E’ scettico sul futuro del sindacato Cesare Damiano, il presidente della Commissione lavoro della Camera, ex ministro del Lavoro nel governo Prodi. Non si nasconde la crisi in atto, ma stenta a intravedere i settori che potrebbero consentire una ripresa, soprattutto considerando la scarsa attitudine all’unità, anche quella d’azione. A suo avviso è difficile che torni una corposa stagione di contrattazione, che non a caso diventa sempre più difficile.
Damiano, dove arriverà il deterioramento del ruolo del sindacato italiano?
Fino a qualche anno fa il sindacato italiano era considerato un’anomalia nel panorama europeo. Le grandi organizzazioni si indebolivano, anche il forte sindacato tedesco, per non parlare dei più deboli, come quello francese. Mostravano cenni di cedimento perfino le mitiche organizzazioni del Nord Europa, dei paesi scandinavi. E invece il sindacato italiano andava in controtendenza, aveva saputo mantenere una sua forza politica e organizzativa.
Grazie a cosa?
Molto grazie all’intuizione di organizzare i pensionati, che hanno compensato il calo di iscritti dei lavoratori attivi. Ma oggi quella scelta non basta più, cominciano a sommarsi gli indicatori negativi, che si prolungano nel tempo.
Peserà la fine della concertazione?
L’ultimo grande accordo di concertazione è quello del 2007, con il governo Prodi. Poi ci sono state forme di dialogo sociale, contatti di vario genere con i governi, ma sporadici e occasionali. E anche l’azione sindacale ha perso il suo smalto. Viene meno l’oggetto che qualifica l’identità del sindacato, la contrattazione.
Non si contratta più?
Si contratta meno e con crescenti difficoltà. Nella pubblica amministrazione non si rinnovano i contratti nazionali da anni e il Documento di politica e finanza allude a un blocco che duri fino al 2020. Nel privato i contratti si rinnovano con fatica sempre maggiore. La contrattazione aziendale segna il passo ed è più frutto della deregolazione voluto dalla destra con l’articolo 8 che non l’organizzazione coordinata della contrattazione nei luoghi di lavoro. E la lunga crisi, con un miliardo di ore di cassa integrazione l’anno dal 2009, ha fatto il resto.
Ma l’azione sindacale è continua.
Il ruolo e la tenuta organizzativa reggono perché si contratta la crisi per ridurne i danni. Ma è cosa ben diversa dalla realtà che abbiamo conosciuto in altri momenti. Dopo la crisi della Fiat nel 1980 il sindacato aveva inventato la concertazione, il governo dei processi di ristrutturazione. Grandi intuizioni, oggi sminuiti in derive più corporative che categoriali. Oggi ognuno pensa per sé. Ne sono prova le nuove segmentazioni del mondo del lavoro. Fenomeno che si riscontra anche nelle organizzazioni datoriali, tra gli artigiani, i commercianti, le cooperative. Il fatto che la Fiat abbia deciso di uscire dalla Confindustria è significativo del nuovo modo di pensare, dell’allentamento del vincolo associativo.
Cosa può accadere adesso?
Difficile dirlo. Siamo in un mondo nuovo e non è facile capire quale sia la strada da imboccare. I sindacati non sono riusciti a mantenere nemmeno l’unità d’azione e adesso ciascuno rincorre le sue soluzioni, chi divenendo più conflittuale, chi al contrario cercando la partecipazione. Ma tutti senza ottenere grandi risultati. Si va dall’indifferenza all’incapacità di incidere.
La contrattazione dell’organizzazione del lavoro e della condizione del lavoro può rappresentare una via di uscita da questa crisi?
Se si manifestano, come sembra, pur moderati segnali di ripresa economica e se l’occupazione mostra qualche segnale positivo, questo può favorire una ripresa dell’attività sindacale. Ma se questo possa tradursi in una corposa stagione contrattuale e con quali contenuti, non saprei. Mi sembra altamente improbabile che si possa tornare ai fasti della contrattazione sull’organizzazione e la prestazione del lavoro. Bisognerebbe rianalizzare a fondo i processi produttivi, che si basano sempre più sulla delocalizzazione e sulla esternalizzazione che sull’intensità della prestazione. Credo che un apporto più qualitativo delle nuove generazioni abbia come pendant una prestazione frammentaria e saltuaria e una bassa remunerazione.
Su quali temi dovrebbe concentrarsi allora il sindacato nel prossimo futuro?
Penso che possa qualificare la sua azione soprattutto sui temi dell’unificazione del mercato del lavoro, sul superamento della precarietà, sulla reintroduzione della flessibilità nel sistema pensionistico, sugli strumenti della partecipazione dei lavoratori nelle grandi imprese, sulla politica industriale. Oppure nell’ispirare una politica di standard contrattuali europei. Questo è il futuro.
Come vanno giudicati i grandi patti interconfederali, come l’ultimo del gennaio scorso su rappresentanza e contrattazione?
Sono un chiaro sintomo di vitalità e di autodifesa dall’invasione della politica e dalla non considerazione, quando non dall’esplicito attacco, del ruolo del sindacato.
Ma se il sindacato non riesca a trovare queste nuove strade, che può accadere?
Non è in discussione il ruolo del sindacato più di quanto non lo sia quello della politica, delle istituzioni, dei corpi intermedi, dei partiti. Sono tutti in bilico. Quello che c’era cade a pezzi. La ricostruzione può avere due derive. Una populista e autoritaria, mentre l’altra può mantenere un tracciato democratico, pur non esente da queste venature populiste. Al riguardo, i risultati del Movimento 5 Stelle sono significativi e inquietanti.