Nella settimana segnata dalla morte di Silvio Berlusconi, con relative cerimonie e polemiche, vale la pena di spendere due parole per ricordare i rapporti che il Cavaliere ebbe con i sindacati e col mondo delle imprese, dal quale proveniva. Iniziando dal rapporto con Confindustria: Berlusconi, fino al 1994, era stato un esponente di spicco dell’associazione, sedendo degli organismi dirigenti. Gli imprenditori dell’epoca, però, lo tenevano a distanza, considerandolo una sorta di parvenu. Del direttivo di quegli anni facevano parte personaggi come Gianni Agnelli, Cesare Romiti, Vittorio Merloni, Leopoldo Pirelli, Pietro Marzotto, Carlo De Bendetti, eccetera: il top dell’imprenditoria nazionale, al cui confronto il “palazzinaro” di Milano 2, nonché re della tv commerciale, risultava poco più di un arricchito.
Il quadro cambia nel 1994, quando Berlusconi decide di candidarsi alle elezioni fondando un proprio partito. Una parte della Confindustria lo appoggia convintamente, considerandolo un utile argine alla possibile, e temuta, vittoria della sinistra di Achille Occhetto. Ma un’altra parte, al contrario, vide nella sua discesa in campo un forte rischio per l’autonomia dell’associazione. Tra questi c’era l’allora presidente Luigi Abete, che cercò, non senza difficoltà, di tenere ferma la barra di Confindustria lanciando lo slogan delle tre A: autonoma, apartitica, agovernativa. Gli scontri tra i due furono spesso plateali, come nell’assemblea annuale del 1994, quando Berlusconi, fresco di ingresso a Palazzo Chigi, rivendicò come propri i contenuti del programma confindustriale, immediatamente rimbeccato dal palco da Abete: “semmai è Lei, presidente, che ha copiato il nostro programma”. Come che sia, il primo governo Berlusconi durò appena nove mesi, e il problema dell’autonomia di Confindustria dalla politica venne sostanzialmente accantonato.
Si ripresenta però nel 2001, quando a Viale dell’Astronomia siede Antonio D’Amato, outsider che riesce a vincere contro il candidato della grande impresa, Carlo Callieri, e Berlusconi torna a Palazzo Chigi. La scena del programma “mio-tuo-nostro” si ripropone, ma rovesciata: in questo caso è D’Amato che in un convegno di Parma lancia un corposo dossier sulle cose urgenti da fare per sbloccare l’Italia, con Berlusconi che a ruota annuncia: “il vostro programma è il mio programma”. Uno dei punti chiave di questo programma, così amorevolmente condiviso, consisteva nell’abrogazione dell’articolo 18, molto perseguita da D’Amato come prova muscolare nei confronti del sindacato e della Cgil in particolare.
La terza puntata dei rapporti tra Confindustria e Berlusconi si svolge nel 2006, a ridosso delle elezioni che saranno vinte, per un pugno di voti, ancora da Romano Prodi. Ed è ancora un importante convegno, questa volta a Vicenza, che vedrà lo scontro violentissimo tra il Cavaliere e i big dell’industria capeggiati da Diego Della Valle: una vera e propria rissa, con la platea di industriali divisa furiosamente tra i sostenitori dell’uno e dell’altro, a riprova di quanto il clima di quegli anni fosse reso incandescente dalla presenza in politica dell’industriale milanese.
Paradossalmente, si potrebbe dire che sono stati più “sereni” i rapporti tra Berlusconi e il sindacato. In un articolo scritto nei giorni scorsi per il Diario del Lavoro, Sergio Cofferati, che del premier fu il principale antagonista come segretario della Cgil, afferma che, pur conflittuali, furono comunque sempre corretti: “Berlusconi riconosceva il ruolo del sindacato, non lo ha mai messo in discussione, con noi trattava, si confrontava, anche duramente, ma correttamente”. Anche il leader della Cisl, Luigi Sbarra, partecipando al funerale milanese, ha avuto parole di stima nei confronti di Berlusconi: “Un interlocutore leale e autorevole del sindacato, sia come capo di una grande azienda editoriale sia, successivamente, come presidente del consiglio”.
Berlusconi, va detto, tentò più volte di dividere i sindacati, talvolta riuscendoci; ma resta che dal confronto con Cgil, Cisl e Uil uscì almeno due volte pesantemente sconfitto. La prima nell’autunno 1994, quando tentò di far passare una riforma delle pensioni che fu poi costretto a ritirare dalle fortissime proteste delle piazze chiamate a raccolta dalle confederazioni. Proteste che misero in allarme la Lega, al punto che Bossi, a sua volta, tolse l’appoggio al Governo, determinandone la caduta. La seconda sconfitta fu, nel 2002, sull’articolo 18, quando il decreto del governo che modificava lo Statuto del 70 divenne carta straccia sotto l’impatto della colossale manifestazione organizzata dal solo Cofferati al Circo Massimo. Con grande scorno di Confindustria. Ma basterà attendere qualche anno per scoprire che sindacati e imprese, nel 2011, saranno pronti ad allearsi per mandare a casa il quarto, e ultimo, governo Berlusconi: tutte le principali forze sociali ed economiche del paese, preoccupate per speculazione finanziaria globale e per la sorte di un’Italia completamente incapace di reagire e bloccata, avviarono insieme un fortissimo pressing sull’esecutivo – con tanto di documenti congiunti e “manifesti” vari – che ebbe l’esito di facilitare l’avvento di Mario Monti.
Tuttavia, da quel momento si chiuse, in sostanza, anche l’epoca del confronto vero tra governo e parti sociali. Negli anni successivi si faranno infatti riforme fiscali, delle pensioni, del lavoro, e perfino la famosa abrogazione dell’articolo 18, sempre passando sopra la testa dei sindacati. Da Monti a Renzi, ai vari governi giallorossi o gialloverdi, allo stesso Draghi, fino alla Meloni, nessuno ha più realmente ripreso a confrontarsi con le parti sociali: alle quali, al massimo, arriva una convocazione dell’ultimo minuto per annunciare decisioni già prese. Il che rende difficile anche mettere in piedi grandi proteste come un tempo; e infatti di veramente incisive non se ne sono più viste. Alla fine, va riconosciuto a Berlusconi almeno questo: stranamente, pur titolare del primo partito personale d’Italia, nonché capofila di una serie di leader populisti, non applicò mai il principio della disintermediazione, consentendo alle forze sociali di esercitare un ruolo (e un potere) che dopo di lui non hanno forse mai più avuto.
Nunzia Penelope



























