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Home - Approfondimenti - Interviste - Capone, la lotta di classe è finita ma Cgil, Cisl e Uil non se ne sono accorte

Capone, la lotta di classe è finita ma Cgil, Cisl e Uil non se ne sono accorte

di Massimo Mascini
12 Luglio 2021
in Interviste
Capone (Ugl) “I lavoratori pagano con la propria vita il prezzo di riforme sbagliate”

La lotta di classe è finita, ma non tutti se ne sono accorti, creando così un danno grave al paese. E’ quanto pensa Paolo Capone, il segretario generale dell’Ugl. Che non nega il valore di questa lotta di classe, che ha avuto il grande merito di emancipare la coscienza dei lavoratori rispetto a forme di sfruttamento del lavoro. Ma pensa che adesso si debba condurre la battaglia per i diritti e le tutele con altri strumenti, soprattutto con la partecipazione, come detta la nostra Costituzione. Una Ugl polemica con Cgil, Cisl e Uil, che Capone accusa di praticare una conventio ad excludendum condotta per non allargare il campo della contrattazione. Una pratica che, è sempre Capone che parla, ha condotto alla battaglia delle tre grandi confederazioni contro il contratto firmato da Ugl per i rider. Ma noi, afferma Capone, abbiamo solo perseguito i desideri dei lavoratori, i quali volevano un contratto che mantenesse la loro autonomia.

La Ugl sbarca a Bruxelles. Capone cambiate casa?

Ma no, abbiamo solo aperto una sede a Bruxelles.

Una novità?

Fino a un certo punto. Noi siamo dall’inizio degli anni 2000 nel Cese, il Comitato che in Europa accoglie i rappresentanti delle parti sociali. Un modo per collegare la nostra azione in Italia con le istanze che si discutono in Europa. Era un impegno al quale tuttavia non dedicavamo troppe energie. Le cose sono cambiate quando con il rinnovo delle nomine del Cese abbiamo indicato a rappresentarci il nostro segretario generale aggiunto, Luigi Ulgiati. Con lui ci siamo presi l’impegno di trasformare questa presenza a Bruxelles in una vera e propria cinghia di trasmissione tra i lavoratori italiani che rappresentiamo e l’Europa.

Qualcosa di concreto, non solo parole?

No, è un impegno vero, il Cese è solo un organo consultivo, ma emette pareri su tutta la legislazione dell’Unione, quindi è il luogo giusto per avere un forte collegamento tra la nostra azione e la gestione dei problemi in Europa.

E avete preso una sede a Bruxelles.

Ci è sembrato naturale. Adesso abbiamo un nostro recapito al Rond Point Schuman e siamo intenzionati a farci sentire.

Insomma, uscite dai confini nazionali per essere più forti.

Ma la nostra internazionalizzazione non comincia adesso. Del resto, siamo l’unico sindacato di centrodestra al mondo ufficialmente riconosciuto come tale e abbiamo fatto scuola. Adesso si muovono gli spagnoli di Vox, che dopo un lungo confronto con noi hanno dato vita a un sindacato che ha preso il nome Solidariedad, proprio per non sbagliare e farsi capire. Ma abbiamo anche contatti forti con Blu, il sindacato espressione dei conservatori inglesi e abbiamo avviato confronti con sindacati di diverse nazioni, dell’Est, in Romania, Ungheria, Albania, con la Russia, ma anche con Francia, Turchia, Stati Uniti.

E’ Ulgiati il vostro ministro degli Esteri?

Meglio dire il nostro ambasciatore, è Ulgiati che tiene tutti i rapporti ufficiali, ma il vero motore della nostra politica estera è Gianluigi Ferretti, uomo di grande esperienza, per tanti anni alla Fao, che ha rapporti stretti con tutto il mondo. A lui abbiamo delegato la costruzione di questi rapporti con altre realtà sociali sparse in tutto il mondo.

Cosa vi aspettate da questa fitta rete di rapporti che state intessendo?

Puntiamo a contaminare e a farci contaminare, vogliamo avere una visione più ampia delle difficoltà e delle eccellenze del mondo del lavoro, per superare ogni forma del provincialismo di cui purtroppo siamo tutti vittime in Italia. Cerchiamo un modo diverso di guardare i problemi, consolidando così una chiave di lettura originale dei rapporti tra la produzione e il lavoro che si sostanzia nel superamento della lotta di classe e nella costruzione di politiche basate sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.

