contrattazione?
Ma sarebbe strano che un pezzo di classe dirigente, come siamo noi, tendesse a muoversi in maniera incoerente o avulsa da quello che è lo scenario del paese.

 

Come valuta il rapporto del governo con  la classe dirigente?
Inizialmente il governo ha avuto un approccio molto hard nei confronti della classe dirigente, in senso lato, di questo paese. Ha cercato di far passare il  messaggio che se il paese stava in queste condizioni, la colpa fosse in maniera indistinta di tutte le classi dirigenti. Noi questo messaggio lo abbiamo contrastato e contestato e debbo dire che pian piano il presidente Renzi e autorevoli membri del governo hanno incominciato a capire che non si può fare di tutta l’erba un fascio, tanto per cominciare. Però è ovvio che in parallelo anche noi, per quanto ci riguarda, qualche riflessione l’abbiamo fatta. Qualche peccatuccio di omissione l’abbiamo compiuto. Potevamo essere un po’ più fermi, più attenti a certe degenerazioni retributive, che in effetti ci sono state.


In merito al mondo del lavoro il governo sta facendo progressi?
Quello che noi speriamo è che ci sia maggiore attenzione da parte del governo su i temi della politica economica, dove in queste ore si discute degli argomenti di Cottarelli e di spending review, che sono illuminanti. Forse c’è stata una sottovalutazione, bisogna riprendere in mano l’agenda dei tagli della spesa pubblica improduttiva, ci vuole una politica industriale, ci vuole forse maggiore cautela in certe pseudo privatizzazioni.

 

A quali privatizzazioni si dovrebbe essere prudenti?
Ad esempio l’ingresso dei capitali cinesi nella cassa depositi e prestiti và valutato con molta, molta cautela, perché riguarda asset industriali estremamente delicati, come quello delle reti. Quindi bisogna stare attenti a non avere troppa attenzione al beneficio sul breve periodo e poca attenzione sui rischi di medio e lungo termine.


Quali potrebbero essere questi rischi?
I rischi di una politica etero-diretta su politiche industriali delicate per il futuro del paese. Bisogna stare molto attenti. Negli anni passati c’è stato un eccesso di dibattito pubblico su queste tematiche. Oggi tutto questo sta avvenendo nel disinteresse più totale della politica.


Secondo lei l’Unione Europea potrebbe riuscire a intervenire su queste tematiche?
L’Europa dovrebbe svegliarsi e smettere di essere una bella addormentata. Non si percepisce quale sia la sua politica europea. Ogni Stato ha la sua, perdente, e noi dobbiamo recuperare un ruolo a livello globale, ed è un disegno che oggi manca.

La causa di questo immobilismo è più legata ai burocrati europei o da un lassismo dei nostri politici a Bruxelles?
C’è anche questo, ma quello che manca è che il sogno europeo non si è ancora realizzato, anzi non è neanche partito. Manca veramente una politica industriale europea, che  ci faccia competere con i giganti asiatici, con il Nord America. Questo è quello che manca. Dobbiamo capire qual è il nostro posto nella ripartizione della competizione industriale.


Come si dovrebbe comportare l’Italia con il resto d’Europa e viceversa?
Guardi, proprio oggi ho finito di leggere un documento commissionato dal ministero dello Sviluppo Economico sugli effetti che hanno avuto sul nostro manifatturiero gli investimenti esteri. Stiamo parlando di settori non strategici, come la moda e il made in Italy. Bene, tutte le aziende osservate, una volta acquisite dai capitali esteri, hanno migliorato le loro performance. Allora cosa significa? Che noi non dobbiamo essere provinciali. Bisogna sì attirare i capitali esteri, ma dobbiamo farlo all’interno di un disegno strategico chiaro. Si deve capire dove il capitale estero è ben visto e quindi incentivarlo, e dove il capitale italiano e lo Stato devono invece avere un ruolo primario.

 

Emanuele Ghiani

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Emanuele Ghiani

Emanuele Ghiani

Redattore de Il diario del lavoro.

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