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Home - Approfondimenti - Analisi - Democrazia e rappresentatività: il ruolo degli iscritti

Democrazia e rappresentatività: il ruolo degli iscritti

21 Ottobre 2002
in Analisi

Roberto Campo, responsabile Uilm Abruzzo – Luca Maria Colonna, segretario nazionale Uilm

Le divisioni sindacali degli ultimi mesi hanno messo all’ordine del giorno del dibattito sindacale il tema del rapporto tra le scelte delle Organizzazioni sindacali e il consenso dell’insieme dei lavoratori. Taluni – a nostro avviso in modo non completamente corretto – sintetizzano e in qualche modo definiscono questo tema con il titolo “democrazia sindacale” o anche come “rapporto democratico con i lavoratori”.

A nostro avviso, però, il titolo corretto di questo tema è quello riferito al concetto di “rappresentatività del sindacato” e di conseguenza alla legittimità delle organizzazioni sindacali, tutte insieme o separatamente, a concludere accordi che abbiano efficacia per un determinato (e più o meno vasto) insieme di lavoratori.


Il tema è assai rilevante per il mondo del lavoro e per l’intera collettività e non a caso è trattato nell’articolo 39 della Costituzione della Repubblica, laddove è previsto che i sindacati “possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi con efficacia obbligatoria …”.


Dalla norma costituzionale si ricavano – secondo noi – alcune chiare e fondamentali indicazioni:


1. il ruolo dell’iscritto al sindacato, che nella Costituzione è l’unico soggetto che determina le scelte sindacali;


2. la possibilità di concludere un accordo con efficacia “erga omnes” a condizione che le organizzazioni sindacali che rappresentano la maggioranza degli iscritti lo sottoscrivano.


Nella concreta esperienza sindacale, tuttavia, queste indicazioni, pur preziose, non risultano sufficienti perché gli iscritti al sindacato, sono, purtroppo, una consistente minoranza anche in un settore tradizionalmente sindacalizzato come quello metalmeccanico. Si è quindi diffuso l’uso di affidare anche ai lavoratori non iscritti la validazione delle scelte sindacali sugli atti negoziali compiuti.


Ciò è diretta conseguenza del dato associativo sopracitato ma anche della storia sindacale del Dopoguerra che ha visto il sindacalismo confederale svilupparsi nel solco di precise opzioni politiche, quelle dei cosiddetti “partiti di riferimento”. Il rapporto con i “partiti” non è mai stato semplice: era utile per reclutare nuovi iscritti e selezionare potenziali nuovi dirigenti, ma rischiava di piegare la rappresentanza e la tutela degli interessi collettivi del mondo del lavoro dipendente, alle logiche della politica dei partiti stessi. L’esigenza di emanciparsi (ma senza rotture insanabili) ha pertanto spinto i sindacalisti a coltivare la propria autonomia nel rapporto con le altre organizzazioni confederali e con l’insieme dei lavoratori, a prescindere dal dato associativo, che invece era determinante per mantenere il rapporto con i partiti di riferimento.


Dissoltisi i “partiti di riferimento”, anche grazie a un buon clima unitario, cementato dal senso di responsabilità e, perché no, dal ruolo acquisito da Cgil, Cisl e Uil con la concertazione, il rapporto con l’insieme dei lavoratori è divenuto pressoché l’unica fonte di legittimazione del sindacato. Non a caso, in quegli anni si supera il criterio di “sindacati maggiormente rappresentativi” previsto nello Statuto dei lavoratori e di conseguenza si passa dalle Rappresentanze sindacali aziendali alla Rappresentanza sindacale unitaria. Si è trattato di un mutamento epocale per il mondo sindacale: da allora i componenti le Rsu, trovano la loro legittimazione nel voto dei lavoratori e da questo punto di vista ci pare poco rilevante l’effetto degli accordi tra i sindacati (vedi il Patto di solidarietà tra Fim, Fiom e Uilm) per la ripartizione paritetica del “terzo” riservato alle organizzazioni firmatarie dei contratti nazionali in luogo della ripartizione su base proporzionale. Le ragioni del “terzo” riservato alle liste presentate dai firmatari dei contratti era e resta quello di mantenere un rapporto tra le organizzazioni sindacali e le rappresentanze sindacali in azienda. Il Patto di solidarietà, invece, era conseguenza di una forte volontà unitaria che ci portava a garantire comunque una piccola quota di rappresentanza alle singole organizzazioni. Oggi tale volontà non c’è più, possiamo prendere atto di questa realtà e ridiscuterne i contenuti. Certamente non possiamo accettare una sistematica violazione: la democrazia si fonda innanzitutto sulle regole e sul loro rispetto.


