155ª Seduta
Presidenza del Presidente
SACCONI
Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Bobba.
La seduta inizia alle ore 15,35.
SULLA PUBBLICAZIONE DI DOCUMENTI ACQUISITI NEL CORSO DI AUDIZIONI
Il presidente SACCONI comunica che la documentazione consegnata nel corso dell’odierna audizione sui disegni di legge n. 1148 e connessi, svolta in sede di Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi, nonché quella consegnata nel corso dell’incontro sulla vicenda del Gruppo Auchan S.p.a. del 6 maggio scorso, svolto in sede di Sottocommissione sulle ricadute occupazionali delle ristrutturazioni aziendali, saranno rese disponibili sulla pagina web della Commissione.
IN SEDE CONSULTIVA SU ATTI DEL GOVERNO
Schema di decreto legislativo recante misure di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro (n. 157)
(Parere al Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, ai sensi dell’articolo 1, commi 8, 9 e 11, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.Seguito e conclusione dell’esame. Parere favorevole con osservazioni)
Prosegue l’esame, sospeso nella seduta pomeridiana del 6 maggio.
Il PRESIDENTE ricorda preliminarmente che sono stati presentati tre pareri, alternativi rispetto a quello elaborato dalla relatrice, pubblicati tutti in allegato.
La relatrice PARENTE (PD) illustra uno schema di parere favorevole con osservazioni sull’atto in titolo, dando conto dei contenuti e delle ragioni giustificative sottese allo stesso.
Il senatore ICHINO (PD) propone una riformulazione dello schema di parere illustrato dalla relatrice, finalizzata a richiamare l’attenzione su talune esigenze di coordinamento tecnico dei testi normativi in questione.
La senatrice CATALFO (M5S) propone alcune riformulazioni dello schema di parere presentato dalla relatrice, volte a recepire il contenuto di taluni ordini del giorno accolti dal Governo nel corso dell’iter del disegno di legge delega sulla materia in questione.
La seduta, sospesa alle ore 15,50, riprende alle ore 16.
La senatrice BENCINI (Misto) propone una riformulazione dello schema di parere illustrato dalla relatrice, volta ad inserire nell’ambito dello stesso taluni profili relativamente alla materia del congedo spettante al padre.
La relatrice PARENTE (PD) accoglie le richieste di riformulazione del senatore Ichino, come pure le integrazioni proposte dalla senatrice Catalfo, mentre ritiene non accoglibile la proposta prospettata dalla senatrice Bencini.
La senatrice CATALFO (M5S), dopo aver ritirato lo schema di parere alternativo, a propria firma, atteso che la gran parte dei contenuti dello stesso sono stati recepiti dalla relatrice, preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, un voto favorevole sullo schema di parere, nella versione per ultimo prospettata dalla senatrice Parente.
Il senatore BAROZZINO (Misto-SEL) preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, il proprio voto contrario, esprimendosi in senso critico sulla visione di fondo che ispira le normative in questione.
Il senatore PAGANO (AP (NCD-UDC)) preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, un voto favorevole sullo schema di parere nella versione per ultimo prospettata dalla relatrice.
Successivamente, il senatore BERGER (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE) preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, un voto favorevole sullo schema di parere in questione.
Il presidente SACCONI, previa verifica del numero legale, mette quindi ai voti la proposta di parere – nella versione per ultimo prospettata dalla relatrice Parente, pubblicata in allegato – che è approvata a maggioranza. Risulta di conseguenza precluso il voto sulle due proposte alternative presentate rispettivamente dal senatore Barozzino e dalla senatrice Munerato.
Schema di decreto legislativo recante testo organico delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni(n. 158)
(Parere al Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, ai sensi dell’articolo 1, commi 7 e 11, della legge 10 dicembre 2014, n. 183. Seguito e conclusione dell’esame. Parere favorevole con osservazioni)
Prosegue l’esame, sospeso nella seduta pomeridiana del 6 maggio.
Il PRESIDENTE ricorda preliminarmente che sono stati presentati tre pareri, alternativi rispetto a quello da lui elaborato, pubblicati tutti in allegato.
Illustra quindi, in qualità di relatore, uno schema di parere favorevole con osservazioni sull’atto in titolo, soffermandosi sui contenuti e sulle ragioni giustificative sottese allo stesso.
La senatrice CATALFO (M5S) preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, il proprio voto contrario sullo schema di parere proposto dal Presidente relatore, per i motivi già ampliamente evidenziati nel corso della discussione generale.
Il senatore BAROZZINO (Misto-SEL) preannuncia, anche a nome del Gruppo di appartenenza, il proprio voto contrario sullo schema di parere del Presidente relatore, evidenziando che la ratio ispiratrice della normativa in questione risulta del tutto inconciliabile con le esigenze di salvaguardia della dignità del lavoro.
I senatori PAGANO (AP (NCD-UDC)) e BERGER (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE) preannunciano invece, rispettivamente, anche a nome dei Gruppi di appartenenza, un voto favorevole sullo schema di parere in questione.
Il presidente SACCONI, previa verifica del numero legale, mette quindi ai voti la proposta di parere da lui formulata, che è approvata a maggioranza. Risulta di conseguenza precluso il voto sulle tre proposte alternative presentate, a firma rispettivamente dei senatori Catalfo, Barozzino e Munerato.
SU UN CONFLITTO DI COMPETENZA
Il PRESIDENTE, dopo aver dato conto della decisione della Presidenza del Senato in merito al conflitto di competenza, ai sensi dell’articolo 34, comma 5 del Regolamento, relativo al disegno di legge n. 1870 (Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale), preannuncia l’invio di una lettera di risposta in merito a tale questione, enunciando i contenuti della stessa.
SCONVOCAZIONE DELLA SEDUTA DI DOMANI
Il presidente SACCONI avverte che la seduta già prevista per domani alle ore 8,30 non avrà più luogo.
La seduta termina alle ore 16,20.
PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 157
L’11a Commissione permanente, esaminato lo schema di decreto legislativo in titolo, premesso che esso è stato predisposto in attuazione della normativa di delega di cui all’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183;
valutato che la revisione e l’aggiornamento delle misure intese a tutelare la maternità delle lavoratrici e a sostenere le cure parentali e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori rispondono ad esigenze profondamente sentite nel nostro Paese;
considerato che un insieme articolato di misure per la valorizzazione del contributo delle donne alla vita economica e sociale del Paese favorisce il sostegno alla maternità ed alla conciliazione familiare e rappresenta il presupposto indispensabile per garantire la promozione delle pari opportunità nel mercato del lavoro e la crescita del Paese;
esprime, per quanto di competenza, parere favorevole, con le osservazioni di seguito riportate.
Innanzitutto la Commissione chiede al Governo di impegnarsi a rendere permanenti i contenuti dello schema di decreto, visto che i commi 2 e 3 dell’articolo 25 dispongono che le misure si applicano in via sperimentale per il solo 2015 – con limitato riferimento alle giornate di astensione riconosciute nel medesimo anno 2015 – e che l’estensione agli anni successivi sia subordinata all’entrata in vigore di decreti legislativi che forniscano adeguata copertura finanziaria.
Considerata l’applicazione in via sperimentale delle norme previste dal decreto, è necessario un chiarimento in virtù di un principio di certezza del diritto, dal momento che la normativa, contenuta nel provvedimento, modifica molte parti di norme vigenti, principalmente il testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al decreto 26 marzo 2001, n 151.
A questo proposito occorre valutare in primis se, in relazione alla natura transitoria delle misure in oggetto, sia preferibile usare una tecnica legislativa diversa da quella della novella. Tanto più che il presente decreto dovrà contribuire, come gli altri in attuazione della delega, ad un Testo Unico semplificato contenente norme semplici ed immediatamente comprensibili.
A tal fine occorre valutare l’opportunità di una riscrittura del decreto legislativo in forma che lo renda direttamente leggibile e comprensibile da parte di tutti i soggetti chiamati ad applicarlo: per questo è necessario che le disposizioni non siano adottate secondo la tecnica dell'”intarsio”, bensì con la riproduzione dell’intera disposizione che si intende introdurre o modificare.
In secundis la Commissione ritiene inoltre necessario che il Governo approfondisca, già in sede di definizione del decreto, quali altre norme, oltre a quelle stabilite dall’articolo 24 (Risorse finanziarie per la promozione della conciliazione tra vita professionale e vita privata), debbano o possano essere poste in via permanente, anziché in via transitoria, come la novella di cui all’articolo 3 (Trattamento economico in alcuni casi di risoluzione del rapporto di lavoro durante il congedo obbligatorio di maternità), che si limita a confermare una disposizione già operante in virtù di una sentenza della Corte costituzionale.
In via generale, si fa notare inoltre che, a causa dei tempi ridotti per l’iter di approvazione e i vincoli finanziari connessi, solo alcuni dei principi e criteri direttivi previsti nella legge delega hanno trovato attuazione nello schema di decreto legislativo. Fra quelli che non hanno trovato attuazione si ricordano i principi previsti all’articolo 1, comma 9, dalla lettera c) sull’introduzione del credito di imposta per le donne lavoratrici, anche autonome, che abbiano figli minori o figli disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo; dalla lettera e) sulla possibilità di cessione, fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro, delle ferie in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessiti di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute; dalla lettera f) sulla promozione dell’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali, forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali, nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, nonché dalla lettera l) sulla semplificazione e razionalizzazione degli organismi, delle competenze e dei fondi operanti in materia di parità e pari opportunità nel lavoro ed il riordino delle procedure inerenti alla promozione di azioni positive di competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Entrando nel merito degli articoli, con riferimento alla novella di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a),in cui si stabilisce che i giorni di congedo obbligatorio non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo obbligatorio spettante dopo il parto anche qualora il periodo di congedo obbligatorio di maternità superi il limite di cinque mesi, si suggerisce di chiarire se tale meccanismo di recupero dei giorni si applichi anche nelle ipotesi normative specifiche di congedo obbligatorio più lungo, nelle quali, cioè, esso supera, a prescindere dall’eventuale natura anticipata del parto, il limite di cinque mesi.
Inoltre, si nota che la relazione tecnica, relativa alla valutazione degli oneri finanziari derivanti dalla novella, fa riferimento esclusivamente all’ipotesi in cui il parto prematuro sia intervenuto prima dei due mesi precedenti la data presunta. Sul punto, sembra necessario estendere l’ambito di valutazione anche ai parti intervenuti prima del solo ultimo mese precedente la data presunta, con riferimento ai casi in cui la dipendente abbia optato per il congedo flessibile, previsto dall’articolo 20 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001.
La successiva lettera b) introduce il diritto della madre, in caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, di chiedere la sospensione del congedo obbligatorio di maternità e di usufruire del medesimo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino; al riguardo, si suggerisce di chiarire se la locuzione “in tutto o in parte” faccia riferimento alla possibilità di rinunzia ad una parte del congedo o se faccia solo riferimento all’ipotesi che una parte del congedo obbligatorio (relativo al periodo successivo al parto) sia stato già goduto prima della sospensione.
L’articolo 4estende il nuovo diritto introdotto dall’articolo 2, comma 1, lettera b),anche ai casi di adozione e di affidamento.
L’articolo 2, comma 1, lettera b) e l’articolo 4, sono disposizioni previste in recepimento della sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2011 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della lettera c) dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 151 del 2001, nella parte in cui non consente, nell’ipotesi di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data di ingresso del bambino nella casa familiare.
Si suggerisce a tal proposito di rinforzare la parte dove si prevede la produzione di documentazione medica sullo stato di salute della madre lavoratrice. Si ricorda infatti che il momento del parto per una donna é molto delicato per il suo equilibrio psico-fisico e che va salvaguardato il suo diritto al riposo, previsto, non a caso, da un congedo obbligatorio per maternità.
Si segnala inoltre di approfondire la problematica di come conciliare la sospensione del congedo con la gestione del rapporto di lavoro eventualmente instaurato in sostituzione della lavoratrice madre, anche alla luce del fatto che la durata della sospensione non é facilmente determinabile.
Poiché la sospensione del congedo in caso di ricovero del figlio è stata già inserita nella contrattazione di primo livello sarà necessario ora intervenire per via legislativa, o attraverso l’incentivazione della contrattazione collettiva, nei comparti ove non si sia già intervenuti, per prevedere permessi retribuiti per la malattia del figlio nei primi mesi di vita, che la madre possa godere durante il periodo di sospensione del congedo di maternità. In mancanza di ciò, si rischia di alimentare una disparità di trattamento tra madri lavoratrici, in particolare tra coloro che riprendono effettivamente servizio a poca distanza dal parto, non potendo permettersi di stare vicino al figlio neonato senza retribuzione, e coloro che invece possono godere di tale istituto.
All’articolo 5,sarebbe opportuno chiarire se l’estensione del congedo di paternità riguardi anche le fattispecie di adozione o affidamento, con riferimento all’ipotesi che la madre lavoratrice autonoma non abbia fatto richiesta dell’indennità di maternità. Sotto il profilo redazionale, sembrerebbe preferibile inserire la novella in oggetto nell’articolo 66 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole) del testo unico, anziché nell’articolo 28, essendo essa relativa ai padri lavoratori autonomi.
Appare, opportuno segnalare che il comma 7, dell’articolo 6, dello schema di decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali prevede una ulteriore modalità di fruizione del congedo parentale, mediante la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo pari alla durata del congedo parentale. Si raccomanda, quindi di evitare sovrapposizioni, raccordando le due diverse previsioni.
All’articolo 7, comma 1,lettera b), che esclude la cumulabilità della fruizione oraria del congedo parentale con i permessi o i riposi contemplati dal decreto legislativo n. 151 del 2001, si suggerisce di chiarire se il divieto di cumulo operi solo per il caso di mancata determinazione, da parte delle suddetti fonti contrattuali, delle modalità della fruizione del congedo su base oraria. Potrebbe, inoltre, essere ritenuto opportuno chiarire se le presenti norme suppletive delle fonti contrattuali si applichino anche per il personale del comparto sicurezza e difesa e per quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico, per i quali la disciplina collettiva deve prevedere, altresì, “al fine di tenere conto delle peculiari esigenze di funzionalità connesse all’espletamento dei relativi servizi istituzionali, specifiche e diverse modalità di fruizione e di differimento del congedo”.
Nella successiva lettera c), si raccomanda di riconsiderare la riduzione del periodo a soli due giorni, in considerazione dell’esigenza di garantire anche una minima programmazione dell’organizzazione aziendale rispetto ad eventuali coperture delle assenze, in coerenza con il principio di contemperanza dei diversi interessi meritevoli di tutela.
All’articolo 7 comma 1, nell’ambito dell’utilizzo del congedo parentale fino ai 12 anni di età, si invita il Governo a valutare con le parti sociali la possibilità di concedere un supplemento del 30 per cento della retribuzione per gli ulteriori periodi utilizzati dagli 8 ai 12 anni, in modo da garantire le esigenze delle famiglie con le fasce di reddito più basse;
Sull’introduzione dell’indennità di paternità in favore del alcuni lavoratori autonomi, di cui all’articolo 15, si invita ad una definizione più esplicita di tale profilo, inserendo tra questi anche i liberi professionisti, come evidenziato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 385 dell’11-14 ottobre 2005.
Anche con riferimento all’articolo 20, che aumenta da tre a cinque mesi la durata dell’indennità di maternità, relativa alle libere professioniste per il caso di adozione, potrebbe essere ritenuto opportuno un esplicito riferimento anche all’ipotesi di indennità spettante al libero professionista.
Si segnala quindi un chiarimento sull’ambito di applicazione dell’articolo 23; la norma infatti fa riferimento, per le lavoratrici dipendenti, oltre che alle dipendenti da datori di lavoro pubblici, esclusivamente alle dipendenti da soggetti imprenditori, mentre per le collaboratrici da un lato non si escludono come committenti i datori privati non imprenditori e, dall’altro, si fa riferimento esclusivamente alle collaboratrici “a progetto” (con esclusione degli altri casi di collaborazione coordinata e continuativa).
Riguardo al preavviso al datore di lavoro per la richiesta di congedo, di cui al comma 3, occorre chiarire se le norme sullo stesso riguardino anche i casi di sospensione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
Si invita inoltre a considerare l’eventuale problema della lavoratrice inserita nei percorsi di protezione, avente diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia a disposizione un posto di lavoro a tempo parziale, in quanto, ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, devono essere rispettate le determinazioni del datore di lavoro relative alle dimensioni del suo organico (Corte Costituzionale 30 dicembre 1958, n. 78).
La Commissione inoltre segnala alcune considerazioni evidenziate dal Servizio di Bilancio del Senato: “atteso che in caso di massimo utilizzo della possibilità introdotta dalla norma l’onere, sulla base di una retribuzione prudenzialmente stimabile in 1.200 euro mensili (dall’ultimo “Salary Outlook 2015” la retribuzione media nel 2014 in Italia è stata di 1.560 euro mensili), potrebbe raggiungere, in termini di maggiori prestazioni, i 10 milioni di euro su base annua (da ridurre a circa 5,5 milioni escludendo dal calcolo i primi 5 mesi del 2015, ormai trascorsi). Rilevato poi che la possibilità di spalmare il congedo su base pluriennale sembrerebbe porre dei problemi in termini di copertura, predisposta per il solo 2015, e pur concedendo che difficilmente l’ipotesi di un pieno utilizzo del beneficio potrebbe in concreto verificarsi, l’ampiezza della correzione in riduzione operata dalla RT non sembra ispirata ad una sufficiente prudenzialità. Si segnala peraltro che la RT non sembra considerare che la norma richiede la presentazione di un certificato dei servizi sociali per l’accesso al beneficio per cui la platea potrebbe essere più piccola rispetto al numero di persone che hanno richiesto aiuto al numero verde. Ciò potrebbe in parte giustificare la stima di un onere più basso.” Pertanto si invita il Governo a fornire un chiarimento su questo punto.
Si invita inoltre il Governo a definire forme di coinvolgimento delle parti sociali e nell’elaborazione di Linee Guida e modelli che favoriscano la contrattazione collettiva, previste dall’articolo 24.
Al fine poi di raggiungere l’obiettivo di promuovere la contrattazione collettiva per la conciliazione dei tempi per il lavoro e la famiglia si esorta il Governo a prevedere un intervento in materia di defiscalizzazione degli istituti di welfare contrattuale.
Si invita altresì il Governo a valutare la possibilità di prevedere, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo finanziario mensile per i servizi di babysitting, e asili nido pubblici o privati in prossimità dei luoghi di lavoro o di residenza della lavoratrice, anche al fine di promuovere, nel mercato del lavoro, la parità tra uomo e donna; in alternativa, si potrebbe valutare l’incentivazione su tutto il territorio di servizi integrativi e innovativi, quale «il nido di famiglia», gestito dalla «tagesmutter o mamma di giorno», che accudisce ed educa presso la propria abitazione bambini da 0 a 6 anni;
Si rileva l’opportunità di incentivare l’utilizzo di servizi di babysitting, attraverso la deduzione, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, delle retribuzioni eventualmente corrisposte ad addetti ai predetti servizi, compresi i contributi previdenziali e assistenziali per l’adempimento dell’obbligo delle assicurazioni sociali nei loro confronti.