Capone, quindi lei dice che è finita la lotta di classe?

La lotta di classe è nata due secoli fa, ha avuto nella prima parte del 900 il grande merito di emancipare la coscienza dei lavoratori rispetto a forme di sfruttamento che erano pratica usuale in tutto il nostro paese. Oggi ha esaurito la sua spunta propulsiva, e possiamo affermare un diverso modello di relazioni industriali basato appunto sulla partecipazione. Del resto, non abbiamo inventato nulla, è tutto scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione all’articolo 46. Il punto è che non tutti si sono accorti che la lotta di classe è finita, che non risponde più alle esigenze dei lavoratori e diventa una posizione di retroguardia.

I motivi per lottare ci sono ancora.

Sì, ma devono cambiare gli strumenti con cui lottare. Il movimento sindacale, tutto, noi compresi, è in grave ritardo nella comprensione dei cambiamenti in atto nel mondo della produzione e del lavoro. Difendere i diritti dei lavoratori resta la nostra missione, ma non leggere la realtà circostante, non accorgersi di come è cambiato il mondo, è un errore gravissimo. Dovremmo interrogarci tutti su questi temi, il nostro obiettivo deve essere la crescita della competitività del paese e della produzione e la giusta tutela dei lavoratori.

Lei dice che tutto il sindacato è in grave ritardo in questa elaborazione. Ma voi di questo avete mai parlato con le altre confederazioni sindacali, con Cgil, Cisl e Uil?

No, in realtà i momenti di confronto con le altre confederazioni sindacali sono prevalentemente legati a incontri di carattere istituzionale. Le tre grandi confederazioni tendono per lo più a creare una conventio ad excludendum nei confronti delle altre organizzazioni. Come fa peraltro Confindustria nei confronti delle altre organizzazioni di imprese, che pure sono tante e anche forti.

Eppure c’è stato un momento, qualche anno fa, in cui sembrava che i rapporti tra voi e Cgil, Cisl e Uil fossero cambiati, tanto che si parlava ormai di quattro confederazioni di lavoratori. Che è successo?

Non saprei indicare cosa sia successo e perché. Forse ha avuto un ruolo il fatto che quelle organizzazioni hanno affiancato alla consolidata realtà di azioni sindacali una fitta rete di servizi e attività non proprio sindacali.

Questo ha creato una distanza?

Diciamo che si è creata una dicotomia tra quanto è stato dichiarato e la pratica quotidiana. E questo ha pesato nei nostri rapporti.

Ma adesso che relazioni intrattenete?

Lo ho già detto, abbiamo solo rapporti istituzionali.

Il caso dei rider esemplifica questa difficoltà nei rapporti?

Sì, perché dei lavoratori hanno espresso il bisogno di un contratto collettivo in un ambito di lavoro autonomo, ma questo non rientrava nelle disponibilità di Cgil, Cisl e Uil. Con un approccio meno ideologico e un maggiore disponibilità all’ascolto della categoria avremmo potuto trovare una soluzione condivisa. Di fronte alla loro posizione molto negativa noi abbiamo deciso di definire un contratto di lavoro a valenza nazionale.

Che però ha dato il via a reazioni molto forti e tutte negative.

Reazioni molto ideologiche che hanno portato a una presa di distanza rispetto al contratto che noi avevamo firmato per questa categoria. Cgil, Cisl e Uil, ma anche il ministero del Lavoro, hanno negato la validità del contratto, proprio mentre invece numerosi giuslavoristi riconoscevano la legittimità di un contratto che può e dovrà essere migliorato, ma che rappresenta sempre l’esigenza di una categoria di lavoratori che vogliono mantenere la loro autonomia, seppure in un quadro di regole e di diritti esigibili.

Hanno detto che non eravate sufficientemente rappresentativi per firmare quel contratto.

Un’affermazione falsa e tendenziosa rivoltaci per smontare la legittimità della sottoscrizione del contratto. La verità è che da che mondo è mondo i contratti si negoziano dopo aver ascoltato i lavoratori e si sottoscrivono dopo aver avuto la loro approvazione, e la Ugl non si è mai sottratta a questa prassi. Noi siamo fermi nella nostra determinazione, ma riteniamo questo caso un semplice episodio, che rappresenta però molto chiaramente i problemi che organizzazioni sindacali blasonate incontrano nel leggere correttamente i cambiamenti che stiamo vivendo e che vive il lavoro. Credo che il punto focale di tutta questa situazione sia la natura giuridica dei rider, se sono o meno lavoratori autonomi. Loro avanzano questa richiesta e per noi dell’Ugl questo ha portato all’esigenza di dare una risposta adeguata.

