“Il Comitato Direttivo decide l’avvio alla raccolta delle firme per la presentazione della Proposta di legge e dei tre quesiti referendari”. In ultima analisi, è questa la frase chiave del documento conclusivo che è stato approvato dal Direttivo della Cgil pochi minuti dopo la mezzanotte di ieri, lunedì 21 marzo. La conclusione della riunione, tenutasi a Roma presso la sede nazionale Cgil di Corso d’Italia, era sostanzialmente scontata, ma è arrivata così tardi, in termini di orario, perché la relazione introduttiva di Susanna Camusso, terminata verso le 17,30, è stata seguita da un dibattito vero, durato circa sei ore. Un dibattito la cui ampiezza è stata determinata dal fatto che lo stesso Direttivo era chiamato ad assumere formalmente delle decisioni, a dir poco, impegnative.
Cosa ha deciso dunque la Cgil? Da un punto di vista strettamente operativo, a partire da sabato 9 aprile la confederazione avvierà in parallelo due raccolte di firme. La prima, che si concluderà dopo sei mesi, e cioè sabato 8 ottobre, in calce a un’ambiziosa proposta di legge di iniziativa popolare volta a disegnare un nuovo diritto del lavoro per il nostro paese.
L’idea forza di questa proposta – come la segretaria generale Cgil ha sottolineato nella conferenza stampa tenuta in mattinata, e cioè prima del Direttivo – è che i diritti dei lavoratori saranno in capo al singolo lavoratore o alla singola lavoratrice indipendentemente dalla loro collocazione nel mondo del lavoro e quindi, anche, indipendentemente dal fatto che l’attività da loro svolta possa essere definita come lavoro dipendente o autonomo, o professionale.
Con il concorso di qualificati giuristi, la Cgil ha infatti prodotto, nel corso del 2015, un corposo documento intitolato Carta dei diritti universali del lavoro. Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori. Documento che contiene i 97 articoli di una proposta di legge. A partire da gennaio 2016, la Carta è stata presentata dalla Cgil in più di 40mila assemblee (per la precisione, 41.705), ottenendo l’approvazione del 98,49% del milione e mezzo di lavoratori che su di essa si sono espressi (anche qui, per la precisione, si è trattato di 1.466.697 votanti).
Dopo quest’ampia consultazione, il Direttivo Cgil ha deciso quindi di passare ai fatti, ovvero alla raccolta delle firme che potranno trasformeranno la Carta in una proposta di legge di iniziativa popolare da presentare in Parlamento.
Perché una proposta di legge? Perché, come Susanna Camusso ha specificato anche nel gennaio scorso, quando l’iniziativa delle assemblee è stata avviata, dal punto di vista della Cgil i problemi patiti oggi dal diritto del lavoro nel nostro paese non sono risolvibile abolendo questo o quel comma di questo o quell’articolo di un paio dei decreti correlati al Jobs Act. E ciò perché il diritto del lavoro è stato disarticolato in un arco temporale ormai piuttosto lungo. Non basta, dunque, cancellare. Bisogna riscrivere. E perché una proposta di iniziativa popolare? Per due motivi. Primo, e questa è una convinzione diffusa nel gruppo dirigente della Cgil, perché oggi non c’è più un partito che, in quanto tale, si proponga di rappresentare politicamente il Lavoro. Secondo perché, in ogni caso, la Cgil tiene da sempre alla propria autonomia politica e desidera quindi rapportarsi in prima persona alle Camere.
Si potrà convenire o dissentire rispetto a questa impostazione, ma non credo si possa negare che sia, quanto meno, lineare.
A questo punto della nostra ricostruzione, però, le cose si complicano. Infatti, nelle citate assemblee, ai lavoratori partecipanti sono stati sottoposti non uno, ma due quesiti. Col primo, si chiedeva appunto “l’approvazione della Carta di diritti”. Col secondo, si dava mandato al Direttivo Cgil di “definire quesiti referendari utili a sostenere il percorso per la trasformazione della Carta in legge”. E qui va detto che i consensi a questo secondo tipo di iniziativa sono stati sempre altissimi, ma comunque meno alti che rispetto alla proposta d legge. Il sì a eventuali referendum di “sostegno” all’iniziativa legislativa è venuto, infatti, “solo” dal 93,59% dei votanti.
