Si apre un nuovo capitolo della vicenda Almaviva, con un presidio davanti al Mise per far luce su una situazione che, come ha sottolineato Michele Azzola, segretario generale della Cgil Roma e Lazio, “presenta ancora troppi lati oscuri, ai quali il Governo deve fare chiarezza”.
A cagione di questa opacità da parte delle istituzioni, Azzola, insieme a Riccardo Saccone, segretario generale della Slc Cgil di Roma e del Lazio, hanno inviato, il 20 febbraio, una lettere aperta al Presidente del Consiglio, al ministro del Lavoro, al ministro e al vice ministro dello Sviluppo Economico, ai presidenti delle commissioni Lavoro e ai presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, per dissipare le zone d’ombra che il caso di Almaviva si porta dietro sin dai suoi albori.
Nel marzo dello scorso anno la compagnia di comunicazioni della famiglia Tripi, aveva annunciato la mobilità per 3.000 dipendenti su tutto il territorio nazionale, 918 a Roma, 400 a Napoli e 1.670 a Palermo. La vicenda sembrava aver trovato un esito la notte del 30 maggio, quando dopo 17 ore di trattativa, si era evitato il licenziamento dei 3.000 lavoratori, ricorrendo agli ammortizzatori sociali per 36 mesi.
Un accordo, tuttavia, privo di un piano industriale che mettesse in campo soluzioni per arginare tutte le criticità che da li a poco sarebbero di nuovo esplose. “A questo punto – sottolinea Azzola – si presenta una delle prima anomalie della vicenda. Il 3 agosto, Simest, società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, acquisisce una partecipazione azionaria di Almaviva Do Brasil, anch’essa operante nei call center, per un importo di 50 milioni di real (circa 15 milioni di euro), pari al 5% del capitale sociale”.
“Dunque – prosegue Azzola – vogliamo capire se c’è una qualche relazione tra l’accordo chiuso il 30 maggio, e l’acquisizione da parte di una società riconducibile all’aria di influenza del Governo, di una parte delle quote di una partecipata di Almaviva. Inoltre perché si è deciso di comprare le quote di un call center brasiliano, e in base a quali criteri si è arrivati a stimare che questo 5% valesse 15 milioni? Dovremmo dunque desumere che il valore complessivo di Almaviva Do Brasil, sia pari a 300 milioni di euro? Considerato il suo esiguo capitale sociale?”
La cronistoria dei fatti ci porta poi al settembre scorso, quando di fatto Almaviva disconosce l’accordo di maggio, riaprendo la procedura di mobilità, e annunciando la chiusura dei siti di Roma e Napoli. La storia recente ci porta al 22 dicembre, quando, in sede ministeriale, viene firmato un accordo che prevede il licenziamento immediato per gli occupati dello stabilimento della capitale, e a partire dal 1° aprile 2017, per quelli di Napoli, salvo il raggiungimento di un’intesa che prevedesse la riduzione del costo del lavoro. Cosa che accade.
A Roma le RSU, su indicazioni dei lavoratori, non siglano l’accordo, mentre le RSU del capoluogo partenopeo sottoscrivono il patto con l’azienda. Il 16 febbraio viene redatta un’intesa, nella quale si prevede il mantenimento, da parte dei dipendenti napoletani, del proprio posto di lavoro, ma con una decurtazione del salario del 12%, il congelamento degli scatti di anzianità e la perdita del Tfr. L’accordo è stato poi accettato poi dai lavoratori campani con il referendum del 23 febbraio.
“In tutto questo – continua Azzola – dobbiamo chiederci come sia possibile che il Governo, tramite una sua azienda, abbia deciso di investire in quote azionarie di un’impresa che in Italia ha licenziato 1.666 addetti, portandone altri 800 ad accettare retribuzioni sotto le soglie di legge? Dobbiamo ricordarci infatti, come i dipendenti di Napoli, tra perdere completamente il proprio lavoro, e mantenerlo, anche a fronte condizioni durissime, hanno eletto la prima via. Un referendum che si è svolto in un clima pesantemente condizionato, palesemente privo di quella libertà che ogni voto dovrebbe avere in un contesto democratico”.
Per quanto riguarda la misure messe in campo per gli ex-dipendenti romani, sotto la regia del Governo, della Regione Lazio e dell’Anpal, sono tutte cose positive, ma che non ricuciranno a risolvere il problema. Il punto è che le politiche attive messe in campo per ricollocare gli oltre 1.500 ex-lavoratori, avranno un effetto limitato, in un mercato asfittico, incapace di assorbire nuovi posti di lavoro. Inoltre anche la possibilità, prospettata nei giorni scorsi dal Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, di riservare una corsia preferenziale, ovviamente informale, per tutti i licenziati di essere inglobali dal ramo di Almaviva che si occupa di informatica, vincitrice di diverse gare d’appalto con una situazione economica del tutto diversa, appare molto difficile. L’ostacolo principale è costituito dalla bassa qualifica di chi operava nel ramo call center, per i quali sarebbe necessario un percorso di empowerment”.
“Se ciò dovesse verificarsi, sarebbe paradossale se si concedessero ad Almaviva sgravi fiscali per aver assunto delle persone, che già facevano parte dei propri ranghi”.
“Il rischio – conclude Azzola – è che altre realtà, che operano nei call center, possano seguire la strada battuta da Almaviva. La vicenda ha creato un precedente, in base al quale un’impresa, attraverso atti di forza muscolari, possa ottenere tutte le condizioni per far fronte ad una riduzione del costo del lavoro, anche a causa di un atteggiamento fumoso da parte delle istituzioni. L’accordo di Napoli, sancito dal referendum, prevede delle condizioni fortemente peggiorative rispetto al contratto nazionale, condizioni anche fuori dal perimetro della legalità, come l’abolizione del Tfr, previsto per legge. La notizia non sono i 547 sì al referendum, ma i 138, che nonostante lo spettro della disoccupazione, hanno detto no”.