Infine, al fine di favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, oltre che per le esigenze di cure parentali, appare necessario assicurare la creazione di una cornice normativa che includa tra le forme più moderne di lavoro, anche fondate sulla digitalizzazione, capaci di coniugare le esigenze dell’impresa con quelle dei lavoratori e lavoratrici (smart working, lavoro a distanza, lavoro agile), senza limitarsi ad affidarne la regolamentazione alla contrattazione aziendale di secondo livello e al ruolo attivo delle aziende, garantendo altresì piani incentivanti e agevolazioni fiscali e contributive per le imprese che decidono di adottare le suddette modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, nuove e diverse dal telelavoro.
PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE
SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 158
La Commissione esprime sullo schema di decreto Atto del Governo n. 158 un parere favorevole con le osservazioni che seguono.
La Commissione rileva in primo luogo che questo decreto deve concorrere al Testo Unico semplificato, innovativo delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, per il quale il Governo ha ricevuto esplicita delega, con norme semplici, certe e immediatamente comprensibili non soltanto da tutte le persone che ne sono attualmente destinatarie, ma anche dai destinatari potenziali e in particolare dagli investitori internazionali. Esso, pur realizzando una maggiore chiarezza rispetto alla legislazione vigente, presenta una scrittura ancora affetta da ipertrofia e legata allo schema della norma restrittiva derogabile solo mediante contratto collettivo nazionale.
Vi sono poi norme incerte che ampliano la discrezionalità del giudice e possono accrescere il contenzioso giudiziale, come la fondamentale disciplina della separazione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo di cui all’articolo 47.
La Commissione ricorda inoltre la necessità che venga esercitata anche la delega relativa ai controlli a distanza del datore di lavoro.
In funzione del Testo Unico semplificato la Commissione suggerisce poi che vengano limitati al minimo indispensabile i riferimenti a leggi o decreti previgenti. Si osserva in proposito che in tutti i casi in cui si tratta di correggere o integrare una norma previgente, si deve adottare il più possibile la tecnica della riformulazione della norma e della abrogazione di quella precedente; negli altri casi, il richiamo degli estremi del provvedimento legislativo previgente è quasi sempre superfluo.
Sempre nell’ottica del prossimo Testo Unico semplificato, del quale il decreto in esame deve costituire una anticipazione parziale, si suggerisce che le regole attinenti agli adempimenti e ai rapporti amministrativi siano il più possibile collocate in disposizioni di natura regolamentare, e comunque non mescolate con la disciplina dei rapporti contrattuali. A questo fine si raccomanda l’inserimento nel decreto di una norma transitoria, in forza della quale, nell’attesa dell’emanazione dei decreti ministeriali attuativi, relativi agli adempimenti e ai rapporti amministrativi, la materia resti disciplinata dalle norme legislative o regolamentari previgenti, in modo che non si determinino vuoti normativi.
Si suggerisce, infine, di uniformare tutte le formulazioni dello schema di decreto legislativo che contengono deleghe a favore della contrattazione collettiva alla nozione contenuta nella disciplina del part-time, prevista dall’articolo 2, comma 2, lettera g), per quanto attiene alla contrattazione sia di primo che di secondo livello. Fornire una nozione unitaria della contrattazione collettiva abilitata all’esercizio delle prerogative previste dalla legge rappresenterebbe un importante elemento di certezza normativa e favorirebbe il più ampio e ordinato sviluppo della contrattazione aziendale, strumento essenziale per garantire un adeguato recupero dei livelli di produttività del nostro sistema industriale.
Lavoro a tempo parziale o a orario modulato
Con riferimento al lavoro a tempo parziale, la Commissione indica l’opportunità di una disciplina più semplice e comprensiva di ogni possibilità di modulazione dell’orario, tale da includere anche i casi in cui non sia possibile prestabilire con precisione l’inizio e il termine di ciascun segmento temporale della prestazione. Pertanto, ai fini di una più agevole adattabilità reciproca tra datore di lavoro e lavoratore, la nuova disciplina dovrebbe consentire direttamente, anche dove ciò non sia espressamente previsto dalla contrattazione collettiva, un impiego più duttile delle clausole elastiche e in particolare del lavoro supplementare, senza contingentamenti o limiti quantitativi (salvi i limiti generali di durata settimanale stabiliti per la generalità dei rapporti), quando la variazione della collocazione o dell’estensione temporale del singolo segmento della prestazione venga contrattualmente collegata a fatti oggettivi predeterminati o predeterminabili (secondo quanto stabilito in proposito dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 1992). Si osserva che questa disciplina delle clausole elastiche, riferite sia alla collocazione sia all’estensione temporale della prestazione, potrebbe consentire di superare la figura del “lavoro intermittente”, come tipo contrattuale a sé stante, essendo a quel punto la sua funzione svolta pienamente da un ampio e flessibile modello di “contratto a orario modulato”.
Si ritiene opportuno specificare la disciplina retributiva propria delle prestazioni lavorative straordinarie di cui all’articolo 4, comma 6, al fine di evitare incertezze applicative con riferimento alle prestazioni rese nel part-time verticale o misto nel caso in cui tale aspetto non sia disciplinato dalla contrattazione collettiva.
In relazione al diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo pieno del lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (articolo 6, comma 6), mentre risulta comprensibile il concetto di espletamento delle stesse mansioni, tuttavia si segnala che la formulazione “mansioni di pari livello” è suscettibile di allargare in modo inopportuno l’applicazione del diritto di precedenza in quanto lo riferisce a livelli di inquadramento relativi a filiere professionali tra loro disomogenee.
Per quanto riguarda il diritto del lavoratore di richiedere la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, in luogo del congedo parentale, per un periodo corrispondente, con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento (articolo 6, comma 7), appare necessaria una disposizione atta a contemperare questo diritto con le esigenze organizzative dell’impresa, ivi compreso un congruo preavviso. Potrebbe essere opportuna la previa definizione di una disciplina attuativa da parte della contrattazione collettiva.
Inoltre, sempre con riferimento al medesimo comma 7, si ritiene opportuno precisare che la possibilità ivi prevista sia possibile “per una sola volta”, ma per ogni figlio. In difetto di questa precisazione la possibilità è consentita per una sola volta a prescindere dal numero dei figli.
Risulta comunque opportuno chiarire la durata del periodo di lavoro a tempo parziale precisando che la trasformazione potrà avvenire per un numero di mesi corrispondenti a quelli di durata del congedo. È importante chiarire che le due possibilità (part-time e congedo su base oraria) sono tra loro pienamente alternative di modo che una volta che si è optato per una delle due soluzioni non è possibile avvalersi dell’altra.
Si sottolinea come la regolamentazione relativa alla possibilità di fruire del congedo parentale anche attraverso la trasformazione del contratto di lavoro a tempo pieno in contratto a tempo parziale, necessiti di un coordinamento con il decreto sulla conciliazione secondo regole semplici e coerenti con la prospettiva del TU.
In relazione al criterio di computo dei lavoratori part-time al fine dell’applicazione delle discipline previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva (articolo 7), si propone di limitare l’arrotondamento all’unità superiore solo quando la frazione di orario ecceda di almeno il 50 per cento la somma degli orari a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno.
Lavoro intermittente
Con riferimento alla disciplina relativa al contratto di lavoro intermittente, ferma restando l’opportunità sopra indicata di un unico modello contrattuale a orario modulato, occorrerebbe una formulazione più chiara dell’articolo 12, comma 1. Per presumibile errore materiale, i “periodi predeterminati” a cui si riferisce l’ammissibilità del contratto intermittente, devono essere riferiti alle prestazioni del lavoratore anziché alla stipulazione del contratto. Al comma 4, lettera b) del medesimo articolo, qualora non si ritenga di consentire senz’altro il lavoro intermittente nella forma del part-time con clausola elastica, si ritiene opportuno reintrodurre la possibilità per gli accordi sindacali di consentire il ricorso al contratto di lavoro intermittente anche nelle unità produttive interessate da procedure di licenziamento collettivo o cassa integrazione.
Lavoro a tempo determinato
Riguardo al limite temporale di 36 mesi previsto all’articolo 17 per il contratto a tempo determinato, il richiamo alle mansioni di pari livello risulta generico e probabilmente oggetto di valutazioni discrezionali da parte dell’organo accertatore e, successivamente, del giudice. Si suggerisce, inoltre, di chiarire che rimane legittimo, al termine del periodo massimo dei 36 mesi, il ricorso da parte dell’azienda utilizzatrice al contratto di somministrazione a tempo determinato con il medesimo lavoratore anche per le medesime mansioni.
Relativamente all’articolo 18, comma 1, lettere b) e c), si ritiene opportuno reintrodurre la possibilità per gli accordi sindacali di consentire il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato nelle unità produttive interessate da procedure di licenziamento collettivo o dall’intervento della cassa integrazione guadagni.
All’articolo 19, la Commissione ritiene opportuno fare salvi gli effetti di eventuali contratti collettivi di secondo livello.
Con riferimento all’esenzione prevista per la stipulazione dei contratti a tempo determinato dall’applicazione del limite percentuale di cui all’articolo 21, comma 1 nonché da eventuali limitazioni quantitative previste da contratti collettivi, essa risulta eccessivamente circoscritta. Per agevolare le assunzioni effettuate in fase di start-up, si propone di prevedere all’articolo 21, comma 2 che in assenza di intervento da parte della contrattazione collettiva l’esclusione dal limite quantitativo del 20 per cento operi per le assunzioni a tempo determinato effettuate nel corso del primo anno di esercizio della nuova attività. In ragione delle specifiche peculiarità del settore della cooperazione internazionale, si invita il Governo a valutare l’opportunità di estendere la suddetta esclusione anche ai contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito di programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo di cui alla legge n. 125 del 2014.
Al fine di favorire l’occupazione di soggetti difficilmente collocabili, in coerenza con il requisito anagrafico previsto dall’incentivo contributivo di cui all’articolo 4, comma 8, della legge n. 92 del 2012, si propone di abbassare l’età prevista dall’articolo 21, comma 2, lettera f) a 50 anni.
Con riferimento alle deroghe previste dall’articolo 21, comma 3, occorrerebbe, infine, specificare se e in quali termini restino valide quelle relative al personale delle fondazioni lirico-sinfoniche, deroghe previste da disposizioni ora oggetto di abrogazione da parte dell’articolo 46 dello schema, in quanto risulta importante salvaguardare la disciplina speciale attualmente prevista per i contratti a tempo determinato stipulati in questo settore.
La misura della sanzione di cui all’articolo 21, comma 4, appare particolarmente elevata in un contesto civilistico devoluto alla contrattazione delle parti, con possibili ricadute sulle assunzioni in alcuni settori, quali quello della cantieristica e degli appalti limitati nel tempo. Pertanto, si segnala l’opportunità di individuare, in aggiunta, una causale specifica per quei settori. Relativamente all’articolo 22, comma 3, si propone di affidare alla contrattazione collettiva la disciplina del diritto di precedenza per i contratti a tempo determinato stipulati per lo svolgimento di attività stagionali. Si invita, inoltre, il Governo a chiarire che la manifestazione della volontà di avvalersi di tale diritto deve essere effettuata espressamente e in forma scritta, in mancanza della quale il datore di lavoro è legittimato ad assumere altri lavoratori con le medesime mansioni.
Al fine poi di stabilire un esplicito collegamento tra le tipologie contrattuali/mansioni e quanto disciplinato dal decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, in materia di sistema nazionale di certificazione delle competenze, si propone di farvi riferimento, ancorché non vincolante, laddove si parla di “formazione adeguata” per aumentare la qualificazione dei lavoratori.
All’articolo 26, comma 1, risulta opportuno uniformare a 60 giorni il termine per l’impugnazione stragiudiziale del contratto a tempo determinato, in quanto il termine attualmente previsto era stato introdotto dalla legge Fornero in coerenza con l’allungamento dei termini di intervalli tra un contratto a tempo determinato ed il successivo.
Somministrazione di lavoro
La Commissione rileva l’opportunità di definire un testo unico della somministrazione quale corpo omogeneo da inserire nel Testo Unico semplificato. In esso segnala l’opportunità di riconoscere la qualità del rapporto di lavoro nella somministrazione a tempo indeterminato (cosiddetto staff leasing) eliminando il limite per l’utilizzatore del 10 per cento o elevandolo, almeno, alla soglia disposta per i contratti a termine e comunque consentendo alla contrattazione collettiva aziendale la sua derogabilità.
Si facciano comunque salvi gli effetti degli accordi di prossimità già stipulati così come valuti il Governo ambiti specifici della regolazione, come i limiti alla somministrazione, che possono essere rimessi alla adattabilità tra le parti nel nome di esigenze condivise a livello aziendale.
Si invita, inoltre, il Governo a chiarire il concetto di “piano nazionale” richiamato al medesimo comma.
Quanto agli obblighi in materia di salute e sicurezza che l’articolo 31, lettera c) e l’articolo 33, comma 4, sembrano porre a carico del somministratore, si richiama l’opportunità che essi vengano posti anche a carico dell’utilizzatore: ciò pare più coerente con il fatto che a quest’ultimo è affidato il potere direttivo e disciplinare, nonché la gestione nel concreto del rapporto di lavoro. Si ritiene necessario che sia lo stesso utilizzatore ad avere obblighi in materia di salute e sicurezza su aspetti specifici riguardanti la propria attività lavorativa.
Nell’ambito del contenuto obbligatorio del contratto di somministrazione (articolo 31), la mancata previsione dell’obbligo di comunicazione al somministratore da parte dell’utilizzatore dei trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili (previsto dall’articolo 21, comma 1, lettera j) del decreto legislativo n. 276 del 2003) appare inspiegabile, in quanto conseguenza del principio di parità di trattamento dei lavoratori somministrati rispetto ai lavoratori alle dirette dipendenze dell’utilizzatore di pari livello. Si richiede, pertanto, di ripristinare la precedente formulazione della norma.
Al fine poi di stabilire un esplicito collegamento tra le tipologie contrattuali e quanto disciplinato dal decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, in materia di sistema nazionale di certificazione delle competenze, si propone di farvi riferimento, ancorché non vincolante, laddove si parla di “mansioni” e di “formazione adeguata”.
All’articolo 32, comma 2, tra le disposizioni che non trovano applicazione nei rapporti di lavoro tra agenzia per il lavoro e lavoratore da inviare a missione, risulta opportuno includere l’articolo 22 che disciplina il diritto di precedenza. Tale esclusione è già attualmente prevista nel nostro ordinamento dall’articolo 22, comma 2, del decreto legislativo. n. 276 del 2003.
Come già detto, all’articolo 33, comma 4, si segnala la possibilità di integrare la disposizione riproducendo interamente il contenuto di cui all’articolo 23, comma 5, del decreto legislativo n. 276 del 2003 ivi inclusa la possibilità di ripartire diversamente in via contrattuale gli obblighi di sicurezza tra le parti. Eliminando in particolare la possibilità in capo alla agenzia di delegare all’azienda utilizzatrice l’informazione generale in materia di sicurezza nel lavoro nonché la formazione e l’addestramento all’uso delle attrezzature, si ridurrebbe l’efficacia delle azioni rivolte alla sicurezza, producendo una inevitabile disparità di gestione tra lavoratori diretti e somministrati.
La Commissione suggerisce, con riferimento alla previsione di cui all’articolo 34, comma 3, relativamente all’obbligo di comunicazione da parte dell’utilizzatore della somministrazione alle organizzazioni sindacali del numero e dei motivi di ricorso ad essa, in considerazione del nuovo regime di acausalità dell’istituto, di applicare in simmetria la norma prevista per il contratto a tempo determinato ove si stabilisce che sono i contratti collettivi nazionali delle aziende utilizzatrici a definire le modalità di comunicazione alle organizzazioni sindacali.
Al comma 3 dell’articolo 36, secondo cui in caso di costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata, risulta opportuno specificare che le eventuali differenze contributive non sarebbero assoggettate al regime sanzionatorio dell’evasione, dovendosi prevedere una ipotesi di carattere omissivo.
Al comma 2 del medesimo articolo, risulta opportuno chiarire se l’indennità risarcitoria prevista sia o meno assoggettata a contributi previdenziali.
Al fine di prevenire fenomeni di dumping, si propone l’obbligo in capo alle agenzie in possesso di autorizzazione rilasciata da altri Paesi dell’Unione Europea che effettuano somministrazione di lavoro in Italia di applicare la disciplina normativa nazionale, nonché le disposizioni di cui al contratto collettivo nazionale di settore, prevedendo in ogni caso di violazione, sanzioni in capo all’azienda utilizzatrice.
La Commissione segnala da ultimo l’opportunità di incoraggiare l’impiego di persone disabili da parte delle Agenzie di somministrazione consentendo alle imprese utilizzatrici di computare ai fini della relativa quota obbligatoria i lavoratori disabili quando somministrati con missione non inferiore a dodici mesi.
Apprendistato
Per quanto riguarda la definizione di un unico apprendistato duale (articolo 39), si invita il Governo a valutare l’opportunità di consentirne la stipulazione con giovani iscritti a qualsiasipercorso di istruzione e formazione secondaria superiore, a partire quindi dal quattordicesimo anno di età. La Commissione ritiene indispensabile definire un quadro regolatorio organico e omogeneo per l’intero territorio nazionale, incluse le disposizioni originariamente contenute nel disegno di legge su “la Buona Scuola”.
Con riferimento al numero massimo di apprendisti (articolo 40, comma 7), si ritiene opportuno il suo innalzamento nelle imprese sociali ed in quelle comunque individuate dalla contrattazione collettiva. In particolare, le imprese sociali non dovrebbero computare ai fini di questo limite le persone con disabilità intellettiva relazionale, per le quali sarebbe altresì opportuno un periodo di pre-apprendistato della durata di almeno tre anni.
Per quanto riguarda i limiti all’assunzione di nuovi apprendisti derivanti dalle stabilizzazioni di precedenti contratti di apprendistato, la Commissione suggerisce una riformulazione tale da liberare da questo vincolo i datori di lavoro con meno di 50 dipendenti a tempo indeterminato.
Al comma 2 dell’articolo 41, la Commissione ritiene opportuno prevedere l’apprendistato per la qualifica e il diploma anche nel settore pubblico, come avviene in tutti i Paesi con un apprendistato duale consolidato. Parimenti, a tale scopo, risulta opportuno modificare anche il comma 6 dell’articolo 45.
