di Pietro De Biasi, direttore dirorse umane e relazioni industriali Rivagroup
Che il mercato del lavoro abbia un ruolo non trascurabile nel più ampio spettro degli elementi che determinano la competitività di un sistema industriale ed economico, mi sembra un dato sostanzialmente assodato. Assegnargli un peso relativo preciso è invece un’operazione ben più complessa. La relazione tra liberalizzazione del mercato del lavoro ed incremento della produttività e competitività non appare empiricamente univoca e si presenta differentemente all’interno di diversi sistemi e Paesi. La considerazione più immediata è che nell’individuare i criteri e valutarne il peso che determinano la competitività di un Paese non ci si può fermare a valutare singoli rapporti di causa ed effetto ma occorre identificare modelli pluricausali in cui il combinarsi in maniera diversa di diversi fattori ne induce un impatto complessivo di volta in volta differente.
Anche per questo motivo la valutazione della legge 30 e dei suoi effetti sul mercato del lavoro e sulla competitività del sistema Italia va sottratta ad astratti schematismi ideologici che pretendono di ingabbiare la realtà all’interno di meccanismi interpretativi sempre uguali a se stessi.
La legge 30 discende dall’analisi della situazione del mercato del lavoro in Italia contenuta nel Libro bianco del 2001 a cura di Marco Biagi. Esso appare caratterizzato da una profonda spaccatura: da un lato il mondo del lavoro subordinato classico, imperniato sul contratto a tempo indeterminato, dall’altro una platea molto variegata di impiego e sottoimpiego che sconfina spesso nel lavoro nero. Vi è, insomma, una frattura così netta da risultare anomala nel panorama europeo tra insiders ed outsiders. Gli insiders godono di protezioni superiori agli standards europei, dall’art. 18 ad un sistema di ammortizzatori sociali molto generoso, troppo se paragonato al pochissimo offerto agli outsiders. (Questa interpretazione è largamente ripresa in numerosi studi a livello europeo, tra cui, ad esempio, l’Employment protection legislation: its economic impact and the case for reform (2003) a cura del Direttorato generale per gli affari economici e finanziari, dove tra i punti di intervento si legge: “ a feasible reform strategy in a few countries could be to ease stringent EPL while at the same time increasing the coverage of an efficient unemployment benefit system. Reforms could seek to address discontinuity between fixed-term and permanent contracts.”)
La legge 30 compie un primo, incompleto passo verso il riequilibrio di questa distorsione, creando una serie di fattispecie contrattuali significativamente più flessibili, e meno tutelate, del Cti, finalizzate ad accogliere e riassorbire l’impiego precario delle collaborazioni coordinate continuative e, a maggior ragione, fette di lavoro nero. Il suo successo si misurerà dunque sulla capacità di svuotare progressivamente il bacino degli outsiders per portarli all’interno di una rete di forme contrattuali dove la distanza dal centro, il massimo della tutela, il Cti, sia via via minore, e realizzando così il doppio risultato di un ampliamento della tutela sociale complessiva del sistema con una sua ulteriore e virtuosa flessibilizzazione. La legge 30 esplica ed esplicherà i suoi effetti su un mercato del lavoro caratterizzato, non va dimenticato, da una forte e crescente deregolamentazione delle forme di accesso, in parte avvenuta per via legislativa, a partire dal pacchetto Treu, in parte determinatasi extra e contra legem. Ciò ha contribuito in maniera decisiva a quella che ormai è una vera e propria peculiarità italiana: l’aumento dell’occupazione a fronte di una crescita economica molto bassa.
È sicuramente troppo presto per fare un’analisi seria dei risultati della legge 30 che in molti suoi aspetti ancora attende di diventare pienamente efficace (apprendistato, lavoro a chiamata, staff leasing etc), è possibile però fare alcune considerazioni di carattere generale per precisare i criteri su cui giudicarne gli effetti e valutare la coerenza tra obiettivi generali e strumenti normativi.
