di Vincenzo Bavaro – Ricercatore di diritto del lavoro, Università di Bari
Uno dei più autorevoli giuristi del lavoro europei, il francese Gérard Lyon-Caen, in un articolo apparso nel 1951 ha esposto la sua tesi sui fondamenti storici e razionali del diritto del lavoro. Egli così concludeva: «Il diritto del lavoro è l’insieme delle regole che disciplinano: 1°. Lo sfruttamento del lavoro umano in regime di capitalismo; 2°. I mezzi della lotta operaia avversi a questo sfruttamento; 3°. I risultati di questa lotta, cioè le incessanti modificazioni subite dal medesimo stato di sfruttamento». La definizione del ruolo assolto dal diritto del lavoro mi sembra ineccepibile perché scevra da inclinazioni ideologiche – benché legittimamente ed inevitabilmente caratterizzanti il lavoro interpretativo di ciascun giurista – in quanto tesa a descrivere l’essere di questo ramo del diritto piuttosto che il suo dover essere. Questa definizione, soprattutto, riconosce il fondamento del diritto del lavoro, la sua doppia origine e la sua storicità. Non a caso origine e dimensione diacronica del diritto del lavoro sono stati ribaditi dallo stesso Lyon-Caen, nel 2004 tornato a tracciare un bilancio storico del diritto del lavoro nella seconda metà del secolo e quindi a ribadire la inevitabile permanenza, ancorché rinnovata, del diritto del lavoro nel secolo dell’economia globalizzata.
Mi sembra utile ricordare la doppia origine del diritto del lavoro: da una parte – per dirla in termini concettuali abbastanza rozzi – le ragioni dell’economia; dall’altra le ragioni della persona che lavora. In mezzo, il diritto del lavoro. È evidente che la storia dell’economia è anche la storia del modo di organizzare il lavoro, cioè la storia delle forme con le quali si manifesta lo «sfruttamento»; e se abbiamo un perbenista pudore linguistico, si dica pure «utilizzazione della prestazione di lavoro», che tanto è lo stesso. D’altronde, tutti gli excursus sul diritto del secolo assumono questo rapporto euristico: ricordo per tutti la prima parte della Critique du droit du travail di Alain Supiot nella quale si spiega come il diritto del lavoro si fondi su un’antinomia: il lavoro come oggetto di scambio e il lavoro come soggetto di diritti.
Questa ampia premessa è qui formulata per ribadire che il diritto del lavoro si misura giorno dopo giorno con le ragioni dell’economia. Tuttavia, è ormai ben nota la tendenza diffusasi negli ultimi tre lustri in una parte della dottrina, in base alla quale, a partire da uno sviluppo della teoria di Coase (tendenza che noi chiamiamo analisi economica del diritto), ogni discorso giuridico è prima e sopra ogni cosa un discorso fortemente condizionato da un preciso modello teorico di analisi dell’economia, non per questo, però, più rigoroso sul piano scientifico rispetto ad altri postulati economici. Non voglio qui richiamare la questione più volte sollevata da Natalino Irti sulla giuridicità di ogni mercato, e quindi sulla politicità di ogni scelta di politica pubblica in materia di diritto e lavoro. Il punto è che il discorso economico non può annichilire il discorso giuridico, inteso come discorso per principi dogmatici e per principi ermeneutica, secondo l’insegnamento di Luigi Mengoni.
Per venire al punto particolare, sono note a tutti le insistenti e giustificabili argomentazioni ‘in diritto’ sulla necessità di modificare alcuni istituti fondamentali del diritto del lavoro a favore di un incremento dell’occupazione. La più recente innovazione legislativa introdotta nel nostro Paese (la c.d. riforma del mercato del lavoro ex d. lgs. n. 276/03) non è altro che il più recente e incisivo tassello aggiunto per il cambiamento di alcuni istituti storicamente fondamentali del diritto del lavoro. Sarebbe, utile sollecitare una verifica sulla funzionalità di queste trasformazioni del diritto, quantomeno rispetto agli obiettivi enunciati.
Ebbene, secondo alcuni dati economici è lecito nutrire scetticismo sulla reale efficacia delle misure adottate rispetto all’obiettivo occupazionale. Per esempio, la riforma del mercato del lavoro è intervenuta a regolare il rapporto di lavoro a progetto che, sin dal 2002, stava già registrando una tendenza alla crescita; altri rapporti di lavoro (come il part-time o il lavoro interinale), invece, nello stesso periodo di riferimento risultano sostanzialmente invariati. Benché il tempo trascorso dall’entrata in vigore non sia ancora tale da fornire elementi significativamente indicativi, non è il caso neanche di essere eccessivamente prudenti in questa valutazione. D’altronde, se pensiamo al part-time, si può utilmente raffrontare il dato occupazionale attuale con quello precedente il 2000 (anno della prima e vera flessibilizzazione di questo rapporto di lavoro) per constatare che la flessibilità (!) non ha poi prodotto nessuna esplosione quantitativa di tali rapporti di lavoro.
In ogni caso, conformemente alla petizione di principio metodologico, confesso di non provare grande interesse per i dati sull’occupazione, non solo perché non ritengo sia indicativo che un lavoratore a tempo pieno e indeterminato sia considerato come unità di lavoro allo stesso modo di un lavoratore assunto sia a part-time che a termine, ma anche perché la relazione giuridica di lavoro va letta prima di tutto per altro. Voglio dire, insomma, che l’incidenza del diritto del lavoro sull’efficienza economica è certamente un elemento di valutazione senza che questo riconoscimento debba condannare a passare dal dogmatismo giuridico al dogmatismo gius-economicista.