Con riferimento al comma 5 dell’articolo 41, si propone di aggiungere una specifica disposizione volta a consentire la stipulazione di contratti di apprendistato di durata non superiore a due anni per i giovani delle Province Autonome di Trento e Bolzano che, dopo il conseguimento del diploma, frequentano l’apposito corso annuale che si conclude con l’esame di Stato, previsto per le scuole professionali provinciali ai sensi dell’articolo 6, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 87 del 2010.
Si sottolinea la necessità di ridurre il contributo ASpI che la legge n. 92 del 2012 ha aumentato per quei datori di lavoro artigiani e del commercio o pubblici servizi fino all’1,61 per cento con riferimento agli apprendisti e di escludere l’apprendistato dal versamento del contributo di licenziamento previsto dalla legge Fornero.
La Commissione, infine, segnala l’opportunità di comprendere il contratto di apprendistato nel campo di applicazione degli sgravi triennali contributivi previsti per i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti dalla legge di Stabilità 2015, in quanto esso tutela da sempre in modo crescente il lavoratore.
Si segnala, inoltre, l’opportunità di valutare l’esigenza di una norma transitoria per il periodo precedente l’emanazione del decreto ministeriale volta a definire i criteri generali per lo svolgimento dei percorsi di apprendistato negli istituti tecnici e professionali e, in particolare, il monte orario massimo del percorso scolastico che possa essere svolto in apprendistato ed i requisiti delle relative imprese. Si osserva, inoltre, che, riguardo alla determinazione del numero di ore di formazione da effettuare in azienda, il successivo articolo 44, comma 1 fa riferimento – anziché al decreto ministeriale di cui al citato comma 6 dell’articolo 41 – ad un altro decreto ministeriale, da emanarsi secondo la procedura ivi contemplata. La Commissione, pertanto, rileva la necessità di un più chiaro coordinamento riguardo a tale profilo, nonché l’indicazione di termini certi circa l’adozione dei suddetti decreti. In alternativa, si segnala l’opportunità di prevedere una indicazione a livello nazionale di attribuzione dei crediti formativi di cui all’articolo 43, comma 2, nel numero massimo di 60, al fine di evitare modalità di attuazione fortemente differenziate nei territori.
La medesima esigenza di una norma transitoria si pone anche con riferimento al decreto ministeriale che definisce, per l’apprendistato di III livello, lo schema del protocollo che il datore di lavoro deve sottoscrivere con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, o con l’ente di ricerca.
Con riferimento alla misura sanzionatoria prevista all’articolo 45, si suggerisce – anche al fine di agevolare il ricorso al contratto di apprendistato – di eliminare al comma 1 la maggiorazione sanzionatoria del 100 per cento, che non appare coerente con l’attuale contesto sanzionatorio, introducendo in sostituzione la disciplina sanzionatoria dell’omissione contributiva, atteso che l’eventuale violazione non integra certamente una ipotesi di lavoro “nero”. Al comma 3 dell’articolo 45, si ritiene opportuno prevedere espressamente che l’esclusione degli apprendisti dal computo ai fini dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi, non opera con riferimento alla disciplina dei limiti quantitativi per le assunzioni a tempo determinato e in somministrazione (articoli 21 e 29 dello schema). Si propone, inoltre, di considerare i contratti di apprendistato nella base di calcolo per il computo del limite percentuale dell’adozione di contratti a tempo indeterminato.
Lavoro subordinato e lavoro autonomo
La Commissione ribadisce la necessità di una formulazione più certa dell’articolo 47 correlandolo con l’articolo 2094 del codice civile. In particolare, si ritiene necessario eliminare il criterio del “contenuto ripetitivo” della prestazione lavorativa e di integrare il criterio relativo alle modalità di esecuzione con la precisazione che devono essere organizzate “unilateralmente” dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro. Ciò al fine evitare ogni sovrapposizione con le più genuine forme di lavoro autonomo e libero-professionale, anche di elevatissimo livello.
Appare utile esplicitare la perdurante legittimità delle collaborazioni autonome di cui all’articolo 2222 del codice civile, aventi per oggetto un servizio a carattere continuativo.
Nell’individuare le ipotesi di sopravvivenza delle collaborazioni a progetto, l’articolo 47, comma 2, indica la possibilità di sopravvivenza delle collaborazioni regolamentate dagli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e di specifiche ipotesi ricalcate su quanto previsto dall’articolo 61 del decreto legislativo n. 276 del 2003.
La Commissione ribadisce che, ove la norma delega la contrattazione collettiva, questa dovrebbe comprendere anche la dimensione di categoria come quella aziendale consolidando così esperienze già realizzate dagli attori sociali più rappresentativi.
Si propone, altresì, di integrare comunque l’elenco delle esclusioni ivi previste, con le seguenti ipotesi:
– i contratti di collaborazione coordinata e continuativa redatti con l’assistenza delle sedi di certificazione;
– oltre alle ipotesi previste alla lettera b), tutte le attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad appositi registri, ruoli, elenchi, albi nazionali e regionali, così come individuate con apposito decreto del Ministero del lavoro;
le prestazioni negli enti di formazione che sono collegate a progetti oggetto di specifico finanziamento (docenti, organizzatori, ecc.) e le attività educative;
le prestazioni negli enti no profit e nella cooperazione internazionale in quanto analogamente collegate a progetti finanziati;
le attività dipendenti da progetti di ricerca scientifica, siano esse svolte da ricercatori o da tecnici di laboratorio o dal personale di assistenza amministrativa;
le prestazioni di recupero crediti, nonché di ricerca di mercato, di telefonia “outbound“, svolte senza vincolo di orario;
le attività di assistenza a domicilio o presso strutture di lungodegenza organizzate da cooperative sociali quando sono realizzate senza vincolo di orario;
le attività rese da coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia quando caratterizzate da una autonoma organizzazione del tempo di lavoro, come già disposto dal decreto legislativo n. 276/2003, oppure da lavoratori subordinati;
le attività svolte in favore di enti e associazioni non operanti a fine di lucro, retribuite a risultato e non soggette a coordinamento né spaziale né temporale.
Con riferimento alla stabilizzazione dei collaboratori e dei titolari di partita Iva (articolo 48), la condizione stabilita alla lettera b) del comma 1, realizza una condizione di privilegio dei lavoratori stabilizzati rispetto agli altri dipendenti che deve essere evitata.
All’articolo 48, comma 2, è opportuno prevedere che l’assunzione a tempo indeterminato alle condizioni di cui al comma 1, lettere a) eb), comporti l’estinzione degli illeciti non solo amministrativi, contributivi, fiscali ma anche assicurativi.
Si segnala, inoltre, che la soppressione del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro prevista dall’articolo 50 dello schema potrebbe rendere ardua la diversa regolazione di particolari rapporti già evidenziati dalla legislazione vigente come quelli relativi alle prestazioni artistiche o alle attività delle allevatrici sarde e inibire genuine opportunità di lavoro caratterizzate da condivisione del rischio d’impresa e da remunerazione connessa ai risultati.
La Commissione, inoltre, invita il Governo a fare salva la possibilità di avvalersi del contratto di associazione in partecipazione, a prescindere dalla natura dell’apporto, qualora sia l’associato sia l’associante siano società di capitali.
Con riferimento ai contratti già stipulati, la norma transitoria di cui al comma 3 dell’articolo 50, dovrebbe essere resa più certa.
Lavoro accessorio
Relativamente alla disciplina del lavoro accessorio, la Commissione rileva che la definizione di cui all’articolo 51 dovrebbe essere integrata in modo da codificare l’irrilevanza della modalità, autonoma o subordinata, della prestazione, così da incoraggiare, attraverso la certezza regolatoria, l’emersione di segmenti di tessuto produttivo oggi relegati nell’economia sommersa.
La Commissione segnala inoltre l’opportunità di condurre a coerenza i limiti economici relativi da un lato al lavoro accessorio da parte di professionisti e imprese e, dall’altro, alle prestazioni autonome occasionali di cui all’articolo 2222 del codice civile in modo che risultino uniformi i doveri di pagamento dei contributi.
Riguardo alla percezione del compenso da parte del lavoratore successivamente all’accreditamento dei buoni da parte del committente (articolo 52, comma 4) si ritiene opportuna una più chiara formulazione della norma.
Relativamente all’obbligo di comunicazione alla Direzione Territoriale del Lavoro del ricorso a prestazioni occasionali di tipo accessorio da parte del committente (articolo 52, comma 3), risulta opportuna la sua eliminazione, in quanto costituisce un superfluo appesantimento burocratico soprattutto per il datore di lavoro famiglia, atteso che l’elemento qualificante la regolarità del rapporto è già previsto dall’articolo 52 nell’acquisto di uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati. La Commissione segnala che la semplicità delle modalità di gestione è condizione per il successo degli obiettivi di emersione degli spezzoni lavorativi in tutto il territorio nazionale.
Clausola di salvaguardia
La Commissione rileva, infine, che la clausola di salvaguardia prevista all’articolo 56 dello schema si pone in evidente contraddizione con l’indirizzo perseguito dal Governo in termini di contenimento del costo indiretto del lavoro. Se ne propone quindi la soppressione o la sostituzione con altre modalità di copertura, invitando il Governo a considerare gli effetti complessivi della riforma e di questo decreto sulle entrate contributive che a questa Commissione non sembrano destinati a produrre andamenti negativi.
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DALLA RELATRICE
SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 157
L’11a Commissione permanente, esaminato lo schema di decreto legislativo in titolo, premesso che esso è stato predisposto in attuazione della normativa di delega di cui all’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183;
valutato che la revisione e l’aggiornamento delle misure intese a tutelare la maternità delle lavoratrici e a sostenere le cure parentali e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori rispondono ad esigenze profondamente sentite nel nostro Paese;
considerato che un insieme articolato di misure per la valorizzazione del contributo delle donne alla vita economica e sociale del Paese favorisce il sostegno alla maternità ed alla conciliazione familiare e rappresenta il presupposto indispensabile per garantire la promozione delle pari opportunità nel mercato del lavoro e la crescita del Paese;
esprime, per quanto di competenza, parere favorevole, con le osservazioni di seguito riportate.
Innanzitutto la Commissione chiede al Governo di impegnarsi a rendere permanenti i contenuti dello schema di decreto, visto che i commi 2 e 3 dell’articolo 25 dispongono che le misure si applicano in via sperimentale per il solo 2015 – con limitato riferimento alle giornate di astensione riconosciute nel medesimo anno 2015 – e che l’estensione agli anni successivi sia subordinata all’entrata in vigore di decreti legislativi che forniscano adeguata copertura finanziaria.
Considerata l’applicazione in via sperimentale delle norme previste dal decreto, è necessario un chiarimento in virtù di un principio di certezza del diritto, dal momento che la normativa, contenuta nel provvedimento, modifica molte parti di norme vigenti, principalmente il testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al decreto 26 marzo 2001, n 151.
A questo proposito occorre valutare in primis se, in relazione alla natura transitoria delle misure in oggetto, sia preferibile usare una tecnica legislativa diversa da quella della novella. Tanto più che il presente decreto dovrà contribuire, come gli altri in attuazione della delega, ad un Testo Unico semplificato contenente norme semplici ed immediatamente comprensibili.
In secundis la Commissione ritiene inoltre necessario che il Governo approfondisca, già in sede di definizione del decreto, quali altre norme, oltre a quelle stabilite dall’articolo 24 (Risorse finanziarie per la promozione della conciliazione tra vita professionale e vita privata), debbano o possano essere poste in via permanente, anziché in via transitoria, come la novella di cui all’articolo 3 (Trattamento economico in alcuni casi di risoluzione del rapporto di lavoro durante il congedo obbligatorio di maternità), che si limita a confermare una disposizione già operante in virtù di una sentenza della Corte costituzionale.
In via generale, si fa notare inoltre che, a causa dei tempi ridotti per l’iter di approvazione e i vincoli finanziari connessi, solo alcuni dei principi e criteri direttivi previsti nella legge delega hanno trovato attuazione nello schema di decreto legislativo. Fra quelli che non hanno trovato attuazione si ricordano i principi previsti all’articolo 1, comma 9, dalla lettera c) sull’introduzione del credito di imposta per le donne lavoratrici, anche autonome, che abbiano figli minori o figli disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo; dalla lettera e) sulla possibilità di cessione, fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro, delle ferie in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessiti di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute; dalla lettera f) sulla promozione dell’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali, forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali, nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, nonché dalla lettera l) sulla semplificazione e razionalizzazione degli organismi, delle competenze e dei fondi operanti in materia di parità e pari opportunità nel lavoro ed il riordino delle procedure inerenti alla promozione di azioni positive di competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Entrando nel merito degli articoli, con riferimento alla novella di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a),in cui si stabilisce che i giorni di congedo obbligatorio non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo obbligatorio spettante dopo il parto anche qualora il periodo di congedo obbligatorio di maternità superi il limite di cinque mesi, si suggerisce di chiarire se tale meccanismo di recupero dei giorni si applichi anche nelle ipotesi normative specifiche di congedo obbligatorio più lungo, nelle quali, cioè, esso supera, a prescindere dall’eventuale natura anticipata del parto, il limite di cinque mesi.
Inoltre, si nota che la relazione tecnica, relativa alla valutazione degli oneri finanziari derivanti dalla novella, fa riferimento esclusivamente all’ipotesi in cui il parto prematuro sia intervenuto prima dei due mesi precedenti la data presunta. Sul punto, sembra necessario estendere l’ambito di valutazione anche ai parti intervenuti prima del solo ultimo mese precedente la data presunta, con riferimento ai casi in cui la dipendente abbia optato per il congedo flessibile, previsto dall’articolo 20 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001.
La successiva lettera b) introduce il diritto della madre, in caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, di chiedere la sospensione del congedo obbligatorio di maternità e di usufruire del medesimo, in tutto o in parte, dalla data di dimissione del bambino; al riguardo, si suggerisce di chiarire se la locuzione “in tutto o in parte” faccia riferimento alla possibilità di rinunzia ad una parte del congedo o se faccia solo riferimento all’ipotesi che una parte del congedo obbligatorio (relativo al periodo successivo al parto) sia stato già goduto prima della sospensione.
L’articolo 4estende il nuovo diritto introdotto dall’articolo 2, comma 1, lettera b),anche ai casi di adozione e di affidamento.
L’articolo 2, comma 1, lettera b) e l’articolo 4, sono disposizioni previste in recepimento della sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2011 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della lettera c) dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 151 del 2001, nella parte in cui non consente, nell’ipotesi di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data di ingresso del bambino nella casa familiare.
Si suggerisce a tal proposito di rinforzare la parte dove si prevede la produzione di documentazione medica sullo stato di salute della madre lavoratrice. Si ricorda infatti che il momento del parto per una donna é molto delicato per il suo equilibrio psico-fisico e che va salvaguardato il suo diritto al riposo, previsto, non a caso, da un congedo obbligatorio per maternità.
Si segnala inoltre di approfondire la problematica di come conciliare la sospensione del congedo con la gestione del rapporto di lavoro eventualmente instaurato in sostituzione della lavoratrice madre, anche alla luce del fatto che la durata della sospensione non é facilmente determinabile.
Poiché la sospensione del congedo in caso di ricovero del figlio è stata già inserita nella contrattazione di primo livello sarà necessario ora intervenire per via legislativa, o attraverso l’incentivazione della contrattazione collettiva, nei comparti ove non si sia già intervenuti, per prevedere permessi retribuiti per la malattia del figlio nei primi mesi di vita, che la madre possa godere durante il periodo di sospensione del congedo di maternità. In mancanza di ciò, si rischia di alimentare una disparità di trattamento tra madri lavoratrici, in particolare tra coloro che riprendono effettivamente servizio a poca distanza dal parto, non potendo permettersi di stare vicino al figlio neonato senza retribuzione, e coloro che invece possono godere di tale istituto.
All’articolo 5,sarebbe opportuno chiarire se l’estensione del congedo di paternità riguardi anche le fattispecie di adozione o affidamento, con riferimento all’ipotesi che la madre lavoratrice autonoma non abbia fatto richiesta dell’indennità di maternità. Sotto il profilo redazionale, sembrerebbe preferibile inserire la novella in oggetto nell’articolo 66 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole) del testo unico, anziché nell’articolo 28, essendo essa relativa ai padri lavoratori autonomi.
Appare, opportuno segnalare che il comma 7, dell’articolo 6, dello schema di decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali prevede una ulteriore modalità di fruizione del congedo parentale, mediante la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo pari alla durata del congedo parentale. Si raccomanda, quindi di evitare sovrapposizioni, raccordando le due diverse previsioni.
All’articolo 7, comma 1,lettera b), che esclude la cumulabilità della fruizione oraria del congedo parentale con i permessi o i riposi contemplati dal decreto legislativo n. 151 del 2001, si suggerisce di chiarire se il divieto di cumulo operi solo per il caso di mancata determinazione, da parte delle suddetti fonti contrattuali, delle modalità della fruizione del congedo su base oraria. Potrebbe, inoltre, essere ritenuto opportuno chiarire se le presenti norme suppletive delle fonti contrattuali si applichino anche per il personale del comparto sicurezza e difesa e per quello dei vigili del fuoco e soccorso pubblico, per i quali la disciplina collettiva deve prevedere, altresì, “al fine di tenere conto delle peculiari esigenze di funzionalità connesse all’espletamento dei relativi servizi istituzionali, specifiche e diverse modalità di fruizione e di differimento del congedo”.
Nella successiva lettera c), si raccomanda di riconsiderare la riduzione del periodo a soli due giorni, in considerazione dell’esigenza di garantire anche una minima programmazione dell’organizzazione aziendale rispetto ad eventuali coperture delle assenze, in coerenza con il principio di contemperanza dei diversi interessi meritevoli di tutela.
Sull’introduzione dell’indennità di paternità in favore del alcuni lavoratori autonomi, di cui all’articolo 15, si invita ad una definizione più esplicita di tale profilo, inserendo tra questi anche i liberi professionisti, come evidenziato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 385 dell’11-14 ottobre 2005.
Anche con riferimento all’articolo 20, che aumenta da tre a cinque mesi la durata dell’indennità di maternità, relativa alle libere professioniste per il caso di adozione, potrebbe essere ritenuto opportuno un esplicito riferimento anche all’ipotesi di indennità spettante al libero professionista.
Si segnala quindi un chiarimento sull’ambito di applicazione dell’articolo 23; la norma infatti fa riferimento, per le lavoratrici dipendenti, oltre che alle dipendenti da datori di lavoro pubblici, esclusivamente alle dipendenti da soggetti imprenditori, mentre per le collaboratrici da un lato non si escludono come committenti i datori privati non imprenditori e, dall’altro, si fa riferimento esclusivamente alle collaboratrici “a progetto” (con esclusione degli altri casi di collaborazione coordinata e continuativa).
