Bisogna risalire al 2003 per tornare alla legge che il Belgio approvò per impedire la costruzione di nuovi reattori e stabilire un abbandono progressivo delle centrali nucleari già in funzione.
Ben prima, nel 1987, con tre quesiti referendari proposti dal Partito Radicale subito dopo il disastro di Černobyl’, in Italia si sceglieva di non proseguire l’esperienza dell’atomo, producendo così quello che Mario Pirani, negli anni Novanta, definì uno dei tre appuntamenti mancati dell’industria italiana (gli altri due erano l’Eni di Enrico Mattei e la grande sfida tecnologica avviata da Adriano e Roberto Olivetti). La scelta italiana fu poi confermata nuovamente nel 2011, con un altro referendum indetto dopo l’incidente di Fukushima Dai-ichi in Giappone. Per gli stessi motivi, la Germania di Angela Merkel decise di fermare l’attività di sette centrali su diciassette, con l’obiettivo di arrivare, anche in questo caso, alla rinuncia progressiva dell’approvvigionamento nucleare entro il 2022. Tre su sei dei fondatori dell’Euratom – di cui uno era il Lussemburgo che in realtà non aveva mai iniziato – sceglievano quindi di abbandonare l’energia nucleare, lasciando il podio alla Francia, che disponeva di oltre cinquanta centrali attive dislocate sul territorio, e al Regno Unito, che di lì a poco avrebbe tuttavia abbandonato l’intero progetto europeo.
Ma torniamo a oggi. Giovedì 15 maggio il Parlamento belga ha votato – con 102 voti a favore, 8 contrari e 31 astenuti – per l’abrogazione della legge del 2003, come ultimo passo di un percorso che in verità era iniziato circa tre anni prima e che si è concretizzato solo a seguito della luce verde da parte della Commissione UE – per un tema di fondi agli aiuti di Stato – circa la possibilità di estendere la durata di vita dei due reattori in esercizio in Belgio. Pochi mesi prima, il Consiglio dei ministri italiano ha approvato un DDL per il rilancio del nucleare anche in Italia, attualmente in discussione. Ma ciò che ha catalizzato maggiormente l’attenzione è sicuramente quello che sembra essere il nuovo idillio tra il neo Cancelliere tedesco Merz e il presidente francese Macron. È di questa settimana, infatti, l’annuncio da parte della Germania dell’intenzione di abbandonare la sua marcata opposizione al nucleare e ai numerosi sforzi francesi di inserirlo a pieno titolo tra le fonti rinnovabili nella legislazione europea, con la prospettiva di avviare una nuova collaborazione in tal senso.
L’Europa del futuro sarà dunque nucleare? Quella del passato ci ha provato e con risultati piuttosto scarsi. Ma il dibattito sul nucleare – che ciclicamente riaffiora con estrema puntualità da sostanzialmente ottant’anni – era tornato in auge già prima, come conseguenza del fatto che la comunità scientifica, incluso l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’ha ormai inserita a tutti gli effetti tra i possibili strumenti per fronteggiare la crisi climatica. Il pregio della produzione di energia nucleare, si sostiene, è quello di generare emissioni quasi pari a zero e quindi di essere in grado di limitare l’aumento della temperatura media globale rispetto ad altre fonti energetiche. Questa caratteristica ha effettivamente permesso all’energia nucleare civile di ottenere, nel 2019, persino l’endorsement dell’attivista Greta Thunberg, e di spingere la Commissione di Ursula Von der Leyen, nello scorso mandato, ad approfondirne l’impatto ambientale nell’ambito del Green New Deal – che ha l’obiettivo di rendere l’UE “climate-neutral” entro il 2050 – valutando concretamente l’ipotesi di includerla come fonte energetica nella tassonomia europea.
Ad accelerare parte di questa nuova corsa al nucleare ha contribuito anche l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, evidenziando, ancora una volta, la forte dipendenza energetica dell’UE da fonti di approvvigionamento esterne, ma in realtà riproponendo una dinamica molto simile a quanto già accaduto in passato: nel 1956, infatti, la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser e la conseguente incertezza dell’approvvigionamento petrolifero che ne derivò nel continente, diedero uno slancio sostanziale al progetto di cooperazione nucleare civile che sfociò nella nascita dell’Euratom l’anno successivo. In quel caso però, anche grazie alla riduzione delle tensioni politiche e alla leggera recessione economica, poco dopo ci si era paradossalmente ritrovati di fronte a un’abbondanza di fonti energetiche tradizionali, e l’Euratom finì per diventare uno dei tanti progetti silenziosamente annegati nel calderone dei tentativi falliti di integrazione europea.
Non si può quindi non ripensare, oggi, alla visione di Jean Monnet, uno dei padri dell’Europa, che nel 1954, dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa, aveva individuato una nuova strategia per un rilancio europeo. Per arrivare a una forza sovranazionale che andasse davvero oltre gli egoismi nazionali, come nelle intenzioni di Monnet, c’erano però due aspetti da risolvere. Uno era quello di realizzare una qualche forma di condivisione di tutte le risorse energetiche tra i sei paesifondatori, e Monnet scelse, forse con ingenuità, l’atomo, in quanto settore inesplorato e quindi privo di interessi precostituiti; l’altro era proprio quello del costante antagonismo tra Francia e Germania, da superare con un accordo fra i due paesi che sancisse la loro definitiva riconciliazione. Sta di fatto che, settant’anni dopo, difesa e nucleare sono tornati a essere esattamente i due temi principali al centro del dibattito; un dibattito peraltro portato avanti proprio da Francia e Germania, con l’aggiunta dell’altalenante Regno Unito, con cui sembrano aver finalmente trovato una rinnovata visione comune.
Difficile prevedere con certezza se ci troviamo di fronte alle basi di un nuovo e concreto rilancio europeo, o se ancora una volta l’integrazione rappresenterà la facciata di un prevaricarsi di quegli egoismi nazionali tanto temuti da Jean Monnet. Quel che invece sicuramente non è cambiato è che, da quando nell’agosto del 1945 l’atomo si è presentato al mondo con il biglietto da visita delle atrocità di Hiroshima e Nagasaki, due temi delicati come nucleare e difesa vengono trattati come intrinsecamente connessi tra loro, degenerando anche in un utilizzo politico del nucleare come manifestazione di forza. Persino la scelta di Vladimir Putin, sempre in questa stessa settimana, di recarsi nel Kursk per la prima volta dopo l’espulsione delle truppe ucraine per visitare la nuova centrale nucleare attualmente in costruzione, sembra ricordarci che quel sottile filo rosso che da sempre lega ciò che è civile col militare, nell’atomo ha la sua massima manifestazione, rendendolo per una volta inscindibile.
Marianna Clelia Fazzolari