Editore: Castelvecchi
Collana: Storie
Data di Pubblicazione: marzo 2022
EAN: 9788832907179
ISBN: 8832907178
Pagine: 432
Formato: brossura
Sulla tomba di Claudio Sabattini, oltre a nome, cognome, date (1938-2003) c’è scritto: sindacalista. E “Il sindacalista. Claudio Sabattini, una vita in movimento” è anche il titolo della biografia che gli ha recentemente dedicato Gabriele Polo, già direttore del Manifesto e a lungo consigliere di Sabattini stesso. Va detto, in premessa, che Gabriele Polo ha una scrittura che, personalmente, ritengo assolutamente invidiabile, in grado di rendere appassionante qualunque argomento. Ma c’è anche da dire che la vita “in movimento” del protagonista, tutta scandita da continue discese ardite e risalite, aiuta non poco.
Nel libro costruito da Polo la storia di Claudio Sabattini, protagonista di un pezzo di storia, talvolta gloriosa, talvolta contraddittoria, del sindacato, diventa filo conduttore per raccontare anche decenni di storia di politica e sociale italiana, in una sorta di cronologia a più piste (la vita, il sindacato, la politica) dove l’esperienza pubblica si intreccia costantemente col privato, spesso doloroso e difficile, e col contesto esterno, che a sua volta impatta sull’uno e sull’altro aspetto.
Ci sono, nelle oltre 400 pagine del volume edito da Castelvecchi, le tappe dell’intera esistenza di Sabattini: la famiglia di partigiani, il Pci, la Cgil, i movimenti, la Fiom di Bologna e Brescia, la Flm, Torino e la Fiat, la Cgil nazionale, e poi di nuovo la Fiom, da leader, fino al maggio 2002, quando lascerà per scadenza del suo mandato di segretario generale, per proseguire con un’altra complicata avventura, stavolta in Sicilia. C’è il sindacato dei diritti di Trentin, e il sindacato “indipendente” di Sabattini, ci sono i rapporti complicati e altalenanti con le diverse leadership della Cgil, da Lama a Trentin a Cofferati. Ma ci sono, anche, i fatti della Storia che scandiscono la vita del sindacalista e del paese intero: l’Europa di Maastricht e l’Italia di Mani pulite, il terrorismo e la caduta del Muro, la dottrina di Bobbio e quella di Darhendorf, piazza Tienamen e Porto Alegre, Lula e Arafat, l’avvento di Berlusconi e il G8 di Genova.
C’è, naturalmente, l’evento spartiacque: quella battaglia dell’80 alla Fiat che finì, politicamente parlando, in un bagno di sangue. “Una parte ha perso e una parte ha vinto, e quella che ha vinto si è presa tutto”, riassumerà Sabattini. Una sconfitta di cui, nella ricostruzione di Polo, il sindacalista che ne era stato il protagonista divenne anche il capro espiatorio, precipitandolo in una crisi depressiva durata anni, curata assai faticosamente con farmaci e psicanalisi.
Poi ci sono le frasi, in alcuni casi un po’ datate, come questa: “Mio padre mi permise di fare il liceo classico e l’università per conoscere la cultura della borghesia e del capitalismo, per poterla combattere” amava dire Sabattini. O più attuali, come questa: “Se la sinistra non si concepisce come alternativa al sistema, diventa irrilevante”. O come questa, a proposito dei ritardi del sindacato sulle questioni ambientali e delle donne: “Non si tratta di aggiungere alla politica sindacale un po’ di ambientalismo e un po’ di rivoluzione femminile”, ma occorre “una nuova dimensione”, avvertiva nei primi anni Novanta.
Colpisce, nella lettura del libro, come certi fatti di cui oggi molto si parla abbiano origine antica. Per esempio, già nel 1990 Sabattini affrontava, con una certa lungimiranza, il problema della compressione del tempo di vita da parte del lavoro, avvertendo come non sarebbe stato a lungo sostenibile: “non c’è più una separazione netta, è in gioco la vita”, avvertiva, rilevando soprattutto il disagio sempre maggiore nei “giovani lavoratori”, che “vogliono autodeterminare modi e tempi del loro lavoro”. Sembrano parole di oggi, ma ci sono voluti trent’anni, e una pandemia, perché arrivassero lo smart working e si dovesse ragionare sul fenomeno delle Grandi dimissioni. E ancora: “Il lavoro precario che si sta diffondendo nell’industria” genera “ansia e insicurezza”, che diventano “elementi costanti della vita di chi lavora”, scandisce nel 1998. Così come nota, nel 1994, che il 12% della popolazione italiana vive al di sotto della soglia di povertà: argomento oggi centrale ma all’epoca del primo governo Berlusconi assai poco frequentato. E ancora: “Il nostro paese è destinato al declino industriale”, dice nel 1992, anno delle prime grandi privatizzazioni. E non si sa se sia stata colpa o meno delle privatizzazioni, ma il declino c’è stato, è sotto gli occhi di tutti.
Ma è un altro tema, quello dello scollamento tra la rappresentanza sociale e quella politica del lavoro, che soprattutto colpisce per il parallelo con la stretta attualità. “Nessun partito della sinistra si pone un programma che si fondi sulle istanze di cambiamento dei lavoratori”, osservava l’allora leader Fiom all’inizio del secolo che stiamo vivendo. “La sinistra ha abbandonato la rappresentanza del lavoro”; e questo, avvisava, è un fatto che va affrontato, perché “per il sindacato non avere più un riferimento politico è un problema serio”. Da queste considerazioni poi Sabattini farà nascere, nel 2003, “Lavoro e libertà”, un ibrido tra partito, movimento e associazione, che si offriva come “luogo di incontro” nel quale trovare gli argomenti comuni sui quali “ricostruire la sinistra”. Iniziativa che tuttavia non risulterà affatto gradita ai partiti della sinistra stessa, e che finirà rapidamente in nulla. Il fatto singolare è che oggi, vent’anni dopo, è ancora un sindacalista della Cgil, Maurizio Landini, che di Sabattini è stato uno degli allievi prediletti, a rilanciare con forza quella stessa necessità di ricostruire un rapporto stretto tra sindacato e partiti dell’area progressista, esattamente con le stesse considerazioni che Sabattini faceva due decenni fa.
Nunzia Penelope