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Home - Approfondimenti - Analisi - Carenze della legge e funzione della contrattazione collettiva

Carenze della legge e funzione della contrattazione collettiva

18 Febbraio 2005
in Analisi

di Francesco Liso, Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università di Roma – La Sapienza

In via preliminare desidero esprimere apprezzamento per l’opinione che Marazza formula sulla qualità tecnica dell’intervento del legislatore sulla materia della collaborazioni coordinate e continuative. Nel disciplinare il lavoro a progetto (e direi, non solo in quest’area) il legislatore non ha avuto – uso parole mie – una perizia adeguata alla delicatezza ed alla complessità del tema. Marazza ammette, ed io concordo, che passerà parecchio tempo prima che si possa stabilizzare una lettura degli effettivi contorni di quella figura ad opera della giurisprudenza. Non è stato un bel servizio reso al Paese aver creato questa situazione di incertezza ed aver omesso aggiustamenti nel decreto correttivo di recente intervenuto. In un seminario al quale ho partecipato, a Pescara, ho appreso che si sta facendo largo uso del contratto di lavoro a progetto. Evidentemente l’incertezza non si è tradotta in cautela, ritenendosi disinvoltamente di poter risolvere il tutto nell’ allegazione di un foglio con indicazioni delle attività convenute, alle quali viene solo appiccicata la definizione di progetto o programma. Si prepara in questo modo il terreno ideale per controversie che, prima o poi, verranno instaurate dai lavoratori che riusciranno a sottrarsi alla condizione di ricatto occupazionale, frequente in mercati non dinamici.

Fatta questa considerazione preliminare, va detto che è pienamente condivisibile l’assunto di fondo dell’ intervento di Marazza, che per comodità anche qui riformulo con parole mie: se ci si dedicasse – e l’invito deve essere rivolto in primo luogo all’autonomia collettiva – a rivisitare la disciplina del rapporto di lavoro (nella quale non è certo la disciplina dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori l’elemento che gioca il rilievo maggiore), si darebbe il contributo più serio a contrastare le spinte alla precarizzazione dei rapporti e all’affermazione della centralità del lavoro a tempo pieno e indeterminato.


Condivisibile risulta, pertanto, la sua critica all’eccessiva pluralizzazione dei modelli contrattuali operata dal legislatore e l’auspicio che si eserciti maggiore equilibrio nella disciplina degli stessi. Penso, ad esempio, al lavoro a tempo parziale ed al lavoro intermittente. A proposito di quest’ultimo, un interrogativo mi assilla (e non sono il solo a soffrirne). E’ un interrogativo che si è fatto ancora più acuto dopo aver constatato che il Governo non ha ritenuto di operare alcuna correzione; infatti mi sono detto: allora una risposta ci deve essere. Confesso che – per quanti sforzi faccia – non riesco a trovarla. L’interrogativo è il seguente: perché si è previsto che al lavoratore non vada riconosciuta alcuna indennità di disponibilità nel caso in cui egli sia rimasto in attesa della chiamata in periodi predeterminati (ad esempio, le vacanze di Natale) e la chiamata non sia poi venuta? Quale grammatica della logica e del diritto possono giustificare una simile stravagante costruzione, considerando che il lavoratore, se la chiamata fosse venuta, sarebbe stato vincolato a rispondervi? E’ un interrogativo che voglio affidare al Diario del Lavoro, nella speranza che attraverso la competenza e la dottrina dei suoi collaboratori possa riuscire a trovare una risposta.


Riprendendo il filo del discorso, ti dico che – mettendo a frutto gli intelligenti spunti offerti da Marazza e andando oltre – sarebbe interessante sviluppare proposte riguardo alle possibili innovazioni della disciplina del rapporto nella prospettiva di incentivare un utilizzo dello schema del lavoro subordinato. Si dovrebbe, rivolgere la provocazione soprattutto alle parti sociali e raccogliere, su questo giornale, le loro reazioni. Quali contributi esse possono dare in questa direzione?


Per conto mio, voglio limitarmi a segnalare, ad esempio, la disciplina del patto di prova. Non v’è dubbio che la funzione di quell’istituto è stata soffocata dall’autonomia collettiva attraverso la previsione di periodi di prova eccessivamente brevi. Quanti contratti di lavoro a termine potrebbero essere sostituiti da periodi di prova più congrui?


Andando più al fondo, si deve dire che, interrogandosi sulla ragione per la quale le aziende vedono con favore l’utilizzo del contratto di lavoro autonomo coordinato – quand’anche ad esse si prospetti, come fa l’attuale Governo, la possibilità di una più ampia disponibilità di schemi contrattuali di lavoro subordinato – Marazza risponde che ciò che attira le imprese nella direzione del lavoro autonomo è la sua maggiore produttività, conseguente al sistema retributivo che lo caratterizza, nel quale il trattamento corrispettivo risulta collegato direttamente ai risultati della prestazione lavorativa.


Si può convenire con la centralità di questa considerazione, anche se non sono in grado di valutare le cifre che lui riporta. Non trascurerei, tuttavia, di considerare l’insieme dei vantaggi che il datore riceve dal non essere tenuto a rispettare le norme del lavoro subordinato. Da questo punto di vista non mi sentirei di svalutare, come Marazza fa, con una certa eleganza, il peso del costo connesso alla contribuzione previdenziale (che continua a presentare un rimarchevole differenziale, nonostante la riduzione di quest’ultimo meritevolmente perseguita dal legislatore), nonché – anche se, a mio avviso, meno decisivo – il peso del “costo” connesso ad alcune discipline protettive, tra le quali non escluderei il famoso articolo 18.


