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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - Come funzionerà (e quanto porterà in cassa) la grande intesa globale sul fisco

Come funzionerà (e quanto porterà in cassa) la grande intesa globale sul fisco

di Maurizio Ricci
8 Giugno 2021
in Poveri e ricchi, Analisi
Cgia, Stato indebitato più del triplo delle regioni

La notizia cattiva è che, nonostante le calorose speranze, la nuova web tax italiana si è rivelata acqua fresca. Doveva sottoporre i giganti di Silicon Valley al torchio del fisco italiano, almeno in linea di principio. Ma si è rivelata un flop: l’Agenzia delle Entrate puntava ad almeno 700 milioni di introiti, fra Amazon, Google e Apple. Non è riuscita a raccoglierne più di 230 milioni.

La notizia buona è che non conta nulla. La web tax finirà in un cassetto, scavalcata da un rivoluzionario accordo globale che magari dovrà aspettare qualche anno per entrare in vigore, ma quando funzionerà muterà radicalmente il fisco mondiale e moltiplicherà i flussi di tasse diretti ai singoli paesi. L’Italia incasserà non 230 milioni di euro, ma almeno 2,7 miliardi. Non, tuttavia, da chi ci aspetteremmo. E’ una delle tante giravolte di un accordo complicato che si basa, però, su uno scambio politico abbastanza semplice. L’intesa raggiunta nei giorni scorsi dai governi del G7 prevede, infatti, la creazione non di una, ma di due nuovi meccanismi fiscali. Il primo è un’aliquota minima con cui devono essere tassate le aziende. Ne beneficeranno un po’ tutti i paesi, ma interessava soprattutto a Joe Biden, perché gli Usa sono il paese che ha più multinazionali e che più usano paradisi fiscali. In cambio, Biden offre il secondo meccanismo: le grandi multinazionali dovranno devolvere le tasse su una quota dei loro profitti ai paesi in cui realizzano il loro fatturato. Ci guadagneranno tutti i paesi che vedevano le multinazionali americane fare grandi affari in casa loro, lasciando, come nel caso italiano, solo pochi spiccioli al fisco.

L’aliquota minima aziendale sui profitti globali serve a mettere sotto scacco i paradisi fiscali. Non solo quelli stranoti, come Bermuda o isole Cayman, quelli di zero tasse sulle aziende. Ma anche quelli più defilati e più vicini, come l’Irlanda, ma anche il Lussemburgo e pure il Belgio o l’Olanda. Paesi in cui, formalmente, i profitti aziendali vengono tassati anche severamente, ma poi le singole imprese stipulano accordi di favore con il fisco e finiscono per pagare pochi spiccioli. Non a caso, il Belgio è, apparentemente a sorpresa, come il Lussemburgo, uno dei paesi destinati a guadagnare di più dalla riforma. L’Italia dovrebbe raggranellare almeno 2,7 miliardi di euro. Ma, attenzione, non da Big Tech o le grandi multinazionali. Ma dalle nostre, quelle italiane: Eni, Enel, Intesa, Unicredit.

Come funziona, infatti, il minimo globale? Tu puoi anche pagare zero tasse a Malta o a Singapore. Ma, in questo caso, il fisco italiano (o americano) preleva comunque in patria la differenza fra quanto hai pagato a Singapore e quanto avresti dovuto pagare con l’aliquota del 15 per cento: se Singapore non li ha voluti, affari suoi . Vengono da questa differenza i 2,7 miliardi che arrivebbero al fisco italiano dalle multinazionali nostrane. In totale, i paesi Ue incasserebbero 48 miliardi di dollari in più. Gli Usa, 41 miliardi di dollari. Il vantaggio più importante, tuttavia, è il disincentivo che l’aliquota minima globale rappresenta per chi utilizza i paradisi fiscali, visto che comunque deve pagare quel 15 per cento.

La seconda gamba dell’accordo serve a redistribuire un po’ dei profitti che le grandi multinazionali realizzano in paesi in cui non pagano tasse o quasi: prendete il caso di Google in Italia. Funziona così: il primo 10 per cento dei profitti viene tassato nei paese in cui ha sede l’azienda. Sulla quota che supera il 10 per cento, un quinto della tassa (sempre al 15 per cento) viene redistribuito fra i diversi paesi, a seconda del fatturato che vi ha realizzato la multinazionale. Microsoft, ad esempio, ha profitti pari al 35 per cento. Il primo 10 per cento viene tassato negli Usa (dove ha sede il gigante di Seattle). Rimane un 25 per cento extra. Qui, il 15 per cento di tassa prelevato su un 5 per cento (un quinto della quota extra) viene distribuito in Italia, in Francia, in India ecc. in base al fatturato realizzato in ciascun paese.

Gli esperti calcolano che i soldi da distribuire in questo modo non saranno una montagna. In totale circa 12 miliardi di dollari. Se, infatti, Microsoft ha un margine netto del 35 per cento, quanto Facebook e, a scendere, Apple e Google stanno fra il 25 e il 28 per cento, Amazon, ad esempio, che si ferma al 7 per cento, sarà fuori dal meccanismo di redistribuzione. Tuttavia, questo secondo pilastro dell’accordo, mette nel mirino soprattutto le multinazionali Usa. Il 72 per cento degli utili delle cento maggiori multinazionali mondiali fa riferimento, infatti, ad aziende Usa.

Tutti sono consapevoli che, fra le diffuse resistenze che questo accordo del G7 incontra in molti paesi, e il fatto che una intesa dovrà essere, alla fine, ratificata dai parlamenti nazionali (compreso quello Usa) i due meccanismi entreranno in azione fra qualche anno. Questo, però, non ne riduce la portata rivoluzionaria. Finirà l’era del dumping fiscale, fra i paesi che si rincorrono ad abbassare le tasse per attirare le multinazionali. E, concettualmente, si stabilisce per la prima volta il principio che le imprese vengono tassate non solo sulla base della loro residenza, ma anche di dove realizzano i loro fatturati. E’ il primo tentativo di adeguare il fisco alla nuova realtà digitale dell’economia.

 

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista

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