Riguardo al preavviso al datore di lavoro per la richiesta di congedo, di cui al comma 3, occorre chiarire se le norme sullo stesso riguardino anche i casi di sospensione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
Si invita inoltre a considerare l’eventuale problema della lavoratrice inserita nei percorsi di protezione, avente diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia a disposizione un posto di lavoro a tempo parziale, in quanto, ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, devono essere rispettate le determinazioni del datore di lavoro relative alle dimensioni del suo organico (Corte Costituzionale 30 dicembre 1958, n. 78).
La Commissione inoltre segnala alcune considerazioni evidenziate dal Servizio di Bilancio del Senato: “atteso che in caso di massimo utilizzo della possibilità introdotta dalla norma l’onere, sulla base di una retribuzione prudenzialmente stimabile in 1.200 euro mensili (dall’ultimo “Salary Outlook 2015” la retribuzione media nel 2014 in Italia è stata di 1.560 euro mensili), potrebbe raggiungere, in termini di maggiori prestazioni, i 10 milioni di euro su base annua (da ridurre a circa 5,5 milioni escludendo dal calcolo i primi 5 mesi del 2015, ormai trascorsi). Rilevato poi che la possibilità di spalmare il congedo su base pluriennale sembrerebbe porre dei problemi in termini di copertura, predisposta per il solo 2015, e pur concedendo che difficilmente l’ipotesi di un pieno utilizzo del beneficio potrebbe in concreto verificarsi, l’ampiezza della correzione in riduzione operata dalla RT non sembra ispirata ad una sufficiente prudenzialità. Si segnala peraltro che la RT non sembra considerare che la norma richiede la presentazione di un certificato dei servizi sociali per l’accesso al beneficio per cui la platea potrebbe essere più piccola rispetto al numero di persone che hanno richiesto aiuto al numero verde. Ciò potrebbe in parte giustificare la stima di un onere più basso.” Pertanto si invita il Governo a fornire un chiarimento su questo punto.
Si invita infine il Governo a definire forme di coinvolgimento delle parti sociali e nell’elaborazione di Linee Guida e modelli che favoriscano la contrattazione collettiva, previste dall’articolo 24.
Al fine poi di raggiungere l’obiettivo di promuovere la contrattazione collettiva per la conciliazione dei tempi per il lavoro e la famiglia si esorta il Governo a prevedere un intervento in materia di defiscalizzazione degli istituti di welfare contrattuale.
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DAI SENATORI BAROZZINO, DE PETRIS, CERVELLINI, DE CRISTOFARO, PETRAGLIA, STEFANO E URAS SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 157
L’11a Commissione, esaminato l’Atto del Governo n. 157, premesso che:
un’attività adeguatamente remunerata, ragionevolmente sicura e corrispondente alle competenze acquisite nel percorso formativo, costituisce un’aspirazione universale che contribuisce al benessere di ogni persona. Alla stessa stregua della mancanza di occupazione stabile, anche impegni lavorativi che impediscano di conciliare tempi di lavoro e di vita familiare e sociale esercitano un impatto negativo sul livello di benessere individuale. La stessa Costituzione all’articolo 36 ha ribadito a chiare lettere la necessità di apporre dei limiti ai tempi dell’attività lavorativa, proprio nell’ottica di rendere effettivo il principio del lavoro quale momento fondamentale per una vita libera e dignitosa. Pertanto, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro può rappresentare un’adeguata risposta alle necessità dei lavoratori solo se opportunamente informata al principio del bilanciamento delle tutele previste dall’ordinamento giuridico a favore di questi ultimi e della salvaguardia dell’iniziativa economica, anch’essa sancita nella Costituzione. Per tali ragioni l’attuazione di politiche di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro rappresenta una grande opportunità di evoluzione organizzativa non solo delle aziende ma della stessa società civile;
conciliare lavoro e famiglia è una sfida quotidiana che coinvolge uomini e donne, anche se le pratiche della cura sono state a lungo nascoste e invisibili, relegate nel privato e considerate solo un dovere femminile. Ancora oggi, a causa della diseguale distribuzione del carico di lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia, la difficoltà di conciliare è avvertita soprattutto dalle donne, in modo particolare nella fase del ciclo di vita immediatamente successiva alla nascita dei figli. Esse continuano ad accollarsi le maggiori responsabilità di cura dei figli e degli altri familiari, indipendentemente dal regime di welfare e dalle specifiche politiche familiari e per l’infanzia adottate a livello politico;
inoltre, accanto alle politiche del lavoro ed a quelle del welfare, anche le politiche di conciliazione appaiono come politiche di prevenzione dalla povertà. Infatti, tutti i vincoli all’occupazione femminile, oltre che vincoli alle scelte di libertà e di pari opportunità, sono anche in contrasto con il benessere delle famiglie, specie in quei contesti in cui cresce sia l’instabilità del lavoro che l’instabilità dei rapporti all’interno dei nuclei familiari. Di contro, le politiche di conciliazione, nella misura in cui riescono a decomprimere e a riequilibrare i tempi di cura ed i tempi di lavoro dei genitori, consentono – nell’ottica delle pari opportunità – di dare a tutti i bambini le stesse chance: una presenza affettiva ed educativa più equilibrata dei genitori in famiglia;
d’altra parte, la mancanza di un contesto familiare e culturale favorevole alla conciliazione famiglia-lavoro si traduce nel nostro Paese in una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro ed, al contempo, in una persistente bassa fecondità, da trent’anni, oramai, sotto la soglia dei due figli per donna, creando non pochi problemi sia per la crescita economica del Paese, sia per i rapporti tra le generazioni. Infatti, recenti studi di alcuni organismi internazionali rilevano che i Paesi caratterizzati da una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro sono quelli che otterrebbero dall’aumento dell’occupazione femminile un maggior vantaggio in termini di crescita. Gli ultimi dati sull’occupazione risalenti al mese di febbraio 2015, denunciano un significativo aumento del lavoro part-timeinvolontario, quello cioè, non scelto come temporanea strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità familiari, in una società in cui la divisione dei ruoli tra uomini e donne è ancora troppo rigida e poco supportata da una reale politica diwelfare, ma quello imposto dalle aziende, specie nel terziario, come strumento di flessibilizzazione della manodopera, a prescindere dai bisogni di questa, sia in termini di reddito che di conciliazione;
di contro su questo versante, lo schema di decreto n. 157, rappresenta un’occasione mancata, muovendosi nel solco già tracciato dai due precedenti decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act (quello sugli ammortizzatori sociali e quello sul cosiddetto contratto a “tutele crescenti”), riproponendo la medesima logica di cancellare tutele preesistenti senza estenderne di nuove a chi ne era privo. Ed invero, come del resto evidenziato dalla stessa relazione illustrativa, il provvedimento non opera un riordino dell’intera normativa in materia, né esaurisce le deleghe di cui all’articolo 1, comma 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183, ma ha inteso privilegiare un’impostazione, anche sul piano redazionale, settoriale e minimale, perseguendo l’adozione di soluzioni prive di novità normative e subordinate a vincoli di carattere finanziario, volte meramente a superare questioni interpretative ed applicative insorte a seguito di alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale che aveva a più riprese dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme contenute nel TU in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità;
il testo appare principalmente carente nella promozione della genitorialità. L’articolo 1, in particolare, propone di tutelare la maternità delle lavoratrici adottando una formulazione che non rende giustizia al principio di alternanza tra i genitori. Il testo del decreto, pertanto, indica solo la donna come la principale destinataria delle misure di conciliazione, trascurando il tema della promozione della paternità e della condivisione nell’accudimento alla famiglia, fotografando e restituendo in tal modo un’immagine molto tradizionale della società italiana e rinunciando, in questo, a novità legislative capaci di rimuovere alcuni degli ostacoli, anche culturali, che ancora oggi limitano la piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Di contro, in altre sezioni si ricorre, linguisticamente e con grande incoerenza stilistica, anch’essa spia di una mancanza di visione generale, il “maschile universale” poco rispettoso della parità di genere, e che mal si concilia con la promozione di una legislazione, come raccomandano le stesse istituzioni europee, che sia gender neutral;
tale impostazione sembra aver voluto disattendere quanto disposto, in sede di esame della legge delega n. 183 del 2014, dal Parlamento. In una prima fase, infatti, la titolazione del provvedimento presentava il riferimento alla maternità ed alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro mentre, a seguito dell’approvazione degli emendamenti nella Commissione Lavoro alla Camera, nonostante i contenuti in merito siano rimasti immutati, è stata modificata, almeno nella denominazione, in modo più coerente con il significato completo delle politiche di work-life balance, che inglobano al loro interno anche le misure di sostegno a entrambe le figure genitoriali;
nonostante alcuni indubbi e tiepidi passi avanti rappresentati dal recepimento, nel nostro sistema giuridico, delle suddette declaratorie di incostituzionalità, quindi non propriamente frutto di una significativa conquista legislativa, e la previsione di varie misure quali:
a) la fruibilità del congedo obbligatorio in caso di parto prematuro con ricovero del neonato (articolo 2);
b) la corresponsione dell’indennità di maternità anche nell’ipotesi di licenziamento per colpa grave della lavoratrice che si verifichi durante il congedo di maternità (articolo 3);
c) l’estensione da 3 a 5 mesi dell’indennità di maternità alle lavoratrici iscritte alla gestione separata che abbiano adottato un minore (articolo 4);
d) l’estensione del diritto a sostituirsi alla madre, per i padri lavoratori autonomi (articolo 5);
e) la riduzione del temine di preavviso per la richiesta del congedo parentale (articolo 7);
f) l’estensione alle lavoratrici autonome ed alle imprenditrici agricole del diritto all’indennità di maternità anche nel caso di adozione e affidamento;
g) il rafforzamento delle tutele nei confronti delle madri lavoratrici autonome (articoli 15, 16, 18, 19 e 20);
h) il doveroso allungamento del congedo parentale per grave disabilità del figlio fino ai dodici anni di età (articolo 8);
i) l’introduzione di incentivi per le aziende che ricorrono al telelavoro nel caso di lavoratori con figli piccoli;
j) l’equiparazione, al fine di incentivarla, della maternità e paternità biologica a quella adottiva e affidataria;
il testo non dà attuazione di talune deleghe recate dal comma 9 dell’articolo l della legge n. 183 del 2014, quali: l’introduzione del credito di imposta (cosiddetto tax credit) per le donne lavoratrici con figli minori (lettera c); la facoltà di cessione delle ferie fra lavoratori in favore del lavoratore genitore di figlio minore (lettera e); le modalità di integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia e le cure parentali forniti dalle aziende (lettera f); la razionalizzazione degli organismi, delle competenze e dei fondi operanti in materia di parità e pari opportunità nel lavoro ed il riordino delle procedure inerenti alla promozione di azioni positive;
di più. Lo schema di decreto, così come proposto al Parlamento, nonostante la sua seppur mal celata ambizione di novellare il precedente TU n. 151 del 2000, rinuncia a ricomprendere tutte quelle misure attualmente previste da altri provvedimenti e finanziate con risorse limitate, a sostegno della maternità e della paternità, come il bonus bebè riconosciuto alle famiglie con un reddito fino a 25.000 euro ed il voucher asili nido e baby sitting per le madri che scelgono di rientrare al lavoro rinunciando al congedo parentale, scelta che denuncia una volontà consapevole di mantenere ancora distante la costruzione di quel sistema integrato di welfare per la cura che allarghi le possibilità di scelta delle madri e dei padri nelle strategie di cura tra servizi pubblici, servizi di mercato e cura diretta, e scoraggi la rinuncia all’occupazione;
né ha trovato collocazione all’interno del provvedimento, nell’ambito della promozione dell’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali, il cosidetto tax credit, forma di sgravio fiscale per le aziende che assumono le donne con figli minori a carico e con un reddito familiare medio basso, che avrebbe costituito il vero banco di prova per comprendere quanto il Governo intenda realmente investire sul lavoro femminile;
un giudizio negativo merita l’opportunità contemplata dal decreto, sicuramente utile e che risponde alla richiesta di maggior flessibilità, di spalmare l’utilizzo del congedo parentale fino ai 12 anni di età, che però si affianca alla contestuale abolizione della possibilità di usufruire del 30 per cento della retribuzione per gli ulteriori periodi utilizzati dagli 8 ai 12 anni, lasciando quindi scoperte proprio le famiglie più bisognose, cioè quelle a più basso reddito. Così come negativa appare la previsione che lascia invariato l’unico giorno di congedo obbligatorio per i padri (già introdotto in via sperimentale dalla cosiddetta legge Fornero n. 92 del 2012 e per questo esaurirà la sua applicazione già nell’anno in corso), che risulta assolutamente inadeguato e carente sul piano della realizzazione di un piena genitorialità condivisa, mentre gli ulteriori due giorni facoltativi riconosciuti al padre vengono sottratti alla madre dal suo monte congedi, realizzando così un disincentivo al loro utilizzo. Infatti qualsiasi congedo parentale può avere una ricaduta negativa sulle lavoratrici, qualora non venga il più possibile condiviso con il partner, in quanto le donne avendo retribuzioni di norma più basse sono generalmente coloro che usufruiscono di tali congedi, rimanendo quindi più a lungo lontane dal mercato del lavoro, con possibile ripercussione negativa sulle proprie skill e alimentando fattori di segregazione orizzontale e verticale e più in generale di discriminazione;
si ritiene grave l’esclusione della cumulabilità con altri permessi e riposi, in quanto non solo si esclude la compatibilità con i riposi per allattamento, ma soprattutto si esclude la compatibilità con i permessi frazionati ex lege n. 104 del 1992 chiesti per il figlio affetto dahandicap grave;
tutte le suddette forme di flessibilità orarie andranno analizzate con cura per valutarne gli effetti sulla retribuzione e sulla previdenza, anche alla luce del tetto applicato dall’attuale normativa alla contribuzione figurativa, che appare particolarmente penalizzante, pur se alla destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e di riduzioni volontarie, part- time, temporanee o durature che siano, non si può non riconoscere il merito di rappresentare il superamento di quell’inerzia del modello di orario di lavoro standard, nato su quella rappresentazione del lavoratore come maschio-breadwinner, fino ad oggi forte ostacolo ai nuovi modi di intrecciare la vita e il lavoro delle donne e delle giovani generazioni;
gravissima si ritiene la totale assenza all’interno dello schema di decreto di un rafforzamento normativo richiamando nel testo, e quindi rendendole organiche, le norme che vietano la pratica illecita, sommersa, vessatoria, discriminante ed ancora ampiamente ed inspiegabilmente diffusa nel mercato del lavoro italiano, delle cosiddette dimissioni in bianco, introducendo procedure dissuasive di comportamenti datoriali illegittimi e la possibilità di dimissioni volontarie nel periodo soggetto a divieto di licenziamento, fino al compimento del primo anno di vita del bambino;
tra le disposizioni innovative introdotte dallo schema di decreto merita senz’altro menzione quella che introduce per la prima volta nel nostro sistema di tutele il congedo per le donne vittime di violenza di genere ed inserite in percorsi di protezione debitamente certificati, prevedendo che le stesse possano astenersi dal lavoro, per un massimo di tre mesi, per motivi legati a tali percorsi, garantendo loro l’intera retribuzione, la maturazione delle ferie e degli altri istituti connessi. Alle stesse, sulle quali pesa una doppia fragilità, ovvero quella derivante dalla violenza subita e quella dell’assenza di prospettiva lavorativa, viene anche riconosciuto il diritto alla trasformazione, su richiesta, del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Si tratta per lo più di proposte che appaiono eccessivamente semplificate, poco coerenti con la preziosa esperienza fin qui accumulata dai Centri Antiviolenza e prive di una visione prospettica che metta al centro la necessità di prevenzione e di cambiamento culturale. Viceversa più giusta sarebbe stata la previsione di interventi maggiormente personalizzati sulla base delle indicazioni del centro antiviolenza che prende in carico la vittima di violenza;
la riduzione delle tutele reali sui licenziamenti individuali e collettivi, avviata con la recentissima adozione del sopracitato del decreto legislativo n. 23 del 2015 (cosiddetto decreto sulle tutele crescenti) combinata con la flessibilizzazione selvaggia introdotta dal decreto sui contratti a termine, ossia la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di pochi mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni,permetteranno ai datori di lavoro di sottoscrivere contratti brevi, rinnovabili più volte, con effetti pratici devastanti soprattutto per le donne lavoratrici. Il datore di lavoro potrà ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto, poiché non occorrerà più neanche far firmare, illegalmente, eventuali dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative della lavoratrice al momento della sua assunzione: basterà infatti fare sistematicamente contratti brevi, senza l’obbligo di rinnovarli alla loro scadenza in caso di gravidanza, con relativa perdita del diritto alla indennità di maternitàpiena. Queste prevedibili conseguenze avrebbero dovuto suggerire al Governo l’adozione di misure di rafforzamento della maternità e della genitorialità;
una compiuta politica di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro non dovrebbe prescindere dal riconoscimento delle fasi della vita dedicate alla cura della famiglia, in forma di crediti ai fini pensionistici di contributi figurativi legati al numero dei figli, o, nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta, di accesso anticipato al trattamento previdenziale per necessità di accudimento di persone non autosufficienti. Niente di tutto questo è contemplato nell’agenda di Governo;
riguardo alle risorse finanziarie, il testo reca misure sperimentali che, come specificato nel comma 2 dell’articolo 25, sono applicabili al solo anno 2015, vanificando quindi di fatto la portata normativa della proposta, con l’eccezione delle misure previste all’articolo 24, valevoli per il triennio 2016-2018: l’eventuale riconoscimento dei benefici previsti dal decreto in anni successivi al 2015 è, infatti, condizionata alla entrata in vigore di decreti legislativi attuativi dei criteri di delega di cui alla legge 10 dicembre 2014, n. 183, che individuino adeguata copertura finanziaria;
il testo prevede il carattere sperimentale anche per misure che non hanno un carattere oneroso e che potrebbero invece applicarsi sin da ora in via permanente a decorrere dall’anno 2015, e segnatamente:
a) all’articolo 2, comma 1, lettera b);
b) agli articoli 4, 6, 11, 12, 21 e 22; agli articoli 14 e 17, che modificano due rubriche, legandosi tuttavia a innovazioni della normativa sostanziale;
c) agli articoli 17, 18, 19 e 20 «nell’ipotesi di adeguamento da parte degli enti delle relative contribuzioni» per le libere professioniste;
d) all’articolo 21, che espunge dall’elenco dei provvedimenti che permangono in vigore disposizioni già abrogate, inserendovi altresì un nuovo decreto ministeriale;
92 del 2012, si verifichino o stiano per verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa di cui al precedente articolo 25. In tal caso, il Ministro dell’economia e delle finanze provvede con proprio decreto, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, alla rideterminazione dei benefici ivi previsti, con particolare riferimento a quelli di cui agli articoli da 7 a 10; inoltre, l’articolo 26 reca una clausola di salvaguardia da attivare qualora, a seguito del monitoraggio degli effetti finanziari delle misure previste dallo schema di decreto svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, anche attraverso l’utilizzo del sistema permanente di monitoraggio di cui all’articolo 1, comma 2, della legge n.
