di Carlo Dell’Aringa – ordinario di economia politica all’Università Cattolica di Milano
In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 16 luglio, Guglielmo Epifani ha toccato alcuni punti molto interessanti, sostenendo posizioni che spiegano la contrarietà della Cgil ad una revisione sostanziale dell’attuale modello contrattuale. Il modello del 1993, secondo Epifani, “mantiene intatto il suo valore di solidarietà e di coesione… in una fase in cui il Paese è attraversato da processi di disgregazione crescenti “ . E più avanti sostiene che distruggere quello che c’è comporterebbe “nel settore industriale un abbassamento medio delle tutele sulla condizione di lavoro e di livello dei redditi. E nei servizi a rete e nei settori pubblici una specie di terra di nessuno, con una crescita della frantumazione corporativa e con il paradosso di avere stipendi più alti dove la produttività è bassa”.
Entrambe le puntualizzazioni sono importanti e contribuiscono a chiarire le posizioni in campo.
La prima osservazione fa riferimento, io credo, alla più generale tendenza del sindacato (non solo in Italia) a contrastare forme di decentramento della attività contrattuale che rischierebbero di “dividere” i lavoratori rappresentati, con la conseguenza di rinunciare, almeno in parte, a quei principi di uguaglianza, di equità e di uniformità che da sempre ispirano la azione del sindacato. C’è, però, anche un fondamento economico in questa posizione. Vi sono infatti studiosi che ritengono controproducente differenziare troppo le retribuzioni e far sì che si allineino alle condizioni di efficienza e produttività che caratterizzano le diverse realtà aziendali e territoriali. Accettare la differenziazione delle retribuzioni sarebbe un modo come un altro per giustificare e cristalizzare le differenze di produttività, che invece, almeno tendenzialmente, vanno eliminate. Anche Paesi molto più avanti di noi, come la Svezia, hanno seguito per tanti anni una politica salariale di tipo “solidaristico”, ottenendo buoni risultati in termini di efficienza media del sistema.
Tutto bene, quindi? Non credo proprio. Infatti, se si insiste troppo su questa strada si arriva facilmente alla tanto deprecata teoria del “salario variabile indipendente”. In questo caso più che il salario sarebbero le differenze retributive ad essere “variabile indipendente”. Una volta imboccata questa strada, si rischia di creare danni gravi (all’occupazione, all’investimento in capitale umano, ecc. ecc.). Spesso si è costretti a tornare indietro. La Svezia, ad esempio, ha modificato sostanzialmente il proprio sistema contrattuale, procedendo ad un vero e proprio decentramento delle politiche salariali, invocato sia dalle imprese del settore privato, che dalle pubbliche amministrazioni locali.
Per quanto riguarda la situazione italiana, vi è solo da ricordare che non soltanto un certo numero di studiosi, ma anche istituzioni internazionali come Fondo monetario, Ocse, e la stessa Comunità Europea, non perdono occasione per invitare e raccomandare al nostro Paese di decentrare maggiormente (soprattutto a livello territoriale) il sistema di determinazione delle retribuzioni. Va poi ricordato che, in molti Paesi e in questi anni, si è assistito ad un decentramento della contrattazione collettiva.
La seconda osservazione di Epifani è, secondo il mio parere, molto più importante, almeno dal punto di vista economico. Attenzione – sembra avvertire il segretario generale della Cgil – perché il decentramento può portare ad una flessibilità delle retribuzioni esattamente contraria a quella che si vuole ottenere per aumentare l’occupazione. E il pericolo c’è, non vi è dubbio. Esiste cioè il pericolo che le retribuzioni crescano di più nelle imprese che detengono potere di mercato, che sono protette dalla concorrenza internazionale e che tenderebbero a dividersi le rendite di posizione con i loro dipendenti.
Questo, purtroppo, si è sempre verificato, non è una novità. Chi non ricorda gli studi fatti tanti anni fa sui differenziali salariali, che vedevano ai primi posti gli “elettrici” e i “petrolieri”? In definitiva, l’argomento è giusto, ma non può essere considerato sufficiente per contrastare il bisogno, se questo venisse riconosciuto, di un decentramento della contrattazione che fosse idoneo sia a dare flessibilità alle retribuzioni sul territorio, sia a stimolare accordi di produttività a livello aziendale (per “creare” produttività aggiuntiva e non per dividersi le rendite!).
E i rimedi per combattere le posizioni di rendita dovrebbero essere trovati altrove: ad esempio in maggiori liberalizzazioni e in più concorrenza nei servizi. Per quanto riguarda il settore pubblico i problemi non sono stati certamente tutti risolti, con l’attuale sistema, e anche qui una riflessione approfondita si impone.