A consultazione ultimata, il Direttivo della Cgil ha deciso dunque di avviare, in parallelo alla prima, anche una seconda raccolta di firme in calce a tre quesiti referendari. Anche questa seconda raccolta partirà sabato 9 marzo ma, in base alle leggi vigenti, dovrà obbligatoriamente concludersi prima, e cioè a non oltre tre mesi dalla partenza. In altri termini, entro venerdì 8 luglio.
I testi esatti dei tre quesiti referendari, ovviamente di tipo abrogativo, dovranno essere depositati in Cassazione e non sono stati ancora resi noti. Ciò che si sa è però ciò che il Direttivo Cgil ha deliberato la notte scorsa, e cioè i temi dei tre quesiti.
Il primo sarà volto alla cancellazione del cosiddetto lavoro accessorio, ovvero di quella forma di pagamento tramite voucher di prestazioni lavorative particolari che fu introdotto nel nostro ordinamento con la legge 276 del 2003. Una forma di pagamento che la Cgil non considera negativa in sé, rispetto alle intenzioni originarie del legislatore, ma che, dopo il Jobs Act, è esplosa in termini giudicati ormai come negativi, se non addirittura pericolosi.
Il secondo quesito sarà invece volto alla “reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti. In pratica, la Cgil vuole reintrodurre l’obbligo per il primo soggetto, che dà in appalto a un secondo una data operazione, di essere responsabile del modo in cui l’impresa appaltatrice organizza il lavoro e tratta i lavoratori.
Infine, il terzo quesito è volto ad assicurare ai lavoratori una “nuova tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo”. E ciò “per tutte le aziende al di sopra dei cinque dipendenti”. In pratica, la Cgil pensa che non basti indennizzare in denaro il lavoratore licenziato in modo illecito, e che vada invece ripristinata l’idea della sua reintegrazione nel posto di lavoro da cui sia stato allontanato, così come prevedeva il famoso art.18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n.300/1970).
A differenza di ciò che è accaduto nel 2014, in occasione del più recente Congresso della Cgil, quando si registrò sia nel voto che nel dibattito una polarizzazione tra la maggioranza guidata da Susanna Camusso e le posizioni più radicali sostenute dal leader della Fiom, Maurizio Landini, la Cgil si è ritrovata adesso unita attorno all’idea della proposta di legge di iniziativa popolare sui diritti dei lavoratori. E ciò sia per i contenuti della proposta, sia per lo strumento scelto per affermare quei contenuti. Ma diverse sensibilità sono emerse, a quel che pare, rispetto all’iniziativa referendaria.
Nel corso del dibattito al Direttivo, si sono confrontati, da una parte, quelli che, come lo stesso Landini, hanno sottolineato la necessità della scelta dello strumento referendario per cambiare un assetto legislativo che pone il mondo del lavoro in una posizione di svantaggio rispetto alle imprese, e, dall’altra, quelli che hanno avanzato invece il timore che l’iniziativa referendaria ponga in ombra la proposta di legge e che quindi, più che sui contenuti di quest’ultima, l’attenzione dell’opinione pubblica venga richiamata sulla contrapposizione al Governo Renzi. E che, insomma, il merito sindacale sia oscurato da questioni di schieramento che sono quasi sempre privilegiate sia dal dibattito politico che dalle sensibilità mediatiche. Nel Direttivo è risultata però prevalente l’idea che la Cgil abbia la possibilità di riuscire a governare la propria iniziativa in modo tale che i quesiti referendari risultino come uno strumento utile per esercitare sul Parlamento la pressione necessaria per spingerlo a mettere in calendario e a discutere realmente la proposta Cgil, fino a trasformarla in legge. Da tutto ciò sia la lunghezza del dibattito, animato da una trentina di interventi, sia la sostanziale unanimità registrata nelle conclusioni. Il documento finale è stato infatti approvato senza nessun voto contrario e con sei astensioni.
@Fernando_Liuzzi