Una volta passata l’emergenza sanitaria, molte cose nel mondo del lavoro e nei nostri stili di vita cambieranno. Per Franco Busto, segretario generale della Uil Puglia, la ripresa sarà lenta, gravata da un debito pubblico che salirà fino al 150% e un impoverimento del tessuto produttivo e sociale.
Busto, com’è la situazione in Puglia?
Stiamo vivendo una situazione simile al resto d’Italia. Le multinazionali e le grandi aziende hanno chiesto la cassa integrazione fino al 3 aprile. Per quanto riguarda le imprese medio-piccole e gli artigiani, c’è la cassa integrazione straordinaria. La Regione Puglia ha stanziato 16 milioni di euro, ma le risorse non sono sufficienti, visto le innumerevoli richieste che in questi giorni ci stanno pervenendo.
Una situazione mai vista, per complessità e gravità.
La crisi che stiamo vivendo è uno tsunami sul lavoro. Il vero punto è capire quanto durerà ancora e come sarà poi la ripresa. Stiamo ancora smaltendo i postumi della recessione del 2009, e fino a questo momento ci siamo sempre confrontati con criticità legati a un settore specifico, ma mai c’era stato un blocco totale. Sicuramente, una volta passata l’emergenza, ci troveremo un tessuto produttivo e sociale estremamente impoverito. Inoltre la prospettiva di arrivare a un debito pubblico del 150%, non ci mette nella condizione di avere una ripresa che sia la più veloce possibile. Accanto a tutto questo dobbiamo vigilare per scongiurare situazioni dannose per il lavoro e la salute.
Quali?
In questa fase i comuni e le regioni, non solo la Puglia ovviamente, hanno deciso di aiutare quelle realtà economiche che non hanno mai previsto forme di sostegno per i propri addetti per situazioni emergenziali. Quello che noi temiamo è che queste realtà ora prendano gli aiuti, che poi non restituiranno alle amministrazioni locali, perché magari cambieranno nome o titolare. C’è, inoltre, la questione dei codici ATECO. Diverse aziende hanno iniziato a ragionare in termini di ATECO di filiera, per cui quell’impresa x può continuare a operare perché fornisce materiali o lavorati a qualche altra azienda di un settore al momento essenziale. È ovvio che in questo modo tutti possono tornare al lavoro, perché tutte le attività produttive sono potenzialmente connesse. Ma così non si blocca il virus.
Quali sono le prospettive per la ripresa?
Questa situazione ci deve insegnare che gli strumenti che abbiamo sempre usato non sono più sufficienti. Gli ammortizzatori sociali sono stati adoperati sempre come misure per tamponare situazioni momentanee. Oggi non è così, ed è una forma di intervento che non può essere perpetrata nel tempo. Dovremmo poi ripensare sia l’organizzazione del lavoro, gli stessi luoghi di lavoro e gli stili di vita.
Dunque non si dovrà abbandonare lo smart working una volta passata l’emergenza.
Certo che no. È una pratica che dovrà essere mantenuta e anzi incentivata per tutti quei lavori nei quali è possibili applicarlo. In questo modo è possibile ripensare radicalmente anche l’organizzazione del lavoro e anche per riflesso la nostra vita.
Riguardo ai luoghi di lavoro, in che modo dovranno essere ripensanti?
Una delle indicazioni principali per arginare il contagio è mantenere il distanziamento sociale. Nella linea di montaggio questo è ad oggi impossibile. Oppure si dice di sanificare i luoghi di lavoro e gli spazi in comune. Ma questo come si può fare negli stabilimenti della Fca o dell’Ilva che sono enormi e servono le autobotti per farlo. Dovremmo quindi ripensare anche l’edilizia industriale.
A proposito dell’Ilva, è uscita la notizia del primo lavoratore contagiato. Com’è la situazione?
Paradossale. Fino a un mese fa era il sindacato a dire che i lavoratori dovevano andare in fabbrica, mentre ArcelorMittal voleva lasciarli a casa. Ora la situazione si è capovolta. Naturalmente non possiamo spegnere tutto, perché dopo sarebbe impossibile ripartire, ma dobbiamo ridurre al minimo la presenza degli operai. Non ci possiamo permettere che l’Ilva diventi il focolaio di un contagio.
Le parla anche di un cambio degli stili di vita. Sotto quale profilo?
Oggi siamo costretti a fare molte cose online. È uno stile che non dovremmo abbandonare una volta passata l’epidemia. Potremmo così ridurre la burocrazia e avere un accesso più facile e immediato a molto documenti e pratiche.
Da questa crisi ne uscirà cambiato anche sindacato.
Certamente e anche il modo di fare il sindacalista. Anche con le difficoltà attuali noi facciamo sentire la nostra presenza e il nostro aiuto ai lavoratori, che ora, più che in qualsiasi altro momento, ne hanno bisogno. Tuttavia sta cambiando il nostro modo di comunicare e il nostro modo di partecipare alla vita nei luoghi di lavoro. L’utilizzo delle tecnologie rivestirà un ruolo sempre più considerevole.
Come valuta gli interventi attuati sin qui dal governo?
Sicuramente le cifre stanziate si qui non sono sufficienti e dovranno essere incrementate. Ma è altrettanto vero che il governo si è trovato davanti a una situazione inimmaginabile, da film apocalittico, che nessuno poteva prevedere. Quindi chi gioca continuamente con la logica del rilancio, per la quale se si dice un miliardo risponde che ne servono due, sbaglia e non fa un servizio al paese.
Come ne usciremo da questa bufera?
È molto difficile prevederlo. Temo che molte aziende chiuderanno e che aumenterà la disoccupazione, anche se, in termini numerici, è molto difficile dire quello che sarà lo scenario futuro. Dovremmo anche considerare il calo drastico dei consumi per alcuni beni, non di certo quelli alimentari e di prima necessità, ma tutti quelli durevoli, come le automobili.
Qualche auspicio per il futuro?
Che si recuperi un po’ di umanità e di solidarietà. Questo a tutti i livelli.
Tommaso Nutarelli