“Dieci anni dalla morte di Paola Clemente, un anno da quella di Satman Singh. Due anniversari che non solo dobbiamo ricordare ma che ci devono servire per la nostra azione a difesa dei diritti e della dignità di chi lavora nei campi. Non vogliamo più dover piangere dei morti per il mancato rispetto delle norme di sicurezza”. Così Giovanni Mininni, segretario generale della Flai-Cgil, in questa intervista al Diario del lavoro, che denuncia ancora una carenza nei controlli e un silenzio delle istituzioni. Mininni ha poi sottolineato la riscoperta del valore della militanza “grazie alla campagna referendaria. Nonostante la sconfitta – ha detto – dobbiamo sapere riconoscere i risvolti positivi”. Militanza che fa parte del DNA della Flai come dimostra “lo sciopero alla rovescia” messo in atto a Torretta Antonacci, riscoprendo una prassi dell’azione sindacale che risale al secondo dopoguerra, e la campagna “Diritti in campo” dove le brigate del lavoro portano nei campi legalità e tutele.
Segretario, che cosa è cambiato a un anno dalla morte di Satnam Singh?
Nell’anniversario della morte abbiamo avuto un incontro unitario con la prefettura di Latina chiedendo alle istituzioni la necessità di rafforzare le azioni di contrasto all’illegalità, non solo sul territorio di Latina ma in tutta Italia. Come Flai dobbiamo registrare una completa assenza di confronto e di risposte da parte del governo. Dunque a un anno dalla morte di Satnam poco è cambiato.
Perché?
I controlli sono ancora troppo pochi e manca un’azione complessiva a difesa di chi lavora nei campi. Ci siamo recati a Foggia, nei ghetti di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci, dove abbiamo portato il Ces e l’Effat, parlamentari europei e italiani e il capo di gabinetto del vice presidente della Commissione europea, perché su questa situazione il nostro governo è silente e per portare anche all’attenzione dell’Europa le condizioni di chi vive in questi non luoghi. Il nostro intento è rafforzare la legge 199 contro il caporalato per ottenere una direttiva europea che contrasti gli appalti illegali e l’intermediazione illecita di manodopera.
C’è un altro anniversario che ricorre ossia i dieci anni dalla morte di Paola Clemente. Anche qui le chiedo che cosa è cambiato?
Paola Clemente morì per il grande caldo che c’era sotto i teloni delle viti. Per ricordarla lo street artist Jori ha realizzato un murale ad Adria e abbiamo dato vita a un podcast. In questi dieci anni non possiamo dire che nulla è stato fatto. Siamo arrivati alla 199 che sta producendo una cospicua giurisprudenza, utile sotto anche il profilo lavoristico per l’azione del sindacato, e che la magistratura ormai applica non solo all’agricoltura. Nessun altro paese ha una legge di questo tipo, che è stata presa come punto di riferimento dall’Ilo per gli indici di sfruttamento. C’è, inoltre, il lavoro costante delle forze dell’ordine che denunciano e arrestano i caporali. L’aspetto negativo è che ancora mancano le sezioni territoriali in oltre il 50% del paese, molto spesso osteggiate dalle organizzazioni datoriali che le vedono come una presenza poliziesca quando invece sono preposte alla prevenzione e al supporto anche delle stesse aziende. Le istituzioni che dovrebbero insediarle latitano e molto spesso dobbiamo ricorrere ai prefetti per attuarle. Accanto a questo c’è l’endemica carenza delle ispezioni. Non bisogna confondere gli accessi con le ispezioni e i dati ci dicono che i lavoratori controllati sono 8mila su una platea di 1 milione iscritti agli elenchi anagrafici più un 30-40% di irregolari. Numeri davvero irrisori.
Proprio per tutelare i lavoratori dal caldo, quasi tutte le regioni hanno emanato delle ordinanze. Come le giudicate?
Siamo soddisfatti delle ordinanze regionali, realizzate anche su nostra sollecitazione. Quelle provinciali, inoltre, presentano misure molto più calate su quello che è il contesto agricolo di quell’area. Ci sono, tuttavia, differenze di sostanza tra ordinanza e ordinanza. Alcune dicono che la sospensione nelle ore più calde si può fare, lasciando alla discrezionalità dell’azienda la decisione, e altre che, invece, impongono uno stop. E qui per noi è più facile individuare le imprese che trasgrediscono.
Dal governo è poi arrivato il Protocollo nazionale. Che valutazione date?
Il Protocollo offre una visione organica, mettendo ordine e costruendo una cornice di buone prassi che noi abbiamo apprezzato. Viene dato spazio alla contrattazione, rimandando l’attuazione delle misure agli accordi settoriali, territoriali e aziendali. Ci confronteremo con la confederazione ma anche con Fai e Uila per arrivare a un protocollo sull’agricoltura insieme alle controparti. La prima nota negativa è la mancanza di una visione strutturale. Ci sono altri punti che ci lasciano perplessi come la premialità per le imprese che rispettano la legge. È una mentalità che non ci piace e che a volte emerge anche nella 199. Nel Protocollo si parla anche di ammortizzatori sociali. Nel lavoro agricolo abbiamo la CISOA, che ha delle particolari caratteristiche. Può essere usata per un massimo di 90 giorni nell’anno, che sono assolutamente insufficienti se contiamo tutti gli eventi atmosferici che bloccano il lavoro nei campi. Tant’è che lo scorso anno venne fatto un provvedimento per allungarli. E tutto questo manca nel Protocollo. Inoltre chiediamo che le giornate di CISOA siano conteggiate per avere la disoccupazione agricola. Ma il problema principale è che la CISOA protegge solo chi ha un contratto a tempo indeterminato, che in agricoltura è meno del 10%, mentre il resto sono stagionali che non raggiungono le 181 giornate necessarie per accedere alla cassa integrazione agricola. Quindi va abbassata questa soglia. Senza questi correttivi il Protocollo, su questo fronte, è inapplicabile per il comparto agricolo.