Il caso dei rider ha messo in evidenza un nodo salariale di gravi proporzioni originato per lo più dalla caduta verticale che il valore del lavoro ha subito negli ultimi e non solo ultimi anni. I guasti causati da questa caduta sono stati molto profondi nell’assetto della nostra società. Come se ne esce?

Il problema esiste e ha gravi implicazioni. In occasione del 1° maggio abbiamo presentato una ricerca svolta da Censis e Ugl dalla quale è emerso che in Italia esistono un milione e mezzo di lavoratori poveri. Persone che hanno un lavoro, non chi si trova in un momento di fragilità dovuto all’assenza di lavoro. Hanno un lavoro ma questo è pagato poco, troppo poco. Per questo credo che più che immaginare oggi leggi per definire il salario legale, cosa che possiamo lasciare alla contrattazione come è sempre stato fatto, dovremmo interrogarci su come lanciare una campagna di crescita del reddito, specie nella fascia media dei lavoratori, che è quella che ha sofferto di più. Il problema non è il reddito legale, ma la quantità di reddito che possiamo assicurare a questa fascia di lavoratori che non riescono a garantire a se stessi e alle loro famiglie una vita dignitosa.

Il lavoro è pagato poco. Colpa degli imprenditori che si accontentano di una prestazione modesta, che non puntano alla qualità, e quindi retribuiscono in maniera molto debole i loro dipendenti, o del sindacato che non ha fatto bene il suo mestiere?

Sicuramente è difficile trovare un’unica responsabilità. Il sindacato si è preoccupato di garantire poco a tutti, un’impostazione sbagliata che per fortuna non è propria di tutti i contratti collettivi, ma è certamente stata seguita per i contratti che si riferivano a lavori a bassa specializzazione, un’impostazione che ha favorito il ricollocamento verso il basso delle retribuzioni da parte delle imprese. Nel nostro paese una mentalità meritocratica e premiale è per lo più considerata quanto meno non indispensabile. Una colpa grave, anche se va detto che le aziende hanno dovuto in tanti casi confrontarsi duramente con i mercati, specie con quelli dove la produzione è assicurata da un costo del lavoro molto più basso che da noi. Le delocalizzazioni sono state l’effetto più evidente di questa politica, si sono salvate solo le produzioni di eccellenza, che per fortuna non sono poche.

Questa politica di bassi salari e scarsa attenzione alla qualità della produzione ci mette in difficoltà. Certamente adesso che parliamo di ripartenza servirebbe una grande campagna di formazione per elevare il livello qualitativo dei lavoratori. Tutti lo affermano, ma la realtà è che in Italia di formazione se ne fa molto poca.

E’ vero, in Italia la formazione, fatta salva quella praticata dai fondi interprofessionali, non corrisponde alle esigenze di aggiornamento delle competenze dei lavoratori. Servirebbe un cambio di passo, specie per la formazione professionale finanziata dal Fse, dallo Stato, dalle regioni. Basta pensare al fatto che in Italia abbiamo 20 regioni e ognuna ha un proprio repertorio. Solo Puglia e Toscana hanno uniformato le loro norme.

Questo crea problemi?

Certo. Pensi a un tornitore che ha seguito un corso di formazione in Sicilia, poi si trasferisce in un’altra regione, nemmeno tanto distante dalla sua, e non si vede riconosciuta la propria competenza perché le norme classificatorie sono diverse. Lui avrà problemi, ma li avrà anche l’imprenditore che avrebbe potuto assumerlo, ma ha bisogno di certezze sulle sue competenze. Nasce anche così il mismatch sul mercato del lavoro che nei fatti blocca la mobilità tra regioni. Eppure basterebbe qualche seduta della Commissione Stato – Regioni e a n costo vicino allo zero potremmo avere un unico repertorio delle professioni, e quindi interventi formativi spendibili in qualsiasi regione.

Il titolo V della Costituzione è quindi da riformare?

Servirebbe un ripensamento dell’intero titolo, non solo per la formazione, perché sono convinto che attraverso le regioni potremmo contribuire a rendere più dinamico e moderno il paese tenendo conto dei principi di solidarietà e garantendo adeguati livelli essenziali di servizi in molto ambiti, compreso quello della sanità.

Massimo Mascini

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