Questa ricerca della legittimazione sindacale nel voto dell’insieme dei lavoratori ha portato tanto beneficio al sindacato confederale e alla Uilm in particolare. Vista con l’ottica dei “partiti di riferimento”, la nostra organizzazione sembra quasi un calabrone che vola a dispetto delle leggi della fisica. Ma ha due conseguenze negative: la mortificazione del ruolo degli iscritti al sindacato e la deriva referendaria, una sorta di “pannellismo” nel mondo sindacale, che giunge all’aberrazione del referendum su ogni singolo punto delle piattaforme sindacali e – supponiamo – anche sui singoli punti degli accordi, semmai verranno stipulati, che ci risulta si sta praticando, per esempio, in molte imprese metalmeccaniche di Bologna.


La storia, la pratica e la situazione sindacale italiana rendono – a nostro avviso – inadeguata la teoria del “sindacato degli iscritti” proposta dai alcuni compagni della Cisl. Ma questo non vuol dire che gli iscritti siano irrilevanti. Molte conquiste contrattuali sono il frutto delle lotte e dell’impegno di generazioni di iscritti al sindacato: fosse per i lavoratori in quanto tali, indipendentemente dal loro unirsi in sindacato, non verrebbe realizzato quel parziale riequilibrio dei rapporti di forza nei confronti dei datori di lavoro che è il presupposto della contrattazione collettiva.


Attribuire al lavoratore, al singolo lavoratore non iscritto, il potere di decidere sugli atti dei sindacati, significa operare una meccanica trasposizione del principio del “cittadino-sovrano”, tipico delle democrazie occidentali, nel mondo del lavoro che è caratterizzato però da vincoli e dinamiche differenti. L’azione sindacale si esplica comunque condizionata dall’esistenza di un potere imprenditoriale, dotato di forza e legittimità proprie, che con l’unirsi dei lavoratori in sindacato viene contenuto e limitato. Da questo punto di vista il sindacato pur rappresentando gli interessi dei lavoratori, è portatore anche di un interesse collettivo che va aldilà della somma dei singoli interessi individuali, per esempio quello di essere un soggetto credibilmente portatore anche di istanze ideali ed etiche. Non si comprenderebbe altrimenti il perché di alcune battaglie sindacali impopolari come quelle contro l’assenteismo.


V’è infine una questione di equità nei confronti degli iscritti che sostengono economicamente, oltre che con un grandissimo contributo di impegno, idee e tempo, le organizzazioni che stipulano accordi, i cui benefici vanno, però, all’intera collettività dei lavoratori. Ove si accogliesse la tesi dell’analogia con il cittadino-sovrano, all’esercizio della sovranità da parte dei lavoratori non iscritti, dovrebbe corrispondere l’obbligazione a contribuire – ci teniamo a sottolinearlo – non alla vita delle organizzazioni sindacali, ma alle spese sostenute per lo svolgimento delle vertenze.


Ma ammettiamo – proprio perché non crediamo nel “sindacato degli iscritti”, ma non vogliamo neppure mortificare il ruolo degli iscritti – che si trovi una soluzione di equilibrato compromesso (più avanti ne discuteremo nel merito), il rapporto con i non iscritti deve passare solo attraverso il referendum?