Qualche breve osservazione è assolutamente doverosa a quest’ultimo riguardo, dato che – come è noto – l’articolo 18 è divenuto un argomento dal quale è opportuno tenersi a debita distanza, dopo che è divenuto oggetto di un confronto puramente ideologico. Ne è derivata una situazione in cui sembra che a questo tema sia stata apposta quella targhetta che si trova su alcuni pali (“chi tocca muore”). Ce ne ha dato una riprova la saggia posizione presa dalla nuova dirigenza della Confindustria al riguardo.


Alla minacciosa azione del Governo, che – provocatoriamente sventolando l’idea secondo la quale sono le protezioni degli occupati la causa della sottoprotezione dei lavoratori marginali – si proporrebbe di improvvisare una sperimentazione per comprovare l’indimostrabile effetto depressivo che quell’articolo produrrebbe sulla dimensione occupazionale delle aziende e, quindi, per mettere in discussione la disciplina della reintegrazione in quanto tale, si é doverosamente reagito ribadendo l’intangibilità di quell’articolo, che presidierebbe l’effettività di molte discipline protettive e costituirebbe condizione ineliminabile per garantire la dignità del lavoro (efficace lo slogan “Tu si tu no” creato dalla Cgil contro l’improvvida iniziativa del Governo).


In questo confronto le ragioni dell’ideologia – ben visibili su entrambi i fronti – hanno finito per sbarrare la strada alla ponderazione ed alla riflessione. A mio avviso, questa strada dovrebbe dare per scontato, da un lato, che l’articolo 18 costituisce uno strumento che non può essere messo in discussione (dal momento che corrisponde al grado di maturazione raggiunto dal nostro sistema giuridico e sociale) e, dall’altro lato, che il modo in cui quell’articolo talvolta opera può indurre i datori di lavoro a preferire l’utilizzo del lavoro altrui mediante schemi che eliminino in radice il rischio della sua applicazione.


Ove si volesse percorrere questa strada, si potrebbe convenire sul fatto che le correzioni andrebbero operate, più che sull’articolo 18 – che nel complesso tiene bene, ad eccezione di qualche piccola sbavatura -, sul quadro più complessivo nel quale quell’articolo si trova a operare, che è per più versi inadeguato. In altri termini, quello che non va, non è tanto il fatto che il datore di lavoro venga costretto alla reintegrazione, quanto il fatto che questa sanzione finisce non poche volte per apparire eccessiva.


Cospira in questa direzione un insieme di fattori ai quali posso qui fare solo un semplice accenno. In particolare:


a) l’incertezza obiettivamente esistente, in alcune aree di confine, circa le situazioni che legittimano il licenziamento (le formule utilizzate dal legislatore, come è noto, sono molto generiche e quindi rendono spesso cruciale il variabile apprezzamento del giudice);


b) l’uniformità del sistema sanzionatorio, che mette sullo stesso piano qualsivoglia violazione, indipendentemente dalla sua gravità (un licenziamento discriminatorio è posto sullo stesso piano di una mera irregolarità formale), perseguendo pregiudizialmente un obbiettivo afflittivo oltre che ripristinatorio (mi riferisco alla previsione del risarcimento, che non può mai essere inferiore alle cinque mensilità, nonché alla previsione che consente indiscriminatamente al lavoratore di rifiutare la reintegrazione e di pretendere, in alternativa, il pagamento di quindici mensilità);


c) i lunghissimi tempi che il sistema giudiziario impiega nella soluzione della controversia e quindi i notevoli costi aggiuntivi che possono derivarne per l’impresa.


In conclusione, il vero problema non dovrebbe essere quello di mettere in discussione l’articolo 18, che contiene un importantissimo principio, bensì quello di creare condizioni di maggiore certezza e di maggiore equilibrio, nell’interesse di tutti.


Le stesse considerazioni potrebbero svolgersi per altre aree della legislazione lavoristica, nelle quali parimenti andrebbero create condizioni che possano favorire una maggiore capacità del sistema regolativo di corrispondere alle esigenze di certezza che le imprese hanno per poter operare con minori diseconomie.


Una delle strade principali da percorrere in questa direzione dovrebbe essere quella di una valorizzazione del ruolo della contrattazione collettiva, che oggi in quelle aree è invece totalmente subordinata alla legge (per fare un esempio: vi sono stati casi in cui il giudice, dovendo apprezzare se una determinata situazione fosse idonea a giustificare il licenziamento, ha escluso tale idoneità, pur in presenza di clausole del contratto collettivo di segno esplicitamente contrario; il giudice poteva ben farlo, essendo a lui  rimessa dalla legge la responsabilità di qualificare determinati fatti come idonei o meno a giustificare il licenziamento).


In altri termini, bisognerebbe andare verso un sistema in cui un numero crescente di regolazioni risulti sottratto alla rigida fonte legislativa e trasferito alla contrattazione collettiva, la quale, per la sua maggiore duttilità, costituisce uno strumento in linea di principio capace di gestire meglio della legge il bilanciamento tra le esigenze di tutela dei lavoratori e le dinamiche del sistema economico.


Nel dire questo, so bene che è una strada che rischia di restare un mero esercizio teorico; per due ragioni.


La prima è che non tutte le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro hanno nel proprio codice genetico una sufficiente dose di filosofia partecipativa, che costituisce una precondizione perché la strada possa avere una qualche possibilità di essere percorsa.


La seconda è che il nostro sistema manca di una strumentazione idonea a supportare il maggior carico funzionale che si finirebbe per porre sulle spalle della contrattazione collettiva. Alludo al problema della rappresentatività e dell’efficacia generalizzata dei contratti, che – come sappiamo – costituirà uno dei nodi più difficili che affliggeranno il centrosinistra, se dovesse andare al Governo.

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