Quasi tre mesi di attesa, per una convocazione che non arriva. Il sindacato va in pressing sul neo ministro del lavoro Andrea Orlando, accusandolo di disattenzione su un tema fondamentale come la previdenza. A fine anno scade quota 100, il tempo per trovare una soluzione è ormai brevissimo. Per questo, spiega Roberto Ghiselli, membro della segreteria Cgil e responsabile, appunto, delle pensioni, ci si sarebbe aspettati da Orlando almeno un segno di vita. Invece, niente. Eppure, si tratta di questioni di urgenza assoluta: “Da mesi chiediamo un incontro al ministro Orlando, ma lui replica che ci sono altre urgenze. E’ vero, c’è il lavoro, il blocco dei licenziamenti, la riforma degli ammortizzatori sociali. Ma anche questa è un’urgenza. Il 31 dicembre è qui, ormai, e le persone dovranno sapere cosa succede, che condizioni ci saranno per andare in pensione”.
Stento a credere che il ministro Orlando sia sordo o insensibile su questi temi, Ghiselli.
Delle due l’una: o il ministro Orlando sottovaluta la portata dei problemi che abbiamo di fronte a brevissima scadenza, oppure il governo pensa di intervenire semplicemente allargando l’Ape sociale. Un intervento sporadico, come accaduto per gli esodati, poi con l’Ape, poi con quota 100, eccetera. Mentre la nostra sfida è fare una riforma organica, che dia certezze per qualche decennio e sia sostenibile dal punto di vista economico. Le persone non corrono verso la pensione, non più. L’idea della flessibilità in uscita è praticabile perché oggi non conta l’età in cui vai in pensione, gli anni di contributi, ma la loro entità. Purtroppo c’è un deficit culturale che impedisce di affrontare laicamente, direi, questo argomento.
Quota 100 non è stata esattamente un successo, tra l’altro.
Quota 100 sta andando come l’avevamo prevista noi della Cgil, con circa un terzo delle adesioni rispetto al previsto, e dunque con una minore spesa di quasi 6 miliardi e mezzo. Il sistema previdenziale tiene. Se si approfittasse di questo momento per fare la riforma necessaria, non ci saranno percussioni sui conti. Ma non rincorri quota 100 facendo quota 101 o 102. Quella soluzione aveva un grosso limite, parlava solo a un parte dei lavoratori, escludendo tutti coloro che hanno avuto un percorso lavorativo intermittente e non possono contare sui 38 anni di contributi. La nostra idea è di superare tutto questo, riprendere il tema della flessibilità in uscita, lasciando alle persone la libertà di decidere. E’ un ragionamento su cui ormai stanno arrivando tutti, ci sono elaborazioni in questa direzione.
La flessibilità costa, vi risponderebbe il governo.
L’elemento di novità, di cui nessuno sembra tenere conto, è che in due anni è cambiato il mondo: ormai anche il sistema misto ha una quota di retributivo molto bassa, è quasi tutto contributivo. L’effetto di una maggiore flessibilità in uscita sarebbe solo quella di un anticipo della spesa, non di una spesa aggiuntiva. E’ chiaro che un minimo aggravio di spesa, finché hai un briciolo di retributivo, c’è. Ma consideriamo che si viene da quota 100, che costa 8 miliardi l’anno; le nostre soluzioni costano molto meno.
A parte la flessibilità in uscita, quali sono le vostre proposte che il governo non vuole ascoltare?
Le cose urgenti da risolvere sono moltissime. Ci sono da rivedere, per dire, i meccanismi per l’Iso pensione e per i contratti di espansione: anche in vista dei processi di ristrutturazione che indubbiamente ci saranno nei prossimi mesi, si tratta di strumenti che consentono di favorire il ricambio generazionale, salvando l’occupazione dei più giovani. E poi c’è il problema dei lavoratori più fragili, che andrebbero inseriti nelle categorie che possono accedere all’Ape sociale. E tutto il tema dei lavori usuranti: un operaio vive in media tre anni in meno di un dirigente, e qualcosa vorrà dire. E poi il lavoro di cura delle donne, che va riconosciuto. E infine i giovani, per i quali è necessaria la pensione di garanzia, un meccanismo che integra i “vuoti” di una carriera lavorativa discontinua senza essere assistenziale.
Sul serio pensate che sarebbe possibile, in pochi mesi, fare una riforma organica delle pensioni?
Assolutamente sì. Il grosso del lavoro era già stato fatto col precedente governo e col precedente ministro, Nunzia Catalfo. Era stato concordato con noi un percorso, c’era un gruppo di esperti che aveva lavorato a lungo, un prezioso lavoro istruttorio. Poi c’erano due commissioni specifiche, una per i lavori gravosi, l’altra per la separazione previdenza assistenza, e infine, la promessa di una legge delega entro l’estate, da arricchire con i decreti in autunno, in modo che dal 1 gennaio 2022 ci fossero certezze. Dopodiché c’è stato stato il cambio di governo, ed è legittimo che il nuovo ministro faccia come meglio crede: ma almeno si dovrebbe tenere conto di questo lavoro a monte, recuperando quanto fatto in precedenza. Ci sono, inoltre, le molte proposte in Parlamento; c’è la nostra piattaforma unitaria; ci sono i contributi di molti esperti e studiosi. Tutti hanno fatto proposte, e dunque il materiale, le basi per lavorare rapidamente a una riforma delle pensioni, ci sono. Basterebbe iniziare.
Manca solo la volontà politica, allora?
Bisognerebbe capire se c’è la volontà politica di questo ministro, di questo governo, per fare una cosa seria, o se si intende limitarsi a qualche ritocco. Sapendo però che il tema pensioni è molto sentito da tutti i cittadini, e sarebbe un grosso errore di valutazione trascurarlo. Soprattutto per la sinistra sarebbe un errore imperdonabile, che la allontanerebbe ancora di più dal mondo del lavoro”.
Nunzia Penelope