Affermarlo significa affermare che la democrazia è solo quella diretta e crediamo che nessuno dei nostri interlocutori possa sottoscrivere un’affermazione così drastica e infondata. Esiste quindi la possibilità di avere una validazione democratica fondata sul metodo elettivo che è quello adottato in concreto per le Rsu.


Perché preferiamo, al metodo referendario, la democrazia delegata? Prima di rispondere a questa domanda, vogliamo anche chiarire che non ripudiamo l’uso del referendum. In talune occasioni lo riteniamo assolutamente indicato a determinare delle scelte. Quello che contestiamo è il considerare il referendum come l’unico strumento di rapporto democratico con i lavoratori. Tesi che, tra l’altro, ci pare tipica di una concezione individualista dei rapporti sociali e che dissolve il diritto sindacale in diritto dei lavoratori in quanto tali.


Preferiamo la democrazia delegata:


1.  perché, a differenza del referendum, consente, utilizzando pesi differenziati, di tener conto del ruolo degli iscritti;


2.   per l’analogia con l’ordinamento repubblicano (che, non a caso, esclude il ricorso al referendum in materia tributaria e di bilancio, sulla ratifica di trattati internazionali e su provvedimenti di amnistia e indulto);


3.  perché favorisce la discussione approfondita e la mediazione sulle spesso complesse norme contrattuali;


4. perché il meccanismo referendario, basato su un’alternativa secca – accettare o rifiutare un determinato accordo – si presta a soluzioni demagogiche e magari controproducenti per i lavoratori stessi. Un accordo infatti è il frutto di un serrato confronto con le controparti e può essere valutato solo se confrontato con le possibili alternative, per esempio quella di non raggiungere l’accordo e di dover proseguire nelle iniziative di lotta;


5. infine, perché in questo ultimo periodo il referendum è stato utilizzato come strumento di lotta politica divaricante tra le organizzazioni sindacali.


Come applicare quindi la democrazia delegata nel mondo sindacale metalmeccanico? Abbiamo a disposizione un modello, quello applicato nel pubblico impiego, che prevede la possibilità di stipulare accordi a condizione che vengano sottoscritti da una o più Organizzazioni sindacali che, rappresentino almeno il 50% + 1 dei lavoratori come media tra il dato associativo (iscritti) e i voti nelle elezioni delle Rsu (cui partecipano tutti i lavoratori, iscritti e non), oppure il 60% tenendo conto del solo dato elettorale.


La trasposizione di questa norma nel settore privato, caratterizzato da una pluralità di datori di lavoro, presenta – non possiamo negarlo – alcune difficoltà legate alla certificazione della consistenza associativa e degli esiti elettorali e al fatto che in molte piccole realtà industriali, non sindacalizzate, non sempre si svolgono le elezioni delle Rsu. Ma, a parte il fatto che dove non siamo riusciti a eleggere la Rsu, presumibilmente non si riesce neppure a svolgere un referendum, si tratta di difficoltà – a nostro avviso superabili – anche con apposite norme di legge, se ci fosse un’adeguata volontà di Fim, Fiom e Uilm.


In fondo, lo Statuto dei lavoratori, anche per quanto riguarda la rappresentatività non va stravolto, ma occorre adeguarlo ai tempi: ciò significa passare dalla rappresentatività presunta dello Statuto alla rappresentatività certificata sulla base di chiare e certe regole.


Questo modello di democrazia, o meglio di misurazione della rappresentatività delle Organizzazioni sindacali, non potrà essere già operativo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Per questo motivo, la Uilm ha dichiarato di essere disponibile a ricorrere ancora una volta al referendum su una piattaforma unitaria. Lo abbiamo dichiarato consapevoli che significa rinviare la discussione e la realizzazione di un modello democratico che coniughi il ruolo degli iscritti e la partecipazione di tutti i lavoratori, perché siamo altrettanto consapevoli che solo una piattaforma unitaria può condurre a un rinnovo contrattuale adeguato ai problemi e alle esigenze dei lavoratori metalmeccanici. Ci auguriamo che anche la Fim e la Fiom sappiano dar prova di altrettanta disponibilità al dialogo e al confronto.


 

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