l’articolo 24 destina, in via sperimentale per il triennio 2016-2018, per la promozione della conciliazione tra lavoro e vita privata, una quota pari al 10 per cento del Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello (pari a 39 milioni di euro) secondo criteri e modalità fissati con apposito decreto interministeriale. Il decreto interministeriale definisce ulteriori interventi in materia di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, anche attraverso l’elaborazione di linee guida, volte a favorire la stipula di contratti aziendali, a cui provvede un’apposita cabina di regia, presieduta da un rappresentante del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e composta da rappresentanti delle amministrazioni competenti, con l’ulteriore compito di coordinare le attività di monitoraggio dei suddetti interventi;
nel testo iniziale del decreto legislativo lo stanziamento previsto per la realizzazione degli obiettivi era di 222 milioni di euro, ridotti in un secondo momento a 104 milioni di euro: si riducono gli stanziamenti inizialmente previsti per la realizzazione degli obiettivi prioritari della delega e si stanziano 39 milioni di euro per la contrattazione di secondo livello, a discapito della contrattazione collettiva nazionale;
il testo non specifica, in conformità alla norma posta nella disciplina di delega, se il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, verosimilmente, la sperimentazione prevista dal testo, sarà limitata ai restanti sei mesi dell’anno 2015. Infatti lo stesso specifica che le disposizioni in esso contenute hanno carattere sperimentale per il solo 2015 e considerando il tempo ancora occorrente per l’approvazione, si corre il rischio che la sperimentazione sia limitata a pochi mesi. Sarebbe stato pertanto più utile prevedere un’efficacia temporale più lunga;
per concludere, occorre liberare ogni singolo lavoratore dalla gestione dell’intreccio tra dimensione lavorativa e dimensione privata, intreccio che nel nostro Paese si regge sul cosiddetto “welfare familistico”, come dimostra una recente ricerca Istat, e che evidenzia il doppio ruolo esercitato dalla donna lavoratrice che, in mancanza di servizi ed infrastrutture adeguate si traduce nell’ingranaggio diabolico della “doppia giornata di lavoro”. E’ quindi indispensabile rivedere, in senso innovativo, questo “welfare familistico”, favorendo la reale ed effettiva ripartizione delle responsabilità familiari tra i due generi, una diversa organizzazione del lavoro ed un potenziamento di tutti i servizi volti al sostegno dei carichi familiari nel territorio attuato, soprattutto, con un consistente aumento dell’offerta di asili nido e di servizi per l’infanzia. A tutto questo lo schema di decreto n. 157 sembra non voler rispondere, se non in parte;
esprime parere contrario
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DAI SENATORI CATALFO, PUGLIA E PAGLINI SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 157
L’ 11a Commissione del Senato, in sede d’esame dello schema di decreto legislativo recante misure di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e dei lavoro (AG n. 157)
premesso che:
lo schema di decreto in esame contiene prevalentemente norme di modifica del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001;
considerato che:
come rilevato dalla Commissione europea nel suo recente rapporto sugli investimenti sociali “Dal punto di vista di investimenti nel sociale, l’Italia mostra gravi carenze in termini di adeguatezza dei sistemi di congedo, la loro interazione con i servizi per l’infanzia e efficace parità di genere nei ruoli genitoriali. A partire dal 2012 (legge n. 92 del 2012), ci sono stati cambiamenti nel sostegno di paternità e l’impiego di madri. Questi hanno contribuito a sostenere i genitori, promuovendo una cultura dei doveri di custodia dei bambini condivise all’interno delle famiglie, facilitando la conciliazione tra lavoro e vita familiare. Tuttavia, sono anche stati criticati per la breve durata del congedo di paternità e l’uso di un sistema di voucher per servizi di custodia, che potrebbero portare ad un uso limitato di congedo parentale – poiché il primo è un’alternativa a quest’ultimo.”
in Italia, la spesa per regimi di prestazioni familiari (in contanti e in natura) corrispondevano al 64 per cento (nel 2008) e al 62 per cento (nel 2012) della media UE di euro per abitante (ai prezzi del 2005). Le risorse totali dedicate principalmente agli strumenti che supportano le famiglie sono aumentate del 53 per cento nel 2014 rispetto al 2010 (ma solo del 6 per cento rispetto al 2008), e si prevede un ulteriore aumento nel 2015 e nel 2016. Tuttavia, sottolinea la Commissione “tali aumenti non rappresentano una chiara evoluzione verso un sistema di investimenti nel sociale (SI): quando l’SI è ripartito per tipo di spesa, la maggiore tendenza in realtà favorisce le prestazioni in denaro (per esempio, i bonus e buoni nel caso dei neonati o adottati) in confronto ai servizi face-to-face (ad esempio quelli sostenuti da un fondo nazionale per le politiche della famiglia sono diminuiti del 88 per cento tra il 2008 e il 2014)”;
lo schema di decreto in esame introduce l’estensione di alcuni diritti e tutele, necessarie per una sempre maggiore evoluzione dei mutamenti sociali positivi, in particolare:
a) riconoscendo ad entrambi i genitori il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un bambino, il provvedimento promuove, anche attraverso specifici incentivi, un modello di genitorialità piena che si va sempre più affermando con il diffondersi della cosiddetta paternità responsabile;
b) parificando, come già indicato dalla Corte Costituzionale, i diritti dei genitori naturali, adottivi ed affidatari, attraverso l’equiparazione della durata del congedo di maternità tra lavoratori dipendenti, autonomi e professionisti, rimuove i negativi effetti di un’ingiusta gerarchia di valori;
c) lasciando alla donna la scelta della distribuzione prima e dopo il parto del tempo complessivo di astensione obbligatoria dal lavoro, riconosce a ciascuna madre il diritto di autonoma gestione di tempi così personali, pur nella salvaguardia della salute del nascituro;
d) estendendo i tempi di astensione della fruibilità del congedo parentale per la cura dei figli, più compiutamente riconosciuti ai padri (anche se la madre è lavoratrice autonoma) e ai lavoratori autonomi (nel caso in cui la madre sia lavoratrice dipendente) ridisegna la gerarchia fra tempi di lavoro e tempi di cura, con l’obbligo di prevedere a vantaggio di questi ultimi nuovi diritti e risorse;
e) estendendo l’automaticità delle prestazioni, ovvero il riconoscimento del diritto all’indennità di maternità anche in presenza di omesso versamento dei contributi dovuti da parte del committente, per le lavoratrici iscritte alla gestione Separata INPS non iscritte ad altre forme obbligatorie, porta alla necessità di non identificare il mondo del lavoro esclusivamente con quello del lavoro dipendente, operando anche concretamente un primo passo nella più universale direzione del riconoscimento pieno del valore sociale della maternità, a prescindere dalla condizione lavorativa della donna;
in particolare appare positivo il recepimento tramite la novella di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b), della sentenza della Corte Costituzionale 4-7 aprile 2011 n. 116, tematica segnalata fin dall’inizio dell’iter parlamentare della legge delega con appositi emendamenti trasfusi poi nell’ordine del giorno G5.203;
restano tuttavia ulteriori problematiche aperte, in primis, la omogeneizzazione degli investimenti tra i diversi settori di politica sociale in Italia. Lo sbilanciamento, dal punto di vista funzionale, a favore del sistema di protezione sociale per la vecchiaia (pensioni), la frammentarietà e il carattere corporativo del sistema di welfare italiano hanno ostacolato lo sviluppo di politiche che combinano le strategie di investimento per il sociale con la tutela dei diritti delle persone in condizioni di povertà e di esclusione sociale. L’impatto della crisi del debito sovrano e la persistente stagnazione economica, da un lato, e le misure recentemente adottate nel settore della politica sociale, dall’altro, hanno portato ad un aumento dei rischi sociali per grandi fasce della popolazione in particolare i bambini che presentano particolari criticità dal punto di vista degli investimenti sociali, madri sole e disoccupati di lunga durata;
esprime parere favorevole con le seguenti osservazioni:
il riferimento al carattere “sperimentale” delle misure dello schema di decreto in esame di cui all’articolo 25 così come la formulazione della clausola di salvaguardia di cui all’articolo 26, comma 1, secondo periodo, risultano foriere di incertezza sul carattere non transitorio e finanche sulla effettiva attuazione delle disposizioni di cui allo schema di decreto stesso. Appare dunque necessaria una espunzione di tali disposizioni dal testo o quantomeno una loro riformulazione;
appare inoltre necessario, al fine di dare reale completezza al quadro di riforma previsto dal comma 9 dell’articolo 1 della legge n. 183 del 2014, provvedere all’attuazione delle disposizioni di cui alle lettere c), f) e i) del medesimo comma;
appare a tal fine necessario provvedere ad incrementare, nell’ambito della prossima sessione di bilancio, le risorse stanziate per l’attuazione del piano straordinario d’intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi, in modo tale da garantire alle madri lavoratrici:
a) l’istituzione di nuovi nidi aziendali, sia presso le sedi centrali e periferiche delle pubbliche amministrazioni nazionali, singole o tra loro consorziate, sia nei comuni, sia nel settore privato (attraverso convenzioni e relativi incentivi finanziari alle aziende), anche al fine di conseguire l’obiettivo comune europeo della copertura territoriale di almeno il 33 per cento per la fornitura di servizi per l’infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall’Agenda di Lisbona;
b) al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo finanziario mensile per i servizi di babysitting, e asili nido pubblici o privati in prossimità dei luoghi di lavoro o di residenza della lavoratrice, anche al fine di promuovere, nel mercato del lavoro la parità tra uomo e donna. In alternativa, l’incentivazione su tutto il territorio di servizi integrativi e innovativi, quale «il nido di famiglia», gestito dalla «tagesmutter o mamma di giorno», che accudisce ed educa presso la propria abitazione bambini da 0 a 6 anni;
c) l’utilizzo di servizi di babysitting, attraverso la deduzione, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, delle retribuzioni eventualmente corrisposte ad addetti ai predetti servizi, compresi i contributi previdenziali e assistenziali per l’adempimento dell’obbligo delle assicurazioni sociali nei loro confronti;
al fine di favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, oltre che per le esigenze di cure parentali, appare necessario assicurare la creazione di una cornice normativa che includa tra le forme più moderne di lavoro, anche fondate sulla digitalizzazione, capaci di coniugare le esigenze dell’impresa con quelle dei lavoratori e lavoratrici (smart working, lavoro a distanza, lavoro agile), senza limitarsi ad affidarne la regolamentazione alla contrattazione aziendale di secondo livello e al ruolo attivo delle aziende, garantendo altresì piani incentivanti e agevolazioni fiscali e contributive per le imprese che decidono di adottare le suddette modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa nuove e diverse dal telelavoro [si vedano gli ordini del giorno G/1428-B/41/11 (testo 2) e G/1428-B/44/11 (testo 2)];
nell’ambito dell’utilizzo del congedo parentale fino ai 12 anni di età valutare la possibilità di concedere un supplemento del 30 per cento della retribuzione per gli ulteriori periodi utilizzati dagli 8 ai 12 anni, in modo da garantire le esigenze delle famiglie con le fasce di reddito più basse [si veda ordine del giorno G/1428-B/42/11 (testo 2)];
all’articolo 7 sarebbe opportuno prevedere al comma 1, lettera b) di concedere la fruizione del congedo parentale su base oraria, giornaliera, settimanale, mensile, anche alternando le modalità di fruizione in base alle esigenze [si veda ordine del giorno G/1428-B/43/11 (testo 2)];
all’articolo 13, sarebbe opportuno prevedere, nell’ambito dell’equiparazione delle lavoratrici subordinate con le lavoratrici iscritte alla gestione separata dell’INPS, l’equiparazione del limite di età del bambino, in caso di adozione o affidamento [si veda ordine del giorno G/1428-B/43/11 (testo 2)] .
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DALLA SENATRICE MUNERATO SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 157
La Commissione 11a, in sede di esame dello schema di decreto legislativo in materia “conciliazione dei tempi di cura, di vita e di lavoro”, in attuazione dell’articolo 1, commi 8, 9 e 11, della legge n.183 del 2014;
preso atto del contenuto dello schema, volto alla revisione ed all’aggiornamento delle misure intese a tutelare la maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire idoneo sostegno alle cure parentali;
considerato che lo schema in esame dà parziale attuazione al contenuto della delega, non attuando tutti i principi e criteri direttivi contenuti nel predetto comma 9 dell’articolo 1 della legge delega, con particolare riguardo a:
1. l’attuazione delle cosiddette “ferie solidali”, vale a dire la possibilità di cessione tra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessiti di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute (lettera e) del comma 9 della legge delega);
2. l’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali, forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali, nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, in coordinamento con gli enti locali titolari delle funzioni amministrative, anche mediante la promozione dell’impiego ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi (lettera f) del comma 9 della legge delega);
ritenuta la non attuazione dei predetti criteri e principi direttivi una grave negligenza da parte del Governo, disattento e poco sensibile alle reali richieste di aiuto da parte delle madri lavoratrici e dei lavoratori genitori di figli affetti da patologie gravi;
ricordato infatti che la nascita di un figlio rappresenta la maggiore causa di perdita dell’occupazione e/o di sottoccupazione femminile, causa la carenza di strutture e servizi, come appunto gli asili nido aziendali, o l’insufficienza di quelli esistenti, come gli asili nido comunali;
rimarcati i problemi che incontrano i lavoratori e le lavoratrici genitori di figli affetti da gravi patologie, per i quali le ferie ed i permessi maturati non sono mai sufficienti rispetto alla reale necessità di rimanere accanto al proprio figlio malato;
considerato, altresì, il rilievo del Servizio bilancio del Senato in merito alle insufficienti coperture degli oneri derivanti dall’introduzione di congedi dedicati alle donne inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere;
esprime parere contrario
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DAI SENATORI BAROZZINO, DE PETRIS, CERVELLINI, DE CRISTOFARO, PETRAGLIA, STAFANO E URAS, SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 158
L’11a Commissione, esaminato l’Atto del Governo n. 158, premesso che:
la legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act) all’articolo 1, comma 7, ha delegato il Governo ad adottare un decreto legislativo recante “un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, in coerenza con la regolazione comunitaria e le convenzioni internazionali;
nello specifico, lo schema di decreto legislativo del Governo dà attuazione al comma 7, lettere a), b), d), e), h), i), che prevedono quanto segue:
la lettera a) stabilisce di individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il contesto occupazionale e produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali. Il contenuto della lettera a) è tanto generico che si fa fatica ad individuare in essa principi e i criteri direttive rispettosi dettato dell’articolo 76 della Costituzione;
la lettera b) stabilisce che il decreto delegato debba “promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”;
la lettera d) dispone il rafforzamento degli strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro;
la lettera e) stabilisce la revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita;
la lettera h) prevede la possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali, in tutti i settori produttivi, assicurando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati;
la lettera i) prevede l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con il testo organico semplificato al fine di assicurare certezza agli operatori, eliminando duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative;
lo schema di decreto delegato in esame ha conservato ed è intervenuto sui seguenti contratti: il contratto di lavoro a tempo indeterminato; part-time; la somministrazione; il tempo determinato; l’apprendistato; il lavoro intermittente; il lavoro ripartito; il lavoro accessorio;
inoltre ha previsto che:
1) i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro non saranno più possibili, mentre quelli in essere sono fatti salvi fino alla loro cessazione;
2) i contratti di collaborazione anche a progetto restano vigenti soltanto:
a) per le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
b) per le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
c) per le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
d) per le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289;
dal 1° gennaio 2016 è previsto che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Nelle pubbliche amministrazioni la nuova disciplina si applicherà dal 1° gennaio 2017.
