Nel 1965, fu partendo dalla California che il gruppo pop dei Beach Boys fece ballare gli adolescenti in tutti gli Stati Uniti e in Europa con una versione particolarmente fortunata della mitica canzone dedicata a una certa Barbara Ann. Cinquanta anni dopo, è ancora dalla California che un’altra Barbara Ann manda un messaggio destinato ad avere una bella risonanza sulle due coste dell’Atlantico e oltre.
Sul dibattito sulla legittimita’ del servizio offerto da Uber, in corso anche in Italia, e reso vivace dall’ordinanza cautelare con cui, il 25 maggio, il Tribunale di Milano ha inibito temporaneamente Uber Pop, plana infatti una notizia in arrivo proprio dalla California. Qui la Labor Commission ha deciso che gli autisti di Uber devono essere considerati come dei lavoratori alle dipendenze e non come dei “contractors” indipendenti.
Questa decisione è stata assunta in marzo, ma il caso è stato reso noto solo oggi dal sito del “New York Times”. Due valenti cronisti della celebre testata statunitense hanno infatti scoperto che martedì 16 giugno Uber ha presentato un ricorso contro l’ordinanza con cui la Commissione ha imposto alla stessa Uber di rifondere una somma pari a 4.152 dollari e 20 centesimi a tale Barbara Ann Berwick, per spese varie sostenute nel periodo in cui la donna ha lavorato come autista utilizzando l’app fornitale dall’azienda.
Uber, scrivono Mike Isaac e Natasha Singer, si è presentata da tempo come una “logistic company”, ovvero non come una classica compagnia di taxi, ma piuttosto come un’azienda con funzioni logistiche, fornitrice di un’app con cui aspiranti autisti e aspiranti passeggeri possono incontrarsi per stabilire fra loro transazioni private relative al trasporto automobilistico dei secondi ad opera dei primi. In particolare, Uber ha sostenuto di non esercitare alcun controllo sulle ore lavorate dai suoi autisti, né di richiedere loro di compiere un numero minimo di viaggi.
Invece, secondo la Labor Commission il comportamento effettivo della Uber è sostanzialmente simile a quello di un datore di lavoro. In particolare, la Commissione ha sottolineato che è stata la Uber a provvedere gli autisti di telefoni e che la stessa Uber ha disattivato le sue app ai guidatori che fossero rimasti inattivi per un periodo di 180 giorni.
I ricorrenti – ha scrittola Commisssione – si sono presentati come “nothing more than a neutral technological platform”, ovvero come niente di più che una piattaforma tecnologica neutrale, volta a consentire ad autisti e passeggeri di mettersi d’accordo fra loro rispetto a un servizio di trasporto. Tuttavia, secondo la stessa Commissione, “i ricorrenti sono coinvolti in ogni aspetto dell’intera operazione”.
Secondo i cronisti del “New York Times”, questa ordinanza potrà costituire un precedente rispetto alla regolazione dell’ancora magmatica realtà della sharing economy. Ciò, naturalmente, rispetto alla realtà giuridica degli Stati Uniti, strutturalmente diversa da quella del nostro paese. Tuttavia, non si può non notare una certa sintonia fra quanto disposto dalla commissione californiana e quanto ipotizzato dal Tribunale di Milano. Secondo quest’ultimo, Uber eserciterebbe una concorrenza sleale verso le cooperative di tassisti perché abbatterebbe il costo del lavoro dei suoi autisti proprio in grazia del fatto che, non considerandoli lavoratori, evita il pagamento dei contributi previdenziali ad essi relativi. Da questo punto di vista, la decisione assunta nello Stato americano è ancora più forte. Non solo gli autisti di Uber sono lavoratori, ma sono addirittura lavoratori dipendenti.
@Fernando_Liuzzi