Da quanto detto discende una prima sommaria constatazione: la legge 30 manca di tutta quella parte che dovrebbe riguardare gli insiders. La questione dell’art.18 è in questo caso la parte che indica il tutto. Il livello delle tutele del rapporto di lavoro a tempo indeterminato co-determina la dimensione del fenomeno della deregolamentazione del mercato del lavoro soprattutto in relazione ai newcomers, coloro che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro: tanto più alte, in senso assoluto ed in senso relativo, le tutele del Cti, tanto più ampio il suo aggiramento. Intervenire su alcuni importanti aspetti del lavoro a tempo indeterminato, e su quello subordinato in generale, sia per via legale, sia contrattuale – ad esempio, flessibilizzazione dell’orario di lavoro, ristrutturazione delle dinamiche retributive con un deciso ampliamento della parte variabile negoziata in azienda, interventi sui trattamenti di malattia, ma anche eliminazione o, quantomeno, attenuazione della tutela reale contro i licenziamenti individuali, e profonde modifiche della disciplina dei licenziamenti collettivi, per sottrarli ad una giurisprudenza ancorata ad una interpretazione irrealisticamente restrittiva, figlia di un malinteso assistenzialismo – lo renderebbe più produttivo ed attraente, maggiormente competitivo, insomma rispetto ai “competitors” elusivi come le co.co.co., o illeciti tout court, come il lavoro nero.
Questa grave carenza va tenuta presente, così come va ricordata l’attesa, ormai troppo lunga, per la generale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe muoversi nella stessa direzione, trasferendo risorse dalla attuale iperprotezione degli insiders per costruire forme generalizzate di tutela per tutti coloro i quali lavorano, come un’indennità di disoccupazione non più abissalmente lontana dai livelli europei ed un’estensione, semplificazione, ma con riduzione delle prestazioni, della cassa integrazione.
Quello delle collaborazioni coordinate e continuative è un istituto ambiguo, che si presta ad un impiego sin troppo ampio e difficilmente riconducibile ad una fattispecie tipica. Altra importante questione, inoltre, è quanto questo stesso istituto sia utile all’occupazione e, per la sua parte, alla generale competitività del sistema, ovvero quanto sia a ciò utile l’occupazione che genera, giacchè non tutta l’occupazione è uguale, e bisogna probabilmente approfondire criticamente il fenomeno prima citato di una occupazione in aumento senza crescita economica.
Il trend di crescita delle co.co.co. accompagna, senza esserne, beninteso, l’unico fattore, il citato aumento dell’occupazione registrato negli ultimi anni. Ma quale occupazione viene così generata? È stato detto che essa è sostanzialmente di due tipi; una di fascia alta, composta cioè da collaborazioni realmente autonome che trovano così accoglienza nell’estrema flessibilità della fattispecie; una di fascia bassa, dove la continuità della collaborazione minaccia molto spesso di celare una subordinazione di fatto (e di diritto), con punte estreme, francamente imbarazzanti nei call centers, purtroppo anche di grandi aziende, e in molte attività ausiliarie nel settore dei servizi. Ora, non credo che le collaborazioni autenticamente autonome, sorrette cioè da una specifica professionalità riconosciuta dal mercato, abbiano molto da temere dalle limitazioni introdotte dalla legge 30, e cioè, in primo luogo, la riconducibilità ad un progetto delimitato nel tempo della collaborazione prestata. Più di qualsiasi disquisizione tra un’interpretazione estensiva o restrittiva della norma, conta il valore aggiunto in termini di know-how portato dalla prestazione.