valutato che:
sulla delega in generale:
dalla lettura del contenuto della delega emerge la mancata indicazione delle tipologie contrattuali che debbono essere conservate o modificate – salvo poche eccezioni -, mentre il principio al quale il Governo dovrebbe attenersi è vago, limitato alla valutazione del “l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale” dei contratti. Si tratta di una delega generica che viola i criteri stabiliti dall’articolo 76 della Costituzione ed espone lo schema in esame alla probabilità di una declaratoria di incostituzionalità;
sui contratti di lavoro a tempo indeterminato:
l’articolo 1 riproduce l’articolo 1, comma 01, del decreto legislativo n. 368 del 2001 recante la disciplina del contratto a tempo determinato, in attuazione della direttiva europea che ha recepito integralmente l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinatosiglato dalle parti sociali europee. Tale comma è ripreso dal preambolo dell’Accordo;
il punto 6 delle Considerazioni generali della direttiva europea in materia di lavoro a tempo determinato precisa anche che: “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”. Lo schema in esame – e i decreti legislativi di attuazione del Jobs Act in generale – ignorano la seconda parte di questo considerando, a riprova del rifiuto di riconoscere che il contratto a tempo indeterminato contribuisce alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento;
eppure la delega – pur vaga – ha sul contratto a tempo indeterminato almeno un contenuto normativo chiaro riconducibile al Considerando 6 della direttiva, poiché impone al Governo di renderlo “più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”. Invece, le innovazioni introdotte dallo schema di decreto legislativo in esame favoriscono altre tipologie contrattuali – come si evidenzierà in seguito – e non contengono neppure una previsione che aumenti la convenienza del contratto a tempo indeterminato, in termini di oneri diretti e indiretti, rispetto alle altre tipologie contrattuali. E altrettanto ha fatto il decreto legislativo che ha introdotto il contratto a tutele crescenti. Infatti l’aver reso leciti i licenziamenti illegittimi non costituisce una misura di riduzione di oneri diretti e indiretti in favore del tempo indeterminato, ma solo una penalizzazione per i lavoratori. Né possono essere annoverati come favorevoli i vantaggi contributivi previsti dalla legge di stabilità per il 2015, in quanto non strutturali, ma validi solo per un triennio;
sui contratti di lavoro a tempo parziale:
il contenuto dell’intero Capo II dello schema di decreto “Lavoro ed orario ridotto e flessibile”, articoli da 2 a 9, contiene disposizioni che non sono oggetto di delega dei commi 7 e 11, pertanto tale Capo risulta essere in contrasto con l’articolo 76 della Costituzione in quanto emanato dal Governo in assenza di delega;
lo schema di decreto legislativo in esame abroga il decreto legislativo n. 61 del 2000, che ha recepito la direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dai sindacati europei;
lo schema di decreto legislativo introduce alcune innovazioni che riducono spazi e prerogative alla contrattazione collettiva e alle rappresentanze sindacali e – in almeno due casi rilevanti – colpiscono i diritti dei lavoratori. Tali innovazioni pongono un problema di compatibilità con la direttiva europea;
viene abrogata la disciplina attualmente in vigore che prevede esplicitamente che i contratti collettivi nazionali “possono, altresì, prevedere per specifiche figure o livelli professionali modalità particolari di attuazione delle discipline (relative al ricorso al tempo parziale e al lavoro supplementare) rimesse alla contrattazione collettiva ai sensi del presente decreto”. Le conseguenze di questa abrogazione portano a ritenere che si sia voluto eliminare un potere precedentemente conferito alla contrattazione;
è abrogata la facoltà per il contratto individuale di lavoro e per i contratti collettivi di prevedere che la corresponsione ai lavoratori a tempo parziale di emolumenti retributivi, in particolare a carattere variabile, sia effettuata in misura più che proporzionale (articolo 4 del decreto legislativo n. 61);
si conferma la precedente disciplina in materia di contenziosi, nei casi in cui il contratto scritto non determini la collocazione temporale dell’orario della prestazione lavorativa. Tuttavia, il giudice è ora chiamato a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, con valutazione equitativa, tenendo conto in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro. Tale criterio di decisione equitativa del giudice era già previsto dalla precedente disciplina, ma si applicava solo in mancanza di regolamentazione specifica sul punto da parte dei contratti collettivi. Con la disciplina recata dallo schema di decreto legislativo non sarà più così e il giudice non utilizzerà il contratto collettivo in via principale per dirimere eventuali contenziosi sulla collocazione dell’orario;
lo schema di decreto legislativo modifica per alcuni aspetti il ruolo delle rappresentanze sindacali. Non è stato riprodotto, infatti, l’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 61 del 2000 che prevedeva – fatte salve eventuali più favorevoli previsioni dei contratti collettivi – l’obbligo del datore di lavoro di informare le rappresentanze sindacali aziendali, ove esistenti, con cadenza annuale, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia ed il ricorso al lavoro supplementare;
è abrogata anche la previsione secondo cui i centri per l’impiego e le agenzie di lavoro sono tenuti a dare, ai lavoratori interessati ad offerte di lavoro a tempo parziale puntuale informazione sulla disciplina legislativa prevista, preventivamente alla stipulazione del contratto di lavoro (articolo 3, comma 14, decreto legislativo n. 61). Per le agenzie di lavoro la mancata fornitura di detta informativa costituiva comportamento valutabile ai fini dell’applicazione della revoca dell’autorizzazione (a norma dell’articolo 10, comma 12, letterab), del decreto legislativo n. 469 del 1997);
con riferimento al lavoro supplementare si mantiene l’obbligo che i contratti collettivi stabiliscano il numero massimo delle ore di lavoro supplementare, ma è stato abrogato l’obbligo di prevedere le “causali in relazione alle quali si consente di richiedere ad un lavoratore a tempo parziale lo svolgimento di lavoro supplementare”. L’eliminazione delle causali è dovuta al fatto che l’articolo 4, comma 5, ora prevede che se il contratto collettivo non contenga una specifica disciplina del lavoro supplementare, nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare in misura non superiore al 15 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi il lavoro supplementare è retribuito con una percentuale di maggiorazione sull’importo della retribuzione oraria globale di fatto pari al 15 per cento, comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti. Poichè la maggiorazione retributiva del lavoro supplementare deve sempre fare riferimento alla retribuzione contrattuale, tale limite del 15 per cento andrebbe pertanto soppresso.
è grave l’abrogazione del divieto di licenziamento per giustificato motivo quando il lavoratore rifiuti di prestare il consenso allo svolgimento del lavoro supplementare (articolo 3, comma 3, del decreto legislativo n. 61 del 2000), pur conservando l’obbligo di richiedere il consenso del lavoratore che sia chiamato a svolgere prestazioni di lavoro supplementare – che non sia previsto e regolamentato dal contratto collettivo. In questo modo il consenso da prestare rimane solo formale, in quanto chi non accetta di svolgere tale lavoro potrebbe subire la minaccia o l’effettivo licenziamento per giustificato motivo;
nel rapporto di lavoro a tempo parziale verticale o misto è consentito dalla disciplina in vigore lo svolgimento di prestazioni lavorative straordinarie, ma lo schema di decreto legislativo abroga l’applicazione a tali prestazioni della disciplina legale e contrattuale vigente in materia di lavoro straordinario nei rapporti a tempo pieno;
viene abrogato il diritto al risarcimento del lavoratore in caso il datore di lavoro non rispetti il diritto di precedenza, oggi previsto in misura corrispondente alla differenza fra l’importo della retribuzione percepita e quella che gli sarebbe stata corrisposta a seguito del passaggio al tempo pieno nei sei mesi successivi a detto passaggio (comma 3 dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 61 del 2000);
viene abrogata la sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro per la mancata comunicazione alla direzione provinciale del lavoro sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia ed il ricorso al lavoro supplementare, prevista dal comma 4 dell’articolo 8 del decreto legislativo 61 del 2000. Gli importi delle sanzioni erano destinati alla gestione contro la disoccupazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS);
lo schema di decreto legislativo interviene anche sulla modificazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Con riferimento ai lavoratori del settore pubblico e del settore privato affetti da patologie oncologiche nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, è stato confermato il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale verticale od orizzontale e la possibilità – a richiesta del lavoratore – di trasformare il rapporto di lavoro a tempo parziale nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno. Tuttavia è stato abrogato il comma che faceva salve, in ogni caso, l’applicazione di disposizioni più favorevoli per il prestatore di lavoro;
a tale riguardo si propone inoltre che per i medesimi lavoratori e per tutti i portatori di patologie gravi e/o sottoposti a cure post-operatorie o a terapia salvavita, andrebbe previsto altresì: a) l’esclusione dal computo dei limiti massimi di assenza per malattia, previsti dalla contrattazione collettiva o individuale; b) il diritto alla conservazione del posto di lavoro, indipendentemente dalla durata del decorso della malattia e dei giorni di assenza, dovuti anche dalle terapie salvavita; c) la corresponsione, da parte del datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati, di una integrazione di quanto percepisce in forza di disposizioni legislative e/o contrattuali, fino al raggiungimento del normale trattamento economico complessivo netto che avrebbe percepito se avesse lavorato;
sui contratti di lavoro intermittente:
con riferimento a questo contratto, più volte introdotto e abrogato nel nostro ordinamento è abrogata – ancora una volta – una disposizione che riguarda i contratti collettivi. Secondo tale disposizione le parti dovevano recepire nel contratto le indicazioni contenute nei contratti collettivi, ove previste, oltre ad indicare agli altri gli elementi costitutivi del rapporto previsti dalla legge;
si prevede che il lavoratore intermittente, al pari di quello continuativo, ha l’obbligo di comunicare il proprio stato di malattia, nel corso della quale non solo non recepisce la contribuzione ma “nel periodo di temporanea indisposizione non matura il diritto all’indennità di disponibilità”, in palese violazione dell’articolo 38 della Costituzione che prevede che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia”; si prevede inoltre che il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto; è il caso di rilevare come invece i lavoratori ordinari non solo godano del trattamento di malattia, ma per essi la contrattazione collettiva non prevede alcuna facoltà di recesso prima di 4 o 5 giorni consecutivi di assenza ingiustificata;
sui contratti di lavoro a tempo determinato:
lo schema di decreto legislativo abroga e sostituisce il decreto legislativo n. 368 del 2001 che regola il contratto di lavoro a tempo determinato. Le disposizioni del decreto legislativo n. 368 del 2001, che da ultimo erano state oggetto di modifica e integrazione da parte del decreto-legge n. 34 del 2014 (decreto Poletti) non vengono semplicemente riprodotte. Il contratto di lavoro a tempo determinato viene ulteriormente modificato e integrato con elementi anche estremamente negativi;
la riorganizzazione della materia operata dal Governo, lungi dall’essere una razionalizzazione, è confusa e rende molto difficile la ricostruzione dell’impianto normativo. Attraverso un lavoro di “taglia e cuci” sono stati spostati o fusi periodi, commi e articoli. In questo modo il testo risulta costellato anche di contraddizioni;
una contraddizione è la seguente:
a) la successione di due contratti a tempo determinato senza alcuna soluzione di continuità oggi determina che il rapporto di lavoro si considerasse a tempo indeterminato fin dalla data di stipulazione del primo contratto (articolo 5, comma 4, decreto legislativo n. 368 del 2001). Con la modifica introdotta i contratti possono succedersi anche senza interruzione temporale tra l’uno e l’altro (articolo 17, comma 2 dello schema in esame) fermi la durata massima complessiva di 36 mesi e il massimo di 5 rinnovi;
b) tuttavia, viene mantenuta la disposizione che stabilisce quanto segue: qualora il lavoratore sia riassunto a tempo determinato entro dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato (articolo 5, comma 3, decreto legislativo n. 368 del 2001, ora articolo 19, comma 2). Le lettere a) e b) sono in contraddizione, poiché così come le disposizioni sono state riscritte sembrerebbe che se due contratti a tempo determinato si succedono senza interruzione, il rinnovo è legittimo. Però se tra un contratto a termine e il suo rinnovo intercorrono meno di 10 giorni (o 20 giorni nel caso di contratto di durata superiore a sei mesi), il nuovo contratto viene considerato a tempo indeterminato;
il decreto legislativo n. 368 del 2001 prevede che oltre i 36 mesi si possa concludere un ulteriore contratto a termine fra gli stessi soggetti per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Le predette organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto (articolo 5, comma 4-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001). Lo schema di decreto legislativo in esame stabilisce, invece, che l’ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di 12 mesi, può essere stipulato presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, direttamente tra datore di lavoro e lavoratore, abrogando l’assistenza delle organizzazioni sindacali e la determinazione da parte loro della durata del nuovo contratto. In questo modo si ottiene l’effetto che la durata massima del contratto possa passare da 36 a 48 mesi, ma senza escludere che il contratto possa durare anche più a lungo. Infatti, in apertura del comma 2 dell’articolo 17 è stata inserita una clausola di portata generale, la quale stabilisce che i contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possano prevedere una durata massima dei contratti a tempo determinato superiore a 36 mesi. Nella disciplina attuale, invece, l’articolo 10, comma 7, primo periodo, del decreto legislativo 368 del 2001 prevede che i contratti collettivi possano solo introdurre limiti quantitativi all’utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato. È grave che lo schema di decreto legislativo non prevede incompatibilità tra l’aumento della durata prevista dai contratti e quella stabilita direttamente tra datore di lavoro e lavoratore presso la Direzione territoriale del lavoro. In tal modo i contratti a tempo determinato potranno durare, mediante le proroghe, ben oltre 48 mesi. Questa possibilità verrà aggravata dal conferimento anche ai contratti aziendali e non solo a quelli nazionali del potere di derogare in aumento alla durata dei contratti;
inoltre, sempre l’articolo 17 prevede quale unico limite all’abuso del contratto a tempo determinato, che esso sia concluso “per lo svolgimento di mansioni di pari livello”, mentre il decreto legge 43 del 2014 prevede “per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione”; tale modifica renderà possibile, aggiungendo o togliendo uno dei compiti assegnati al lavoratore, aumentare o diminuire il suo livello e in tal modo prorogare il contratto a tempo determinato oltre ogni limite consentito; altresì, con il combinato disposto dell’articolo 55 (mansioni) che prevede la possibilità unilaterale di attribuzione di una mansione di livello inferiore, ilcontratto potrà già nascere di sei anni, qualora il datore di lavoro avrà l’accortezza di operare tale dequalificazione prima del finire dei 36 mesi; ed ancora, il contratto potrà essere da subito di nove anni se il datore di lavoro, al termine dei primi 72 mesi, promuoverà il lavoratore a livello immediatamente superiore; inoltre l’articolo 21, comma 4, precisa che in caso di sforamento della percentuale massima di ricorso al lavoro a termine del 20 per cento, resta comunque esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato, in cambio di una sanzione amministrativa, con ciò sancendo la totale deregolamentazione del lavoro precario che non ha più nessun vincolo:
viene abrogata la previsione di cui all’articolo 7 del decreto legislativo n. 368 del 2001, la quale stabilisce che il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato deve ricevere “una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”. Viene solo mantenuta dall’articolo 24 la previsione di cui al secondo comma dell’articolo 7, che in materia di formazione stabilisce che: “I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale”. L’abrogazione della formazione obbligatoria dei lavoratori a tempo determinato da parte delle aziende – in materia di sicurezza sul lavoro – rappresenta un vulnus e una sottovalutazione del problema degli incidenti in materia di lavoro;
come già ricordato, il decreto legislativo n. 368 del 2001 ha recepito la direttiva europea, in materia di contratti a tempo determinato. Al momento la disciplina italiana viola palesemente la direttiva europea sotto diversi profili;
la clausola 1 della direttiva stabilisce che il suo obiettivo è:
a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;
b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
A tale proposito, la clausola 5 rubricata “Misure di prevenzione degli abusi” stabilisce che:
1) ogni volta che vengono modificate le disposizioni in materia di contratti a tempo determinato “devono essere consultate le parti sociali”, cosa che non è avvenuta nella circostanza dell’adozione dello schema di decreto legislativo in esame e neppure in occasione delle modifiche precedenti;
2) per prevenire gli abusi, la direttiva stabilisce che le disposizioni nazionali devono contenere una o più misure relative a:
“a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.”
dalle disposizioni italiane di attuazione sono del tutto scomparse, già con il decreto legge n. 34 del 2014, le ragioni obiettive per giustificare i rinnovi dei contratti a tempo determinato. Si ricordi che l’articolo 1 del decreto legislativo 368 del 2001 stabiliva che per la stipulazione del contratto a tempo determinato fossero necessarie “ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo”. Tale formulazione si può modificare e ridefinire, ma non si può eliminare;
pertanto, in qualsiasi momento, l’Italia potrebbe essere oggetto dell’apertura di una procedura da parte della Commissione europea o, in sede di rinvio pregiudiziale, potrebbe subire gli effetti di una sentenza della Corte di giustizia;
l’obiettivo principale della direttiva è quello di combattere la discriminazione dei lavoratori a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato. La disposizione che contiene il divieto di discriminazione è fornita di sanzioni in caso di violazione, ma esse non sono mai state aggiornate dal 2001, data della sua entrata in vigore. L’ammontare delle sanzioni amministrative è riportato senza modifiche dallo schema di decreto in esame, ovvero: “Nei casi di inosservanza degli obblighi derivanti dall’articolo 6, il datore di lavoro è punito con la sanzione amministrativa da 25,82 euro a 154,94 euro. Se l’inosservanza si riferisce a più di cinque lavoratori, si applica la sanzione amministrativa da 154,94 euro a 1.032,91 euro”. Si tratta di sanzioni pecuniarie esigue, specie per una media o grande azienda. Anche questo elemento rende manifesto che le disposizioni vengono modificate quasi esclusivamente nella direzione che favorisce quei datori di lavoro che non rispettano le leggi e poco i lavoratori, anche quando ad essere violato è il principio che vieta la discriminazione;
l’esame delle modifiche apportate alla disciplina del contratto a tempo determinato dimostra in maniera chiara quanto la delega del legislatore sia stata violata, continuando a prevedersi un incremento ulteriore di misure di favore per questa tipologia contrattuale, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato;
sui contratti di somministrazione:
lo schema di decreto legislativo in esame supera ogni limitazione precedente esistente in materia di somministrazione a tempo indeterminato;
l’articolo 29 dello schema prevede che le aziende potranno sempre assumere lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, ma il loro numero non potrà eccedere il 10 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato alle dirette dipendenze del datore di lavoro. Tuttavia, i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale potranno prevedere un numero di lavoratori somministrati ancora più alto, ma non più basso;
lo schema di decreto legislativo ha eliminato la disposizione dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 276 del 2003 che stabiliva che i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dalle agenzie di somministrazione rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non sono in missione presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato motivo di risoluzione del contratto di lavoro. Questa abrogazione potrebbe essere gravida di conseguenze negative per i lavoratori, che alla fine di una missione potrebbero essere licenziati anche quando il contratto di somministrazione sia a tempo indeterminato, per il solo fatto che la missione è finita. Nel decreto legislativo non vi è un rinvio, infatti, all’applicazione alla somministrazione a tempo indeterminato delle disposizioni in materia di licenziamento;
nel caso in cui, invece, il somministratore mantenga a sua disposizione il lavoratore a tempo indeterminato, l’articolo 32 dello schema ha mantenuto la previsione in base alla quale al lavoratore è dovuta una indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie, corrisposta dal somministratore al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso rimane in attesa di assegnazione. La misura di tale indennità è prevista dal contratto collettivo applicabile al somministratore e comunque non è inferiore a quanto previsto con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. La disciplina attualmente in vigore stabilisce anche che il decreto del Ministero aggiorni periodicamente la misura dell’indennità, ma questa previsione purtroppo è stata abrogata;
il comma 3 dell’articolo 29 specifica che la disciplina della somministrazione a tempo indeterminato non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni ma – aggiunge – “Fermo quanto disposto dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001”, che reca il testo unico in materia di pubblico impiego. Tale rinvio è davvero poco intelligibile;
lo schema di decreto legislativo abroga definitivamente e del tutto le causali nella somministrazione a tempo determinato, omologando la fattispecie a quella del normale contratto a tempo determinato (come previsto dal decreto Poletti), senza alcuna valutazione della possibile esistenza di interessi generali che giustifichino il mantenimento di limiti o causali, come previsto dalla direttiva europea 2008/104/CE;
lo schema abroga anche l’articolo 28 del decreto legislativo n. 276 del 2003 il quale punisce la somministrazione fraudolenta. L’articolo abrogato recita: “Ferme restando le sanzioni di cui all’articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore, somministratore e utilizzatore sono puniti con una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione”. Ora nella legge restano le sanzioni amministrative previste dall’articolo 18 del decreto legislativo n. 276 del 2003, ora trasfuse nell’articolo 38 dello schema in esame, stabilite per specifiche violazioni delle disposizioni sul contratto di somministrazione. Nessuna sanzione – né vigilanza – viene prevista per il ricorso fraudolento alla somministrazione in base alle disposizioni generali dell’ordinamento lavoristico;
nello schema di decreto legislativo sono mantenuti all’articolo 30 i divieti di ricorso alla somministrazione previsti dall’attuale normativa in alcuni specifici casi, ma è modificato il divieto di assumere con tali contratti presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro. Lo schema di decreto legislativo stabilisce, invece, che in tali casi sarà sempre possibile assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità o sottoscrivere contratti di somministrazione con una durata iniziale non superiore a tre mesi, mentre la legislazione in vigore consente tale deroga al divieto unicamente in base ad accordi sindacali;
la forma del contratto di somministrazione è stata semplificata, ma non viene più previsto che il contratto riporti espressamente l’obbligo da parte del somministratore di pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico e del versamento dei contributi previdenziali (articolo 21, comma 1, lettera h) del decreto legislativo n. 276 del 2003); nonché l’obbligo, da parte da parte dell’utilizzatore, in caso di inadempimento del somministratore, del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei contributi previdenziali, fatto salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore (lettera k);
il fatto che sia il somministratore a pagare direttamente il lavoratore ora si potrà derivare solo in via indiretta dall’articolo 31 dello schema di decreto legislativo, il cui comma 2 stabilisce l’obbligo dell’utilizzatore di rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei lavoratori. Però in assenza di una previsione espressa, le parti potrebbero accordarsi perché sia l’utilizzatore a pagare direttamente il lavoratore in missione, fermo restando la solidarietà tra somministratore e utilizzatore in caso di inadempimento. Tale innovazione – che potrebbe sembrare una semplificazione – non è escluso che possa prestarsi a comportamenti fraudolenti.A rafforzare tale dubbio vi è l’aver previsto l’eliminazione dell’obbligo dell’utilizzatore di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili (articolo 21, lettera j) del decreto legislativo n. 276 del 2003);
lo schema del decreto legislativo abroga anche il comma 2 dell’articolo 21, del decreto legislativo n. 276 del 2003 che obbligava le parti a recepire nei contratti le indicazioni contenute nei contratti collettivi. Ciò è conseguenza della riduzione delle competenze generali dei contratti collettivi in materia di somministrazione – tranne che per aspetti già indicati, come ad esempio la fissazione del numero massimo di contratti di somministrazione a tempo determinato;
con riferimento agli obblighi sulla sicurezza e la salute ai sensi del decreto legislativo n. 81 del 2008, lo schema conserva la previsione in base alla quale gli obblighi di informazione sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e la formazione e l’addestramento all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale i lavoratori vengono assunti, sono a carico del somministratore. Tuttavia abroga la possibilità che il contratto di somministrazione preveda il trasferimento di tali obblighi a carico dell’utilizzatore. Lo schema di decreto legislativo abroga anche le altre previsioni dell’articolo 23, comma 5, del decreto legislativo n. 276 del 2003, che contengono:
1) l’obbligo dell’utilizzatore di informare il lavoratore delle mansioni che richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici;
2) la previsione a carico dell’utilizzatore di tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti e la responsabilità per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.
