La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23665 del 21 agosto 2025, ha esaminato e deciso il caso di un’associazione di pronto soccorso che impiegava propri soci come autisti-soccorritori per i turni del 118, riconoscendo a ciascuno di loro 25 euro per ogni turno di otto ore. L’associazione qualificava tale erogazione come “rimborso spese”, senza però richiedere alcuna documentazione delle spese sostenute dai volontari. In pratica, indipendentemente dal fatto che il socio dovesse percorrere molti chilometri o restare vicino a casa, che pranzasse fuori o portasse il pasto da casa, il rimborso era sempre lo stesso: 25 euro. Questo meccanismo “a forfait” è stato il punto critico dell’intera vicenda. L’Ispettorato del Lavoro di Bari ha ritenuto che non si trattasse di rimborso ma di vero e proprio compenso, idoneo a dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato mascherato. L’associazione, invece, sosteneva che quei 25 euro servissero a coprire spese certe e prevedibili, come carburante e pasti, che ogni volontario era chiamato comunque a sostenere per garantire la propria presenza al turno. La Corte d’Appello di Bari ha escluso che vi fosse subordinazione, osservando che non erano emerse prove di un assoggettamento dei volontari a direttive datoriali stringenti, ma la questione dei rimborsi è rimasta centrale in Cassazione.
La Suprema Corte ha richiamato l’articolo 2 della legge n. 266 del 1991 e l’articolo 17 del Codice del Terzo Settore (d.lgs. 117/2017), i quali stabiliscono che l’attività di volontariato non può essere retribuita in alcun modo e che i rimborsi spese sono consentiti solo se legati a spese effettive, documentate e previamente autorizzate secondo limiti fissati dall’associazione. Ne consegue che i rimborsi forfettari, essendo scollegati da spese puntuali e verificabili, non sono veri rimborsi ma compensi, e come tali sono soggetti a tassazione e possono diventare indizi di rapporti di lavoro non dichiarati. La Cassazione ha chiarito che, se un’associazione vuole rimborsare un volontario, deve pretendere e conservare ricevute, scontrini o titoli di viaggio, in mancanza dei quali l’erogazione assume natura retributiva.
Non si tratta di un caso isolato: già in precedenza la Corte aveva affermato principi analoghi. Con la sentenza n. 23890 del 2015 e con la n. 24451 del 2018 la Cassazione aveva sottolineato che i rimborsi forfettari non possono mai considerarsi “spese” ma sono veri compensi imponibili; con la n. 12964 del 2008, la n. 10974 del 2010 e la n. 9468 del 2013 aveva precisato che il divieto dei rimborsi forfettari ha carattere “antiabusivo”, proprio per evitare che il volontariato venga usato come schermo per rapporti di lavoro,_ autonomi, parasubordinati o subordinati- non dichiarati. L’ordinanza del 2025 si inserisce dunque in un filone giurisprudenziale costante, che mira a tracciare un confine netto tra volontariato e lavoro retribuito.
Nel caso concreto non è stato riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato, perché non c’erano gli elementi tipici della subordinazione, ma la pronuncia è chiara nel segnalare che anche somme modeste, come i 25 euro a turno, se forfettarie e non documentate, sono incompatibili con la disciplina del volontariato. Da questa decisione deriva un monito preciso: le associazioni devono abbandonare la prassi dei rimborsi a forfait e organizzarsi con sistemi trasparenti di rendicontazione conformi all’articolo 17 del Codice del Terzo Settore, mentre sindacati e lavoratori devono vigilare affinché la forma del volontariato non venga usata per aggirare le tutele e i diritti tipici del lavoro.
Sentenza Cass. civ., sez. lav., ordinanza n. 23665/2025, depositata il 21 agosto 2025 – Relatore: dott.ssa Elena Boghetich
Biagio Cartillone