La timidezza delle organizzazioni sindacali nel sostenere politiche efficaci per l’occupazione è veramente sorprendente, ed anche, a me sembra, un po’ colpevole. Di tutti i sindacati, divisi nel passato spesso su questioni di rappresentanza , di egemonia, al fondo vuotamente ideologiche, ma sempre molto uniti sul nulla. Lo stesso recente accordo sulla rappresentanza, così vistosamente e diffusamente festeggiato, dice poco o niente sulle politiche da sviluppare per il lavoro e, proprio per questo, potrebbe essere foriero di nuove divisioni. Cerco di spiegarmi.
In teoria, per la crescita dell’occupazione, si può intervenire sulle politiche dell’offerta o su quelle della domanda. Su quelle dell’offerta non dovrebbe essere difficile una intesa generale per dichiarare conclusa quella stagione. Sono sicuramente necessari degli aggiustamenti, per una riforma fatta troppo in fretta, ma la partita si gioca altrove. Il cuore del problema è la domanda di nuovo lavoro, e di conseguenza la ricerca delle risorse finanziarie per avviare questa nuova domanda. Occorre ricordare che queste politiche devono produrre effetti, cioè occupazione, nel breve periodo: non conveniamo tutti sulla gravità della situazione e sul rischio di frantumare la ” coesione sociale”? E allora, se non sono esercizi di retorica o semplici scongiuri, non è giunto il tempo di far seguire ad analisi così impietose scelte coraggiose? Il calo dei consumi, e di conseguenza l’accentuarsi della crisi economica, è anche il frutto di politiche redistributive del reddito fortemente squilibrate, che hanno spostato masse ingenti di risorse finanziarie a favore dei ceti sociali abbienti. Più ricchi i ricchi e più poveri i poveri, nel frattempo cresciuti di numero.
Dunque concentriamoci sull’occupazione. Qualcuno si metta pure al lavoro seriamente per l’eliminazione di quel cumulo di interessi e corporativismi che strangolano il nostro paese, ne impediscono lo sviluppo, lo trascinano verso il declino: l’inefficienza della pubblica amministrazione, dovuta non alla voglia di fare festa durante il lavoro dei dipendenti pubblici, ma all’averli deresponsabilizzati affidando i controlli alle procedure e ai vincoli formali; la lotta alla corruzione, che ha ormai inquinato e appesantito ogni spinta alla crescita e all’innovazione; la liberalizzazione dei servizi, la giustizia, con i suoi tempi eterni e inaffidabili…. Tutte riforme da fare, ma che richiedono anni che non abbiamo a disposizione.
Dove trovare le risorse finanziarie per aumentare la domanda di lavoro? La proposta era già stata sussurrata in ambienti confindustriali ma poi è scomparsa dalla circolazione. Ora la ripropone sul Corriere della sera di venerdì 5 luglio il Presidente di Intek Group, la holding che controlla la multinazionale della lavorazione del rame e la Fondazione Dinamo, Vincenzo Manes. Dice il nostro: ” Creiamo un Progetto Italia per il lavoro, finanziato da una tassa di scopo, una patrimoniale ad hoc, separata dal bilancio dello stato, che vada a costituire una sorta di IRI delle imprese sociali, per finanziare progetti innovativi nei settori del patrimonio artistico e culturale, dei beni ambientali, del turismo, di attività ad alto rilievo sociale”. La ricchezza finanziaria del paese è stimata in circa 3.300 miliardi di euro. Con un prelievo straordinario per qualche anno dell’1% su tale ricchezza sarebbero circa 30 i miliardi utilizzabili per la nascita e lo sviluppo di imprese sociali. “Esclusivamente”precisa l’autore, ma io penso che tali risorse finanziarie potrebbero essere utilizzate anche per la nascita di altre imprese giovanili innovative. Tassa per il lavoro, tassa per lo sviluppo, tassa non sulla ricchezza ma per la ricchezza. Proposta shock, sottotitola il Corriere, certo, soprattutto per la fonte da cui proviene: un industriale con un forte senso dello stato. Un risultato analogo potrebbe essere conseguito tassando le transazioni finanziarie in modo più adeguato.
Ma se ai nostri sindacati la cura sembra “politicamente” troppo forte, si può lavorare su altro, o su un combinato disposto. L’altro termine del binomio potrebbe essere individuato nelle politiche di riduzione e di redistribuzione degli orari di lavoro. La convinzione diffusa che la ripresa economica consentirà automaticamente una crescita dell’occupazione è tutta da verificare. Anzi molte aziende si sono riorganizzate, in questo periodo di crisi, affinché alla ripresa possano produrre di più con meno occupazione.
Per dirla in breve, i passaggi potrebbero essere i seguenti. Contrattazione degli orari di lavoro annuali, cioè per un intero ciclo annuale, con l’introduzione di forme flessibili degli orari legate alle esigenze produttive. L’orario medio settimanale dovrebbe essere ridotto a 35 ore e affiancato da una norma che elimini definitivamente lo straordinario. La riduzione dell’orario dovrebbe avvenire a parità di salario per il lavoratore e di costo per l’impresa, ed essere finanziata da sgravi contributivi e fiscali. Le normali dinamiche salariali legate alla contrattazione non ne sarebbero indebolite, ma si porrebbe in essere una redistribuzione del lavoro e del reddito significativa. È una scelta difficile da gestire con i lavoratori? Ma i lavoratori l’hanno già sperimentata, più o meno in queste forme, in molte situazioni di crisi aziendale.
C’è poi da far fronte al fenomeno della delocalizzazione, conseguenza diretta della inevitabile globalizzazione. Forse far fronte è una espressione eccessiva, viste le dimensioni e la pervasività del fenomeno. Ma neanche fa stare bene guardare decine di aziende che ogni settimana chiudono o ridimensionano gli impianti perché portano le loro produzioni in altri paesi. Talvolta può anche essere utile coinvolgere il governo o le regioni per individuare soluzioni alternative, ma in questi casi siamo quasi sempre alla ricerca di un intervento per l’individuazione degli ammortizzatori sociali più opportuni. Io penso che il sindacato, di suo, debba ripensare la sua dimensione internazionale. Meno poesia, meno retorica sull’internazionalismo proletario, e più concretezza. Si comprende a occhio nudo che, nei casi in discussione, gli interessi dei lavoratori di paesi diversi, coinvolti dalle localizzazioni, divergono. E d’altronde è giusto e comprensibile che, popolazioni finora escluse, partecipino alla ripartizione del benessere e dello sviluppo. Ma proprio per questo appare necessario creare organismi internazionali con poteri delegati forti, capaci di contenere le spinte alla frammentazione, che possano gestire politiche di risarcimento. Un organismo sindacale internazionale, dotato di forte autorità morale, che individui percorsi più accettabili per tutti. Seppure l’esito di questo lavoro fosse semplicemente rafforzare il potere contrattuale dei sindacati dei paesi d’arrivo dei percorsi di delocalizzazione, il risultato, nel medio periodo, produrrebbe effetti interessanti per tutti, contribuendo ad un progressivo avvicinamento delle condizioni di vita e di lavoro dei vari paesi.
Anche questo è troppo complicato e faticoso? Bene amici sindacalisti, pensate altro. Soprattutto pensate e discutete, sapendo che non esistono scelte facili per tempi così complicati e che qualunque proposta efficace avanzerete sarà “divisiva”, come si dice di questi tempi.
Rino Caviglioli