Sarebbe potuta andare peggio, con un pegno del 30% che i nostri prodotti avrebbero dovuto pagare alla frontiera Usa, ma un accordo al 15% è comunque una sconfitta negoziale dell’Europa spiega Alessandro Apolito, responsabile nazionale per le filiere della Coldiretti. Non possiamo essere buttati fuori dal mercato statunitense afferma Apolito. Il nostro agroalimentare, ora più che mai, deve guardarsi le spalle dell’italian sounding.
Apolito come giudicate l’accordo?
È un risultato che non ci piace. È una sconfitta negoziale dell’Unione europea e di Ursula Von der Leyen, che sta facendo un pasticcio anche con la nuova Pac. Siamo consapevoli che un a tariffa al 15% è sempre meglio di una al 30%. Ma ci saranno comunque ripercussioni sulle nostre filiere, quantificabili in un miliardo di euro circa.
Temete anche ripercussioni sui livelli occupazionali?
È molto difficile fare ora una valutazione su questo aspetto. Le nostre sono filiere sono lunghe e complesse e anche molto più resilienti di altre, dove possibili effetti di questo tipo si valutano nel tempo. Ma al momento è uno scenario che non ci preoccupa.
Quali prodotti sono più colpiti?
Sicuramente il vino, con 300 milioni di euro, l’olio extra vergine, dove i dazi peseranno per 140 milioni di euro, e la pasta con una zavorra da 60 milioni di euro. Prodotti che sono il simbolo del nostro Made in Italy e la base della dieta mediterranea.
L’italian sounding potrebbe insidiare il nostro agroalimentare?
Il pericolo è concreto. Di recente siamo stati alla Summer Fancy Food e abbiamo notato come ci sia una crescente attenzione ai quei prodotti che richiamano il nostro Made in Italy. Parliamo di un giro d’affari stimabile sui 40 miliardi di dollari. Ovviamente la nostra qualità è insuperabile. Ma davanti a una fiammata dei prezzi e all’alta inflazione anche il consumatore americano più affezionato al nostro agroalimentare potrebbe vacillare.
Gli importatori americani come stanno vivendo i dazi?
Con molta maggiore preoccupazione di noi. È una preoccupazione diffusa ma non sempre uguale. Chi importa i nostri formaggi, che non hanno visto un aumento dei dazi, si muove con maggiore tranquillità. Discorso diverso, come detto, per il vino. Qui i dazi vanno pagati alla dogana e può succedere che gli importatori più piccoli siano a corto di liquidità, dovendo rinunciare o riprogrammare gli ordini. Consideri che per ogni 10 dollari di prodotti italiani che entrano nel mercato Usa la ricchezza generata è di 40 dollari. Soldi che rimangono negli Stati Uniti, che servono per creare nuovi posti di lavoro. C’è molta apprensione anche oltreoceano.
Avete rafforzato i canali con vostri colleghi americani?
Certamente. Già ad aprile, assieme al National Farmer Union, il sindacato statunitense degli agricoltori, avevamo inviato una lettera alla presidente Von der Leyen e al presidente Trump chiedendo di arrivare a un accordo. Ora, almeno, abbiamo eliminato il clima di incertezza.
È possibile riposizionarsi su nuovi mercati?
È un’operazione che si può fare, anche se richiede tempo. Bene che il governo, ben prima dei dazi, abbia varato un piano per guardare a nuove destinazioni. Ma, tuttavia, non possiamo permetterci di uscire dagli scaffali dei negozi americani. Se questo dovesse succedere sarebbe molto difficile, se non impossibile, rientrarvi. Il mercato Usa non è così facilmente sostituibile, anche perché quando un bene viene venduto là allora più facilmente può posizionarsi in altre realtà.
Che misure chiedete?
Un sostegno europeo per le filiere più colpite. Deve esserci un aiuto economico pubblico alle imprese proprio sul marketing e la promozione per impedire l’espulsione dal mercato Usa, perché una parte dei costi sarà riassorbita dai produttori ma una buona parte graverà sulle tasche dei consumatori.
Tommaso Nutarelli