Compagno robot? Il nemico alle porte? O, invece, brutalmente: adottarli o perire? La letteratura sulla introduzione dei robot si fa sempre più ricca e più confusa. Nel 2017 ce n’erano già al lavoro, nel mondo, 2 milioni, in aumento del 16 per cento l’anno: nel 2020, perciò, saranno già 3 milioni. L’Italia è fra i paesi che ne ha di più: circa 10 mila, uno ogni 500 dipendenti dell’industria. Più, in proporzione, di Spagna e Francia. Ma la marea inarrestabile arriva dovunque: Cina, Giappone, Corea del Sud. Che cosa ci dobbiamo aspettare? Gli esperti sono nettamente divisi fra ottimisti e pessimisti. I secondi sono in maggioranza. Lo studio più celebre (2017) calcola che quasi metà dei posti di lavoro, negli Usa, siano a rischio automazione. Una percentuale che, in Europa, dicono altri, potrebbe anche essere superiore. Lo Studio Ambrosetti vede un po’ più rosa, profetizzando l’eliminazione, in Italia, grazie a software e automazione, di 3,2 milioni di posti di lavoro, che sono una enormità, ma solo un quinto dei lavoratori dipendenti. Gli effetti sono, comunque, profondi: due economisti americani (Acemoglu e Restrepo) calcolano che aggiungere un robot ogni mille lavoratori comporta una riduzione di 0,2 punti percentuali del tasso di occupazione e un taglio dello 0,37 per cento dei salari. Gli ottimisti, però, come gli esperti della McKinsey, non sono d’accordo e fanno notare che non sono intere posizioni lavorative ad essere a rischio di automazione, ma solo alcune mansioni, per cui molti posti di lavoro resteranno, anche se modificati nel senso della collaborazione con l’automa.
La lacuna di questi studi è che considerano l’impatto su interi settori economici. Ma che succede a livello di azienda, se alcune ditte usano i robot e altri no? La risposta viene da una ricerca di tre economisti tedeschi e danesi (Michael Koch, Ilya Manuylov, Marcel Smolka) che hanno esaminato i dati disaggregati forniti dalle statistiche spagnole e il messaggio è chiarissimo: in termini di produttività si determina una spaccatura netta fra chi ha i robot e chi no e, soprattutto, fra chi ne paga le conseguenze e chi trae vantaggi.
La produttività totale (capitale e lavoro) è aumentata, nelle aziende che hanno adottato i robot, di tre volte e non di due, come sarebbe avvenuto senza automazione. E, per due terzi, questo aumento di produttività è avvenuto specificamente grazie ai robot. Con un massacro di posti di lavoro? Al contrario, dice lo studio apparso su Voxeu.org: nelle aziende spagnole che, fra il 1990 e il 1998, hanno installato robot, nei 18 anni successivi (1998-2016) l’occupazione è cresciuta del 50 per cento. Chi non ne ha installati, nello stesso periodo ha perso il 20 per cento degli addetti.
In realtà, la divisione fra vincenti e perdenti era già nelle cose, fin da prima. Le aziende che cavalcano la rivoluzione dei robot sono quelle più grandi, quelle che esportano di più. Insomma, adotta i robot chi già ha successo. Ma l’automazione lo aiuta ad averne ancora di più. Nel giro di quattro anni la produzione aumenta del 20-25 per cento. Con essa l’occupazione. Strizzando i salari? Niente affatto, dicono i ricercatori. L’automazione consente di ridurre del 5-7 per cento il costo del lavoro, ma lasciando invariati i salari. Il problema sono i lavoratori delle aziende perdenti.
Chiamatela distruzione creativa, o anche selezione darwiniana. Perché le aziende senza robot, man mano che perdono quote di mercato, perdono anche lavoratori, che vanno nelle aziende più produttive, aiutandole ad aumentare ancora di più la loro quota di mercato. Sul campo, dunque, restano le macerie delle aziende meno produttive e perdenti, ma Koch, Manuylov e Smolka, in realtà, fanno parte degli ottimisti: fra chi licenza e chi assume – dicono – il saldo è positivo. L’occupazione totale aumenta del 10 per cento.
Maurizio Ricci