Il peso professionale delle competenze fornite troverà comunque modo di esprimersi senza rischiare di cadere al di fuori di un sistema minimo di tutele: la forza sul mercato del lavoratore è una garanzia che prevale su qualsiasi intervento legislativo. D’altro canto, mi sembra difficilmente contestabile, in un’ottica di protezione sociale, ma non solo, che la massiccia elusione del lavoro subordinato, favorita dalle co.co.co., nelle prestazioni di basso contenuto professionale, vada quantomeno contenuta. Una eliminazione sic et simpliciter dell’istituto si scaricherebbe probabilmente interamente sull’occupazione, favorendo inoltre in molti casi un travaso verso il lavoro nero. Il lavoro a progetto, ed altre tipologie contrattuali introdotte, cerca di alzare il livello delle tutele, sia tipizzando maggiormente le fattispecie, sia introducendo specifici diritti, senza generare contraccolpi penalizzanti sul piano del dato occupazionale quantitativo. È senz’altro lecito dubitare del grado di efficacia dell’intervento legislativo. Mi sembra però che i rischi che la riforma del regime delle co.co.co. comporta siano obiettivamente modesti, comunque minori dei possibili benefici. Il lavoro a progetto, che già nei fatti, prima di ogni interpretazione giurisprudenziale, comincia ad essere impiegato in maniera estensiva, dilatando la nozione di progetto, comunque garantisce un certo innalzamento delle tutele ed un miglioramento relativo della condizione del collaboratore (ed a maggior ragione gli altri istituti introdotti che rientrano nel lavoro subordinato). Anche in questo caso si può discutere la dimensione di questo miglioramento, ma non revocarlo completamente in dubbio.
Non credo, peraltro, che una completa destrutturazione del mercato del lavoro, nel senso cioè di una totale libertà contrattuale tra domanda ed offerta sia, anche al netto di valutazioni sociali, auspicabile. La crescita dell’occupazione in una fase di stagnazione economica porta come conseguenza automatica una riduzione della produttività del lavoro; al beneficio sociale della riduzione dei senza lavoro fa da contraltare un deterioramento qualitativo del lavoro stesso. Se, insomma, il lavoro diviene “troppo” conveniente, spinge le imprese a ricorrervi in misura eccessiva, a scapito cioè di investimenti di capitale (nuove macchine, nuove tecnologie, nuovi prodotti); la produttività del lavoro si riduce, giacché il suo minor costo (e le co.co.co. sono la forma di lavoro lecito più economica) non compensa la riduzione di investimenti tecnici.
L’alternativa non può certo essere quella di irrigidire e rincarare il fattore lavoro, poiché così si deteriorerebbe l’unico indicatore ad oggi positivo, quello occupazionale, senza ottenere alcun risultato sugli alti fronti. Il dato di partenza non risiede infatti nel mercato del lavoro ma nella debolezza strutturale del sistema economico-industriale italiano, la cui fragilità lo rende particolarmente sensibile ad ogni intervento di carattere restrittivo, così come incline ad utilizzare in chiave meramente difensive le possibilità aperte dalla recente evoluzione del mercato. La vera criticità sembra essere proprio questa: mentre altri sistemi, in prima linea quelli anglosassoni, ma anche in misura minore alcuni Paesi europei, hanno utilizzato virtuosamente la deregolamentazione dei propri mercati del lavoro, nel senso di un aumento di efficienza e produttività complessiva, in Italia ciò, ad oggi, non sembra ancora essere riuscito. Il problema, in tutta evidenza, non è nelle soluzioni legislative adottate o in qualche particolarità del mercato del lavoro italiano, ma attiene più complessivamente ai problemi strutturali del sistema Italia. Il contributo che la riforma del mercato del lavoro può dare, nella parte già realizzata dalla legge 30 e soprattutto in quella ancora da fare, è di sostenere ed assecondare scelte strategiche che vanno compiute su altri piani, favorendo il consolidamento del trend occupazionale, contribuendo ad innalzare la qualità dell’occupazione e, con essa, la sua produttività. Ciò vuol dire, per usare una facile formula, che né la difesa ad oltranza del totem dell’art.18, né il dilagare delle co.co.co. possono dare alcun contributo alla competitività del nostro sistema economico-industriale; anzi, entrambi sono parte del problema.