Tali obblighi sono già contenuti nel decreto legislativo 81 del 2008, ma l’abrogazione dei riferimenti specifici nella disciplina della somministrazione rischia di dare adito a confusione sul soggetto – tra somministratore e utilizzatore – su cui gravano gli obblighi. Ma non solo, potrebbero nascere dubbi anche sull’applicazioneintegrale del decreto legislativo n. 81 in materia di sicurezza e saluta, poiché lo schema ha abrogato un inciso contenuto nel comma 1 dell’articolo 23 del decreto legislativo n. 276 del 2003, il quale faceva salva “l’integrale applicabilità delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81” per tutta la durata della missione presso un utilizzatore. Queste abrogazioni sono gravi;
lo schema di decreto legislativo abroga il comma 7-bis dell’articolo 23 del decreto legislativo n. 276 del 2003 il quale così prevede: “I lavoratori dipendenti dal somministratore sono informati dall’utilizzatore dei posti vacanti presso quest’ultimo, affinché possano aspirare, al pari dei dipendenti del medesimo utilizzatore, a ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato. Tali informazioni possono essere fornite mediante un avviso generale opportunamente affisso all’interno dei locali dell’utilizzatore presso il quale e sotto il cui controllo detti lavoratori prestano la loro opera”. Tale previsione di vantaggio per i lavoratori somministrati è stata introdotta dalla riforma Fornero in quanto prevista espressamente dalla direttiva europea 2008/104/CE e non può essere abrogata;
ai lavoratori somministrati sono riconosciuti presso l’utilizzatore i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori al pari dei dipendenti di quest’ultimo. Tuttavia, lo schema di decreto legislativo abroga la previsione secondo la quale “Ai prestatori di lavoro che dipendono da uno stesso somministratore e che operano presso diversi utilizzatori compete uno specifico diritto di riunione secondo la normativa vigente e con le modalità specifiche determinate dalla contrattazione collettiva”. Tali diritti sindacali presso il somministratore non possono essere abrogati in quanto sono previsti dall’articolo 7, comma 1, della direttiva europea 2008/104/CE, che recita: “I lavoratori tramite agenzia interinale sono presi in considerazione, alle condizioni stabilite dagli Stati membri, per il calcolo della soglia sopra la qualesi devono costituire gli organi rappresentativi dei lavoratori previsti dalla normativa comunitaria e nazionale o dai contratti collettivi in un’agenzia interinale”;
lo schema di decreto legislativo conferma che in caso di accertata somministrazione irregolare il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore (ma non se amministrazione pubblica), la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione. Ma l’articolo 37, comma 2, introduce dei limiti al risarcimento spettante al lavoratore, al pari di quanto questo governo ha previsto – ad esempio – in materia di licenziamenti illegittimi. Al giudice viene sottratta la libera valutazione del caso quando accolga la domanda del lavoratore, dovendo limitare la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore ad un’indennità onnicomprensiva nella misura prevista dalla legge;
lo schema di decreto legislativo non ha modificato gli articoli 28 e 29 del decreto legislativo 276 del 2003, che costituiscono il capo II della disciplina del contratto di somministrazione con riferimento alla materia degli appalti e dei distacchi. Si tratta di una scelta non condivisibile dal punto di vista della tecnica legislativa e della relativa semplificazione espressamente richiesta dalla delega legislativa. In questo caso si divide in due testi legislativi ciò che fino ad ora era contenuto in un unico testo di legge.
sul contratto di apprendistato:
la disciplina del contratto di apprendistato letteralmente non trova pace: la disciplina è stata interamente riscritta dal decreto legislativo n. 167 del 2011, ma ha continuato a subire molteplici modifiche negli anni successivi fino ad arrivare allo schema di decreto legislativo in esame che lo modifica nuovamente. Purtroppo è prevedibile che neanche con tali ultime modifiche si riesca a farlo diffondere nel rispetto delle finalità che gli sono proprie e non come contratto attraverso il quale occupare lavoratori a basso costo. La prevedibilità del fallimento deriva, anche, dal mancato investimento di risorse. Ad esempio, nell’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale il testo dello schema è stato modificato tra l’approvazione di palazzo Chigi e l’arrivo in Parlamento, aggiungendo che al piano formativo individuale, per la quota a carico dell’istituzione formativa, si provvede nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. In questo modo si fa carico alle istituzioni scolastiche di provvedere con le risorse che hanno a disposizione che, come è noto, sono inesistenti. Senza investimenti – a prescindere dalla legge buona o cattiva – il successo della disciplina legislativa è minato alla base;
anche in questa tipologia contrattuale vengono cancellate o ridotte le competenze dei contratti collettivi nazionali. Ad esempio nell’apprendistato professionalizzante e in quelli di ricerca è abrogata la previsione che i contratti nazionali di categoria o, in mancanza, le intese specifiche da sottoscrivere a livello nazionale o interconfederale anche in corso della vigenza contrattuale, stabiliscano gli standard professionali di riferimento;
sulla riconduzione al lavoro subordinato:
il meccanismo individuato dal Governo per convincere le aziende a trasformare i rapporti di lavoro in essere – collaborazioni e false partite IVA – in contratti a tempo indeterminato consiste in un “salvacondotto” valido fino al 31 dicembre 2015. Infatti, al datore di lavoro viene garantita “l’estinzione delle violazioni previste dalle disposizioni in materia di obblighi contributivi, assicurativi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, salve le violazioni già accertate prima dell’assunzione”. Tuttavia, i lavoratori interessati alla trasformazione del rapporto di lavoro devono sottoscrivere atti di conciliazione con i quali rinunciano “a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro”;
l’unico impegno che viene fatto assumere al datore di lavoro è di mantenere l’assunzione per almeno dodici mesi, salvo il recesso per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo. Tuttavia, tale disposizione è sfornita di sanzione. In questo modo il datore di lavoro che fosse in mala fede potrebbe usare questa strada per evitare l’avvio di contenziosi e per vedersi condonare gli eventuali obblighi contributivi, assicurativi e fiscali derivanti dall’aver mascherato un rapporto di lavoro subordinato con uno a progetto o con il ricorso alla partita IVA.
inoltre, oltre al danno per le casse dello Stato e degli enti di previdenza, vi sarebbe un danno anche per il lavoratore i cui contributi per il lavoro precedentemente svolto non verranno accreditati o rimarranno accreditati in misura minore rispetto al lavoro svolto. Purtroppo, di fronte alla possibilità di sottoscrivere un contratto subordinato tutti i lavoratori si sentiranno ricattati per accettare lo scambio. Sarebbe necessario, per una operazione di trasparenza e rispetto della dignità dei lavoratori e del loro futuro, che venga previsto un sistema di integrazione quantomeno dei loro contributi per gli anni o i periodi in cui hanno lavorato a progetto o con falsa partita IVA e per i periodi di non lavoro;
pertanto, per impedire i comportamenti fraudolenti da parte dei datori di lavoro si dovrebbe inoltre prevedere:
a) una clausola secondo la quale “non possono accedere ai benefici contributivi e fiscali previsti per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti i datori di lavoro che nel semestre precedente le assunzioni abbiano proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ex articolo 31, legge n. 604 del 1966 e collettivi, ai sensi della legge n. 223 del 1991;
b) in caso di licenziamenti illegittimi dei nuovi assunti il datore di lavoro fosse condannato a restituire gli incentivi contributivi e fiscali ottenuti per la loro assunzione.
l’articolo 47 (co.co.co) prevede l’abolizione dei co.co.pro., e quindi anche della loro normativa, compresi i fondamentali articoli da 61 a 69 del decreto legislativo n. 276 del 2003, i quali avevano l’effetto di proibire i co.co.co., prevedendo, in mancanza di progetti, la conversione automatica in rapporti di lavoro subordinato;
dall’abolizione dei co.co.pro. può derivare un rilancio massiccio e “selvaggio” delle collaborazioni coordinate e continuative nella loro forma più pericolosa, quella “senza progetto” (co.co.co.) che la legge Biagi aveva in qualche modo contenuto e marginalizzato introducendo i co.co.pro, ovvero collaborazioni che dovevano essere finalizzate alla realizzazione di uno specifico progetto;oppure potrebbe derivarne un ricorso abnorme di false partite IVA, con grave danno,oltre che dei lavoratori, degli istituti previdenziali;
la “riconduzione al lavoro subordinato delle collaborazioni coordinate continuative” previste dal presente articolo non impedisce il ricorso ai co.co.co, perché l’articolo contempla solo una modesta parte delle collaborazioni, quelle che già di per sé appaiono essere in realtà lavoro subordinato, ossia quelle, dice il decreto, che “si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”;
l’articolo non specifica che ne sarà di tutte le altre con prestazioni prevalentemente ma non esclusivamente personali o con contenuto non ripetitivo ma di concetto, o in cui sia il prestatore a poter decidere tempi e luogo della prestazione: poiché tali prestazioni non sono più “intercettate” dagli articoli da 61 a 69 del decreto legislativo n. 276del 2003, potrebbero nuovamente moltiplicarsi liberamente, con evasione delle regole del diritto del lavoro e senza il limite di un progetto; oppure, costituire spazio di colonizzazione per le false partite Iva, che significativamente il decreto attuativo ignora: tale articolo andrebbe pertanto modificato, prevedendo una nozione ampia di collaborazione da ricondurre a lavoro subordinato e chiarire che il regime Iva cui venga eccezionalmente sottoposta una prestazione (continuativa) non ne cambia la natura;
inoltre l’articolo 47 prevede fattispecie nelle quali non si applica il divieto di concludere nuovi rapporti di collaborazione, ma non considera i rapporti di lavoro resi nell’ambito di programmi di cooperazione internazionale allo sviluppo, con il rischio di mettere a repentaglio il funzionamento del settore. Tale problema vale anche con riferimento al mancato inserimento di tali rapporti di lavoro tra quelli non rientranti tra i limiti quantitativi per la conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato;
sulla disciplina delle mansioni:
lo schema di decreto legislativo sostituisce l’articolo 2103 del codice civile e, soprattutto, modifica in senso deteriore la disciplina delle mansioni;
tali modifiche prevedono che: a) il lavoratore può essere adibito a mansioni equivalenti, ma ora l’equivalenza non è più data dalla professionalità, ma solo dal livello retributivo; b) il lavoratore può essere demansionato in caso di modifiche organizzative, che però sono decise dal datore, il quale è dunque libero di provvedere a modifiche organizzative per ottenere la facoltà di demansionare, con ciò riconoscendo al datore di lavoro un potere estremamente ampio per spostare il lavoratore a mansioni inferiori; c) basta il consenso di una qualunque organizzazione sindacale rappresentativa per introdurre il demansionamento anche senza modifiche organizzative; d) la definitività dell’assegnazione a mansioni superiori viene condizionata alla volontà del lavoratore; e) la definitività dell’assegnazione a mansioni superiori non avviene più dopo tre mesi o il periodo più breve stabilito dai contratti collettivi, ma dopo il periodo stabilito dai contratti collettivi anche aziendali stipulati da una qualunque organizzazione rappresentativa, quindi anche dopo parecchi anni. In mancanza di contratti collettivi, avviene comunque dopo sei mesi, quindi con un raddoppio rispetto alla situazione attuale;
davanti al giudice, in conciliazione alla Direzione Provinciale del Lavoro o in sede sindacale o di Commissione di certificazione, sarà possibile stipulare accordi individuali di demansionamento senza conservazione dell’inquadramento e della retribuzione precedenti, “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità, o al miglioramento delle condizioni di vita”: nel primo caso si tratta di un evidente ricatto occupazionale; nel secondo è paradossale, perché il lavoratore acquisirebbe una professionalità nuova ma inferiore, onde proprio non può avervi interesse; nel terzo caso il lavoratore acconsente – anche qui, è facile immaginare quanto liberamente – a un demansionamento con peggioramento di inquadramento e retribuzione per migliorare “le condizioni di vita”;
inoltre lo stesso articolo 55 prevede che la “dequalificazione unilaterale” è possibile a fronte di “modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore” ma, dato cheogni attribuzione di nuove mansioni è di per sé una “modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore” questo vuol dire che è la stessa scelta datoriale di demansionare un determinato lavoratore che la legittima; dunque manca qualsiasi “parametro oggettivo”, a cui si aggiunge l’assenza di qualsivoglia “contemperamento dell’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela della professionalità e delle condizioni di vita”, nuovamente in aperta violazione della delega;
il Jobs Act ha quindi eliminato il divieto di demansionamento, che non viene salvaguardato dall’aver previsto che ci siano limiti alla modifica dell’inquadramento. Con il Jobs Act si estende al settore privato quanto già previsto per il settore pubblico con il decreto legge n. 90 del 2014;
considerato che:
lo schema di decreto non comprende tutte le deleghe previste dalla legge delega, a partire dalle disposizioni contenute nell’alinea e nella lettera a) dell’articolo 1, comma 7, in particolare la disposizione relativa al superamento delle forme contrattuali esistenti;
oltre a prevedere che il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisca effettivamente la forma comune del rapporto di lavoro, lo schema di decreto dovrebbe ridurre a 5 le attuali tipologie contrattuali alle seguenti:
a) lavoro subordinato a tempo indeterminato; b) contratto a termine, solo a fronte di ragioni oggettive e temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro; c) contratto part-time; d78; 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. ) apprendistato, prevedendo l’abrogazione dell’articolo 2 del decreto-legge 20 marzo 2014, n. e) contratto di lavoro del socio-lavoratore;
lo schema di decreto legislativo è strettamente connesso alla legge di stabilità 2015, laddove essa introduce forti riduzioni della contribuzione previdenziale a carico delle aziende che assumano o (per lo più) riassumano lavoratori con contratto a tempo indeterminato cd “a tutele crescenti”; tale testo è stato inoltrato alle Camere solo il 9 aprile, essendo stato lo stesso oggetto di attento vaglio da parte della Ragioneria dello Stato che ha verificato proprio la sussistenza di maggiori oneri da esso derivante e dell’inadeguatezza dei corrispondenti mezzi di copertura; per questa ragione all’articolo 56 è stata inserita una “clausola di salvaguardia” a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi ma, a seguito delle immediate reazioni dei soggetti interessati alla clausola di salvaguardia, il Ministro del Lavoro ha dichiarato che “la clausola di salvaguardia inserita nel decreto di riordino delle tipologie contrattuali verrà superata prima della definitiva approvazione del provvedimento”: ciò fa sì che il Parlamento sia chiamato a deliberare su un testo che è già ufficialmente “superato” senza avere indicazioni certe su come saranno reperite le risorse per coprire i provvedimenti in oggetto;
la tesi secondo cui solo abbattendo i diritti del lavoro e riducendo il potere di acquisto delle retribuzioni si ottiene sviluppo economico, benessere diffuso e aumento dell’occupazione è smentita, non solo dalla realtà delle cose, ma anche da tutti gli economisti che hanno dimostrato che questa non è la soluzione alla crisi economica bensì, al contrario, la sua causa principale, perché ha originato il crollo della domanda e la conseguente recessione che dura da molti anni: l’austerità, al pari della precarietà del lavoro, non è espansiva, bensì recessiva;
i grandi periodi di benessere di sviluppo economico sono stati, al contrario, quelli in cui il lavoro era tutelato e ben retribuito e non già quello che costringe alla precarietà e alla disoccupazione;
tutta la normativa denominata Jobs Act rappresenta pertanto l’accelerazione verso il fallimento economico e sociale, il traguardo finale di quel lungo percorso che ha realizzato il passaggio dal “diritto del lavoro al lavoro senza diritti”:
esprime parere contrario.