Nel ghetto di Torretta Antonacci in provincia di Foggia avete deciso di riparare, insieme ai lavoratori, una strada. Mi spiega il valore di questa azione?
A Torretta Antonacci abbiamo attuato uno sciopero alla rovescia. Una pratica che risale al secondo dopo guerra quando il paese andava ricostruito non solo nelle infrastrutture ma anche in una coscienza sociale e di classe. È stato un modo per mettere insieme i lavoratori di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone, unirli in una comune lotta in difesa dei diritti e portare avanti l’eredità di Giuseppe Di Vittorio e Danilo Dolci. Come sindacato stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti che ci stanno spingendo a chiederci che cosa possiamo fare per essere ancora più vicini a quelle persone che soffrono. Tutto questo lo ha risvegliato la campagna referendaria.
In che modo?
Pur non avendo raggiunto il quorum come sindacato dobbiamo sapere cogliere gli elementi positivi che ci sono nella sconfitta. L’analisi dei flussi di voto ci dice che c’è stata una significativa mobilitazione dei giovani e se in alcune aree avessero votato solo chi non superava i 34 anni di età avremmo toccato il quorum. Le nostre richieste hanno dunque intercettato una platea di persone che, paradossalmente, potrebbero non essere iscritte alla Cgil, visto che lo zoccolo duro dei nostri tesserati si posiziona in altre fasce d’età. La Flai, come tutta la Cgil, è andata fisicamente nelle aree più disagiate, nelle periferie, dove si vive la precarietà del lavoro. Li abbiamo registrato un’elevata partecipazione al voto e molto inferiore, invece, nei quartieri centrali delle città, in controtendenza con le elezioni politiche. Ora stiamo ragionando non solo su come non perdere contatto con quei 14 milioni di cittadini che hanno votato ma principalmente come farli aumentare. Questo è la riscoperta della militanza. Un sindacato è vivo se va a parlare con le persone, se condivide con loro le battaglie e non le impone dall’alto.
Ci sono dei passaggi nella campagna referendaria che, secondo lei, non avete affrontato nel modo corretto?
In merito al quesito sulla cittadinanza, sostenuto con il sì anche se non abbiamo raccolto noi le firme, abbiamo toccato con mano un ostracismo proprio nelle zone più povere. Purtroppo è passata una becera propaganda, del governo ma anche di alcuni mezzi di informazioni e canali televisivi, contro gli immigrati. Una propaganda miope che non si rende conto del fatto che abbiamo bisogno di manodopera straniera, come più volte detto anche dalle associazioni datoriali. Il dato è che questa narrazione ha fatto breccia, anche all’interno del nostro perimetro. I flussi di voto raccontano che chi ha dato quattro sì ai nostri quesiti non sempre si è espresso alla stessa maniera sulla cittadinanza, credendo che si volesse così regolarizzare chi arriva nel nostro paese mentre si andavano ad accorciare i tempi di coloro che vivono qui regolarmente e pagano le tasse. Questo interroga il sindacato sulle sue responsabilità. Probabilmente non ci siamo fatti carico di offrire una contro narrazione del fenomeno migratorio, anche per evitare polemiche con una parte dei nostri tesserati. Come sindacato dobbiamo essere capaci a unire lavoratori italiani e stranieri, è tutta classe lavoratrice.
È partita la nuova edizione di “Diritti in campo” che dal 2009 porta le brigate del lavoro nei campi. Può farmi un bilancio?
Quest’anno abbiamo presentato due ricerche che hanno analizzato quello che abbiamo fatto negli anni passati con Diritti in campo, per capire i punti di forza e dove ci possiamo migliorare. Il primo elemento positivo è che i territori, interessati in passato dall’iniziativa, mettono autonomamente in campo azioni di sindacato di strada. Con le brigate del lavoro andiamo anche in quei territori dove erroneamente si crede che non esista il caporalato. Tutto questo per noi ha un grande valore dal punto di vista organizzativo, perché riusciamo a creare una rete con le varie comunità, sappiamo come contattarle. Tocchiamo con mano le varie problematiche, riusciamo a mettere pressione alle istituzioni affinché intervengano. Diritti in campo è nata nel 2009 e in questo lasso di tempo il senso di appartenenza all’interno della Flai si è molto rafforzato, dando vita a una comunità coesa con delegati che si spostano in tutte le zone d’Italia. Ci sono aspetti che chiaramente possiamo migliorare. Serve una maggiore conoscenza degli usi e dei costumi dei vari gruppi etnici, è indispensabile la presenza del mediatore linguistico in tutte le nostre brigate e portare, dove non ci siamo riusciti, tutti i servizi offerti dal sindacato.
Tommaso Nutarelli