Adesso che il gioco è finito e conosciamo la percentuale – non esaltante – di chi ha votato possiamo provare a dare qualche risposta agli interrogativi relativi al referendum.
Ma valeva la pena? Questa sconfitta – già ampiamente annunciata rispetto al raggiungimento del quorum – cosa ci racconta sulla presa sociale del sindacato , in particolare della Cgil che è stata la promotrice dei quattro quesiti sul lavoro?
La tentazione di un bilancio critico o negativo è forte e probabilmente i commenti saranno principalmente di questo tenore.
Quindi, forse controcorrente, vorrei sostenere che sul piano strategico l’operazione del referendum dal punto di vista sindacale (della Cgil) andava fatta.
Quindi non sotto il profilo tattico (opportunità , quali quesiti e tempi etc.), che è materia di discussione. Ma il senso strategico consisteva nel lanciare un messaggio intorno alla necessità di restituire centralità al lavoro: colmando un buco sostanziale della politica, particolarmente grave per quella di centro-sinistra.
Alla base di questa operazione si trova la riattualizzazione del ruolo del sindacato nell’arena politica: una costante della tradizione del sindacalismo italiano. Ma se in passato questa proiezione manifestava la voglia di allargare la forza riconosciuta dei sindacati dentro l’arena delle relazioni industriali, oggi il quadro si è sensibilmente modificato. Per il sindacato tutto, per la Cgil in particolare, alla base oggi si trova invece l’esigenza di colmare il (relativo) indebolimento avvenuto nel frattempo nell’ambito della sociale e contrattuale.
Intendiamoci il mio argomento non è quello , che per alcuni va di moda, che il sindacato ha – avrebbe- perso pezzi. Piuttosto è quello, sostanzialmente differente, che il sindacato non ha guadagnato pezzi .
Senza volerla fare lunga: il radicamento organizzativo delle Confederazioni resta imponente ed influente nei settori di insediamento classico del nostro sindacalismo, il manifatturiero e il pubblico impiego.
Ma , come è possibile vedere, i sindacati stentano ad affermarsi nella parte in crescita e preponderante del nostro mercato del lavoro, quella del terziario povero. Ebbene l’evoluzione di questo settore condiziona largamente l’andamento del nostro assetto contrattuale e produce un quadro strutturalmente problematico: la presenza diffusa di lavoratori poco pagati e con tutele ridotte .
Un fenomeno comune anche agli altri paesi occidentali, ma che in Italia presenza tratti di maggiore aggressività , sia per la debolezza delle retribuzioni sia le limitate prospettive di miglioramento che riguardano segmenti crescenti del mondo del lavoro .
Non si tratta solo della precarizzazione, su cui richiamano giustamente l’attenzione i sindacati, ma di uno scenario sociale di portata più larga e più preoccupante: segnato dall’ insicurezza trasversale che alimenta l’incertezza del futuro per tanti lavoratori e indebolisce il potere contrattuale dei sindacati.
Ora, detto che andava fatto , quali implicazioni trarre dall’esito? Il bicchiere è palesemente mezzo vuoto. Appena sopra il 30% dei partecipanti il risultato va considerato comunque non soddisfacente.
Il primo aspetto sarebbe però di capire quali sono i gruppi sociali che hanno votato. Se ad esempio vi siano alcuni segnali di attrazione e di partecipazione al voto da parte di quei ceti più deboli, che non vanno più a votare alle politiche. Questa informazione non è attualmente disponibile, ma potrebbe essere utile sul piano conoscitivo. Anche se il dato ci racconta piuttosto una difficoltà di penetrazione sociale oltre i confini tradizionalmente presidiati dai sindacati.
In quanto il punto centrale resta – a mio avviso – quello della capacità del sindacato (della Cgil) di toccare per questa via, o altre equivalenti, le aree sociali attualmente sottorappresentate.
Comunque sia , visto che una revisione delle norme generali non si è avuta, questo passaggio dovrebbe essere affidato soprattutto all’azione nell’ ambito della contrattazione e delle relazioni industriali : per misurare l’avvicinamento alle componenti meno esplorate e meno visibili del mondo del lavoro.
Quindi una implicazione decisamente necessaria consiste nel ritorno all’arena delle relazioni industriali.
Resta però il fatto che il messaggio intorno al quale la Cgil intendeva attirare l’attenzione non ha sfondato nella sfera politica.
In questo ambito hanno prevalso le linee di frattura vecchie , definite dieci anni fa, tra i cosiddetti ‘modernisti’ ( i renziani) e i ‘conservatori’, che volevano il mantenimento dell’art. 18. Linee di frattura che sono palesemente oltrepassate dallo scenario sociale attuale– in buona misura ed inintenzionalmente promosso dallo stesso Jobs act- che vede chiaramente ridotto il numero dei lavoratori che godono di tutele sufficienti e dunque accresciuta l’esigenza di apprestare meccanismi di protezione sociali aggiornati ed adeguati.
Ma diciamo la verità . Se avessero ragione i benpensanti del Pd e dintorni come faremmo a spiegare il massiccio esodo elettorale dei ceti più deboli, avviato proprio in quel periodo, verso la destra? L’insicurezza reale o percepita , seppure crescente , spiega , non da sola ma abbastanza, questi comportamenti che ci rammentano il messaggio sociale di un avvenuto abbandono da parte della sinistra.
Insomma alla base di questo strabismo non c’è solo una questione di schieramento politico. Esiste un tema più di fondo e irrisolto. Che consiste nel fatto che il paradigma adottato dalla sinistra , dai primi anni novanta al 2022, è stato sbagliato, in primo luogo perché ha considerato i lavoratori come un oggetto delle macro-politiche, un oggetto che doveva variamente adattarsi alle diverse leggi ed imperativi della flessibilità.
Dal punto di vista della battaglia culturale è cominciata ormai da tempo la transizione verso un paradigma diverso, che parta dai problemi del lavoro e da quelli imposti dalle grandi transizioni in corso ( ecologica e digitale) con l’intento di ridisegnare una strategia di sviluppo alternativa , più centrata ad esempio sulla domanda e sulla crescita dei salari: se vogliamo usare una formula ‘post-liberista’.
Ma se le nuove idee incalzano , non si può dire che esse abbiano conquistato tutto il continente del centro-sinistra. Ecco perché appare difficile che la Cgil si limiterà a ritirarsi nell’arena delle relazioni industriali, tralasciando quella politica, la quale ancora attende una trasformazione all’altezza delle sfide.
Mimmo Carrieri