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DAI SENATORI CATALFO, PUGLIA E PAGLINI SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 158
L’11a Commissione del Senato, in sede d’esame dello Schema di decreto legislativo recante testo organico delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni (AG n. 158)
premesso che:
le disposizioni di delega di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 hanno stabilito, tra l’altro, l’emanazione di un decreto legislativo “recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro” che avrebbe dovuto essere basato sul principio della individuazione ed analisi di “tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali” nonché sulla “abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative”;
lo schema di decreto reca di fatto una mera sintesi, per giunta tutt’altro che sistematica, del quadro regolatorio già vigente;
si evince infatti come la semplificazione e l’organicità si siano estrinsecate, quanto alla prima, in una mera reductio ad unum di una pluralità di testi normativi, quanto alla seconda, in un mero recupero e riordino della normativa vigente in materia di contratti individuali di lavoro, con poche novità, parziali abrogazioni, alcune peraltro foriere di problemi, senza riscrivere integralmente il quadro regolatorio dei rapporti di lavoro:
manca una norma definitoria unica, valida per l’intero “testo organico”, mentre ce n’è una ampia, l’articolo 2, comma 1, per il lavoro a tempo parziale;
il testo prende in considerazione la disciplina delle forme di lavoro subordinato regolamentate nel nostro ordinamento, ma non di tutte le forme di lavoro autonomo o comunque non subordinato (in tal senso non si può neppure considerarla una sintesi realmente “organica”);
le abrogazioni espresse sono limitate a tre tipologie contrattuali (lavoro ripartito, lavoro a progetto in monocommitenza e associazione in partecipazione con apporto di lavoro), due delle quali, peraltro, già attualmente marginali;
considerato che:
in riferimento al contratto di lavoro a tempo parziale:
a. il combinato disposto dell’articolo 3 e dell’articolo 46 dello schema di decreto in esame abroga la norma di cui all’articolo 2, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo n. 61 del 2000 in base alla quale il datore di lavoro (fatte salve eventuali più favorevoli previsioni dei contratti collettivi) è tenuto ad informare le rappresentanze sindacali aziendali, ove esistenti, con cadenza annuale, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, sulla relativa tipologia e sul ricorso al lavoro supplementare. Come rilevato nel corso del dibattito sullo schema di decreto in esame presso la 14a Commissione, tale abrogazione appare compromettere il recepimento della norma europea di cui alla clausola 5 dell’allegato della direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, secondo la quale i datori di lavoro, “per quanto possibile […] dovrebbero prendere in considerazione […] la diffusione, agli organismi esistenti rappresentanti i lavoratori, di informazioni adeguate sul lavoro a tempo parziale nell’impresa”;
b. il comma 5 dell’articolo 4 prevede, rispetto a quanto previsto dalla vigente normativa, una maggiore possibilità di utilizzo del lavoro supplementare e, sebbene vengano disciplinate maggiorazioni legali per retribuzione del lavoro supplementare, scompare la disposizione, prevista invece al comma 3 dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 61 del 2000, che sancisce esplicitamente che il rifiuto da parte del lavoratore di effettuare prestazioni di lavoro supplementare “non può integrare in nessun caso gli estremi del giustificato motivo di licenziamento”;
c. il comma 9 dell’articolo 4 estende, rispetto a quanto previsto dalla vigente normativa, la possibilità, nel caso in cui il contratto collettivo applicato non contenga una specifica disciplina in materia, di utilizzare clausole elastiche e flessibili. Tuttavia a fronte di una possibilità di un aumento della durata della prestazione “che non può eccedere il limite del 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale”, il diritto ad una maggiorazione della retribuzione oraria riconosciuto al lavoratore è “pari al 15 per cento”. Inoltre sebbene il successivo comma 10 stabilisca “la facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola flessibile o elastica”, non viene prevista alcuna disposizione che sancisca esplicitamente che il rifiuto da parte del lavoratore di accettare clausole flessibili o elastiche non può integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento;
d. viene eliminata la possibilità, prevista attualmente al comma 2 dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 61 del 2000, che il contratto individuale preveda, “in caso di assunzione di personale a tempo pieno, un diritto di precedenza in favore dei lavoratori assunti a tempo parziale in attività presso unità produttive site nello stesso ambito comunale, adibiti alle stesse mansioni od a mansioni equivalenti rispetto a quelle con riguardo alle quali è prevista l’assunzione”;
e. non viene peraltro prevista come già richiesto in occasione del dibattito parlamentare sulla legge delega con l’ordine del giorno G4.209, l’inserimento di una apposita disposizione volta a garantire il diritto di accesso alla indennità di disoccupazione per i periodi di sospensione del contratto di lavoro per i lavoratori a part-time verticale ciclico annuale;
in riferimento al contratto di lavoro intermittente gli articoli 11-16 dello schema di decreto in esame confermano sostanzialmente l’istituto come oggi disciplinato dal decreto legislativo n. 276 del 2003. Come segnalato nel corso delle audizioni da alcune organizzazioni sindacali, sarebbe invece altamente raccomandabile l’eliminazione di tale forma contrattuale, particolarmente destrutturata e peraltro fungibile da altre tipologie contrattuali anch’esse confermate dalla nuova normativa;
in riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato:
a. il comma 1 dell’articolo 21 dello schema di decreto in esame conferma il divieto per il datore di lavoro di assumere un numero di lavoratori con contratto a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato, ma riguardo alla sanzione, pur confermando quella amministrativa nel doppio importo in base al numero di lavoratori soprannumerari, il successivo comma 4 esclude espressamente la trasformazione dei contratti a termine in sovrannumero in contratti a tempo indeterminato di quelli stipulati oltre il limite;
b. il combinato disposto dell’articolo 21 e dell’articolo 46 dello schema di decreto in esame comporta l’abrogazione della norma di cui all’articolo 9, comma 1, del decreto legislativo n. 368 del 2001, secondo la quale i contratti collettivi nazionali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative, definiscono le modalità per le informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato, relativamente ai “posti vacanti che si rendessero disponibili nell’impresa, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori”. Come rilevato nel corso del dibattito sullo schema di decreto in esame presso la 14a Commissione, tale abrogazione appare compromettere il recepimento della norma europea di cui alla clausola 6 dell’allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, secondo la quale i “datori di lavoro informano i lavoratori a tempo determinato dei posti vacanti che si rendano disponibili nell’impresa o stabilimento, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori”;
c. in generale, viene confermata la disciplina già vigente come modificata dal decreto-legge n. 34 del 2014, convertito con modificazioni, dalla legge n. 78 del 2014. A tal proposito, come già evidenziato in occasione del dibattito parlamentare sulla legge delega, la giurisprudenza costituzionale (si veda tra tutte la sentenza n. 41 del 2000) nonché quella della Corte di giustizia dell’UE (rilevante è a tal fine la sentenza del 23 aprile 2009) prefigurano la incompatibilità con lo scopo e l’effettività del corpus normativo comunitario della parte della normativa già vigente (ed ora sostanzialmente confermata dallo schema di decreto in esame) in cui si priva il contratto a tempo determinato della cosiddetta clausola di causalità. La cancellazione di ogni riferimento a “ragioni oggettive” per l’assunzione a tempo determinato risulta in diretto contrasto con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio dell’Unione europea del 28 giugno 1999, la quale è stata adottata con il preciso scopo di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. La Corte Costituzionale, chiamata a verificare la compatibilità di un quesito referendario con la direttiva 1999/70/CE, ha ricordato come essa sia rivolta specificamente a disciplinare il rapporto di lavoro a tempo determinato recependo l’accordo-quadro stipulato al riguardo dalle parti sociali a livello europeo. Tale accordo richiede che il termine apposto al contratto di lavoro sia determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. E nel contempo dispone che gli Stati membri, ove nella loro legislazione non abbiano già una normativa equivalente, debbano, non oltre il 10 luglio 2001, dettarne una diretta ad evitare l’abuso del contratto di lavoro a termine, mediante l’adozione di misure idonee ad individuare le ragioni obbiettive che giustifichino la sua rinnovazione, la durata massima dei contratti successivi ed il numero di rinnovi possibili. L’Accordo Quadro CES-UNICE-CEEP del 18 marzo 1999 impone, tra le misure di prevenzione degli abusi, di adottare una o più misure relative a ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. Ciò al fine precipuo di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. L’accordo riconosce infatti che l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive costituisce un modo di prevenire gli abusi. La confusione che viene ad ingenerarsi in virtù del testo in esame tra il primo contratto a termine stipulato tra le parti e i contratti successivi, del tutto sganciati da qualunque causale obiettiva, oltre a determinare una grave illogicità per il venir meno di un parametro di valutazione dell’esigenza temporanea posta a fondamento del contratto stesso, contribuisce a porre il lavoratore alla mercé delle proroghe o dei rinnovi rappresentando in tal modo un regresso rispetto alla previgente normativa di cui decreto legislativo n. 368 del 2001;
in riferimento alla disciplina della somministrazione di lavoro:
a) tale forma contrattuale, che si è rivelata uno dei maggiori veicoli di diffusione del precariato, viene rafforzata dagli articoli 28-38 dello schema di decreto in esame: oltre infatti alla conferma della somministrazione a tempo determinato acausale (con limite di contingentamento soltanto nella misura prevista dai CCNL), viene di fatto liberalizzata la somministrazione a tempo indeterminato eliminando le causali specifiche attualmente previste dal comma 3 dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 276 del 2003;
b) il combinato disposto dell’articolo 21 e dell’articolo 46 dello schema di decreto in esame comporta l’abrogazione della norma di cui all’articolo 23, comma 7-bis, del decreto legislativo n. 276 del 2003, in base alla quale i “lavoratori dipendenti dal somministratore sono informati dall’utilizzatore dei posti vacanti presso quest’ultimo, affinché possano aspirare, al pari dei dipendenti del medesimo utilizzatore, a ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato” (tali informazioni, sempre secondo la norma citata, “possono essere fornite mediante un avviso generale opportunamente affisso all’interno dei locali dell’utilizzatore presso il quale e sotto il cui controllo detti lavoratori prestano la loro opera”). Come rilevato nel corso del dibattito sullo schema di decreto in esame presso la 14a Commissione, tali modifiche appaiano fortemente opinabili quanto ai profili di compatibilità con l’ordinamento europeo, tenuto conto che la citata norma di cui all’articolo 23, comma 7-bis, del decreto legislativo n. 276 del 2003 corrisponde, in termini sostanzialmente identici, alla norma europea di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2008/104/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008;
in riferimento alla disciplina delle prestazioni di lavoro accessorio, come già evidenziato in occasione del dibattito parlamentare sulla legge delega, il mantenimento di un istituto normativo ma non contrattuale che di fatto legalizza la possibilità di lavorare, in tutti i settori, senza un contratto ed una contrattazione collettiva che garantisca ai lavoratori le necessarie tutele e diritti e addirittura il suo ampliamento, attraverso l’innalzamento a 7000 euro netti annui della somma dei compensi, risulta in palese contraddizione con la pretesa finalità della legge delega, in particolare, e delle recenti riforme del lavoro, in generale, di incentivare il lavoro stabile. Peraltro, tale istituto si configura come controproducente non solo per il lavoratore, in quanto esso risulta privo di diritti e tutele sia nel breve termine (al momento della prestazione) sia nel lungo periodo (ai fini pensionistici), ma per l’intero sistema-Paese a causa di un mancato gettito fiscale;
in riferimento alla disciplina delle mansioni (o della prestazione del lavoratore) di cui all’articolo 2103 del codice civile:
a) il nuovo comma secondo dell’articolo in oggetto prevede la possibilità di assegnare il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore”, formulazione quantomai vaga e generica e dunque suscettibile di lasciare la più ampia discrezionalità nell’interpretazione;
b) il nuovo comma terzo dell’articolo in oggetto prevede che il mutamento di mansioni sia accompagnato “ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo”, il cui mancato adempimento tuttavia “non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”;
c) infine, la pretesa portata di garanzia della disposizione di cui al nuovo comma quinto dell’articolo in oggetto in base alla quale, in caso di demansionamento, “il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento” è di fatto depotenziata dalla disposizione di cui al successivo comma sesto che prevede la possibilità di stipulare accordi individuali non solo della modifica delle mansioni ma anche “del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. Anche in questo caso si è in presenza di una formulazione talmente vaga e generica della casistica in cui si potranno stipulare i citati accordi che di fatto il demansionamento con taglio della retribuzione sarà di fatto sempre possibile ponendo al lavoratore l’alternativa tra questo o la perdita del posto di lavoro;
considerato inoltre che:
l’articolo 47, comma 1, dello schema di decreto in esame stabilisce che dal 1° gennaio 2016 si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato “ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” mentre il successivo articolo 49 stabilisce l’abrogazione (salvo, fino a loro scadenza, per i contratti già in essere) delle vigenti disposizioni in merito alle collaborazioni a progetto di cui al decreto legislativo n. 276 del 2003;
alla luce del combinato disposto degli articoli citati, sembra dunque potersi affermare che possa continuare a considerarsi legittima l’instaurazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche con un progetto o con titolare di partita IVA, se le prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative non sono “di contenuto ripetitivo” e le modalità di esecuzione non sono eterodirette dal committente;
a parte evidenti incertezze nelle definizioni che potrebbero portare ad un ulteriore aumento del contenzioso relativamente alla corretta configurazione del rapporto di lavoro, sembra dunque conseguirne un duplice paradosso: da un lato pur operando una formale abrogazione, di fatto si aggira la già citata disposizione di cui all’articolo 1, comma 7, lettera i) della legge n. 183 del 2014, dall’altro il nuovo regime giuridico del lavoro a progetto si configura come un ritorno al passato, al regime delle collaborazioni coordinate e continuative senza alcuna tutela degli interessi e dei diritti dei lavoratori, una situazione ancora peggiore rispetto a quanto previsto dal decreto legislativo n. 276 del 2003;
considerato infine che:
come già rilevato nel corso del dibattito parlamentare circa il Documento di economia e finanza 2015, l’articolo 52, comma 2, dello schema di decreto in esame reca una clausola di salvaguardia nell’ipotesi in cui il fabbisogno di risorse per la decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015 eccedesse la somma di 1,886 miliardi già appostati dal Governo;
tale ipotesi che si potrebbe verificare, ad esempio, nel caso vi fossero trasformazioni di massa da contratti di collaborazione, i quali pagano contributi anche nell’intorno del 30 per cento, rispetto alle stime dal Governo (37.000 trasformazioni originarie più altre 20.000 aggiuntive, con retribuzione media stimata di 15.000 euro);
in tal caso, il ministero dell’Economia provvederebbe “all’introduzione di un contributo aggiuntivo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali a carico dei datori di lavoro del settore privato e dei lavoratori autonomi”:ciò significa che si arriverà al paradosso di pagare contributi (pur se nominalmente “di solidarietà”) per avere un taglio di contributi;
i collaboratori a progetto in monocommittenza (quelli che hanno caratteristiche di operatività non distanti dalla subordinazione) in Italia sarebbero circa 370.000: si coglie dunque il potenziale rischio per i conti pubblici;
più in generale, è l’intero riordino degli incentivi fiscali per l’occupazione a sollevare forti perplessità, in primis, l’abrogazione con la legge di Stabilità per il 2015 delle agevolazioni strutturali per l’assunzione dei disoccupati di lunga durata, che erano previste dalla legge n. 407 del 1990. Nel regime che si è inteso superare, infatti, erano previsti sgravi contributivi previdenziali e assistenziali, che consentivano a chi assumesse disoccupati, in possesso dei requisiti indicati nella norma, con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, di risparmiare il 50 per cento dei contributi INPS e INAIL per trentasei mesi. Il risparmio si elevava al 100 per cento se l’impresa che assumeva era collocata nel Mezzogiorno o se era un’impresa artigiana. Il pregio di questa disciplina era quello di essere oramai una voce consolidata nel bilancio dello Stato e di non aver bisogno di un rifinanziamento annuale. Nel nuovo regime, invece, le imprese del Mezzogiorno e quelle artigiane dell’intero territorio italiano perderanno il 100 per cento degli sgravi INAIL. Le restanti imprese, invece, elevano al 100 per cento il risparmio INPS, ma non avranno più alcuno sgravio sui contributi INAIL: alcuni settori sono fortemente penalizzati da questa scelta. Se, infatti, prima facie il taglio alla contribuzione INAIL sembrerebbe bilanciato dall’aumento dello sgravio INPS, per le imprese edili e per gli autotrasportatori questa modifica comporta notevoli aggravi sui bilanci, poiché per essi l’aliquota del premio INAIL è particolarmente elevata. Conseguentemente si deve rilevare che questo aggravio è due volte più pesante per le imprese di autotrasporto e del settore edilizio del Mezzogiorno, che verranno praticamente messe in ginocchio dalla nuova disciplina, col paradosso che finirà per aumentare la disoccupazione proprio nei territori che registrano i dati più drammatici in tal senso e che più avrebbero bisogno di sostegno. A tutto ciò va aggiunto che il nuovo intervento dovrà essere rifinanziato di anno in anno, perciò nulla esclude che, mancando ancora una volta le adeguate coperture, le imprese restino senza agevolazioni. E’ evidente che, dinanzi a simili incertezze, quello che vorrebbe essere un intervento che promuove il contrasto alla disoccupazione rischia di diventare, nel lungo periodo, un disincentivo alle assunzioni di disoccupati di lunga durata, come peraltro rilevato dalla Commissione europea nel suo recente rapporto sugli investimenti sociali in Italia;
esprime parere contrario.
SCHEMA DI PARERE PROPOSTO DALLA SENATRICE MUNERATO SULL’ATTO DEL GOVERNO N. 158
La Commissione 11a, in sede di esame dello schema di decretolegislativo recante “testo unico delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni”, in attuazione dell’articolo 1, commi 7 e 11, della legge n.183 del 2014;
considerato nello specifico la norma volta all’abrogazione dei contratti a progetto;
ricordato che i medesimi co.co.pro. erano stati introdotti nel nostro ordinamento per arginare l’uso distorto delle collaborazioni coordinate e continuative in forma elusiva degli obblighi contributivi e di tutela lavorativa derivanti dalla legislazione vigente in materia di rapporti di lavoro a tempo indeterminato;
ritenuta, pertanto, l’abrogazione dei co.co.pro., senza un contestuale intervento sulle forme di collaborazione autonoma, un passo indietro nel contrasto alle tipologie di precariato;
ribadite, altresì, le proprie perplessità e criticità sull’abrogazione dei co.co.pro a favore del contratto a tutele crescenti, ritenendo lo stesso una forma di contratto a tempo “finanziato” e, dunque, non produttivo di un reale e concreto intervento per incentivare un’occupazione stabile e di qualità;
evidenziato, infine, che nessuna preoccupazione è rivolta alla posizione previdenziale dei lavoratori il cui rapporto si trasforma –non per loro volontà ma per modifiche imposte dal legislatore- da co.co.pro. a tutele crescenti, non tenendo conto che l’attuale vigente normativa non consente la totalizzazione tra le due gestioni Inps;
esprime parere contrario.
Riunione n. 46
MERCOLEDÌ 13 MAGGIO 2015
Presidenza della Vice Presidente
SPILABOTTE
Orario: dalle ore 8,35 alle ore 9,30
AUDIZIONE INFORMALE SUI DISEGNI DI LEGGE NN. 1148, 1670 E 1697 (REDDITO DI CITTADINANZA E SALARIO MINIMO ORARIO)