Oggi il dogma gius-economicista dell’occupazione è aggiornato dal nuovo dogma chiamato competitività. Non mi nascondo, ovviamente, che la competitività del sistema economico complessivo è il vettore principale per l’occupazione in una economia capitalistica di mercato; quello che non mi convince è la riproposizione del medesimo approccio scientifico al rapporto fra competitività e diritto del lavoro. È forte la tentazione di liquidare il discorso ricordando come l’incremento dei livelli occupazionali non abbia mostrato alcun nesso causale – diretto ed esclusivo – con il diritto del lavoro, bensì con dinamiche di mercato assai più complesse, così il sostegno alla competitività del sistema economico nazionale (ed europeo) non deriva necessariamente dal livello di garanzie e tutele date in un determinato mercato del lavoro. Al di là della battuta, grosso modo ci sono due questioni che spiegano il profondo scetticismo verso questo nuovo dogmatismo gius-economicista: una di metodo e l’altra di merito.
Riguardo alla questione di metodo, rubo la metafora utilizzata da altri ed in altro contesto per affermare che il discorso giuridico non deve utilizzare l’argomento economico allo stesso modo di come l’ubriaco utilizza il palo della luce, e cioè non per farsi illuminare la strada ma per appoggiarvisi in modo da non cadere. Quale che sia il giudizio fondato su argomenti sistematici, dogmatici, di politica del diritto su questa o quella legge, non si deve sviluppare l’argomentazione a partire da numeri di costo per dimostrare l’adeguatezza o inadeguatezza di un istituto giuridico, e senza tenere conto di tutti gli interessi più o meno convergenti in quella norma. Come si può leggere, per esempio, nel recente articolo di Marazza in questa rivista, dalla registrazione del maggior costo per unità d’orario di un lavoratore dipendente rispetto al corrispondente costo di un lavoratore autonomo a progetto egli ricava un giudizio negativo sia sulla nuova regolamentazione del lavoro a progetto sia sulla permanenza delle cause di sovraccosto orario del lavoro dipendente. Capisco e accetto che la pubblicistica giuridica sia infarcita di analisi de iure condendo; non condivido la confusione fra asserzione di politica del diritto con la quale orientare l’interpretazione della norma in un discorso fondato sui canoni scientifici e l’asserzione ideologica su ciò che più piace.
Prendo atto dei dati di costo riportati da Marazza, ma ritengo inutile la comparazione fra due fattori giuridicamente incommensurabili quali il lavoro subordinato e quello autonomo (ancorché a progetto). Il criterio di misurazione del rendimento che egli riporta ed utilizza è basato sul parametro del costo di un’ora di lavoro; però, trattandosi di due rapporti di lavoro strutturalmente diversi (autonomo l’uno, e subordinato l’altro) la cui differenza si basa (anche) sul piano della oggettivazione temporale della prestazione di lavoro, è giuridicamente possibile oggettivare e calcolare il costo del tempo di un lavoratore subordinato, non lo è per il lavoratore autonomo, non essendo previsto per questo un orario di lavoro. Non dobbiamo qui soffermarci troppo sulla prescrizione dell’art. 61, comma 1, del decreto 276 in base al quale il lavoro a progetto è svolto «senza vincolo di subordinazione» e «indipendentemente dal tempo impiegato». Questo non vuol dire che non è possibile calcolare economicamente il costo/rendimento orario anche di un lavoratore autonomo. Tuttavia, questo calcolo non è giuridicamente rilevante poiché, al più, si tratterà di un costo/rendimento dell’opera (opus) fornita, del progetto, programma o fase di esso realizzata. Non dirò altro sulla ben nota estraneità del criterio temporale nel lavoro a progetto, non solo rispetto alla determinazione della retribuzione ma anche della configurazione stessa della prestazione obbligatoria.
Per altro verso, e vengo alla questione di merito, la stessa argomentazione sul minor rendimento del lavoro dipendente si basa su alcuni istituti tipici del lavoro dipendente (per esempio, malattia, determinazione temporale della retribuzione). È evidente che questi elementi – come anche altri, fra cui il diritto di sciopero – possono costituire fattori di incidenza negativa sul rendimento, purché si distinguano le diverse ipotesi e si verifichi l’effettiva incidenza negativa. Penso, dunque, alla retribuzione e agli istituti di valorizzazione del rendimento collettivo (i premi di produzione e le variegate forme di salario variabile di risultato) e constato che ciò è pienamente presente nell’ordinamento giuridico fin dal 1993, quando il protocollo di quell’anno pose la politica dei redditi a base della competitività del Paese!
Poi penso al rapporto fra competitività e casi di sospensione del rapporto o della prestazione di lavoro, quali la malattia o il diritto allo studio o le ferie. Se consideriamo come rendimento la produzione complessiva di ciascun lavoratore, è evidente che – per esempio – se lavorassi per 1750 ore all’anno produrrei una quantità superiore di chi lavorasse per 1500 ore annue. Ma in questo caso il rendimento non è altro che sinonimo di quantità prodotta nell’unità di tempo. In tal caso, si dovrebbe affermare che tutti i casi di sospensione del lavoro determinano un rendimento negativo. Se invece il rendimento fosse calcolato come capacità produttiva nell’unità di tempo (per esempio, l’ora) tale rendimento resta inalterato anche se nel corso di un anno un lavoratore si fosse assentato complessivamente per due mesi.
Ma prima di tutto c’è da chiedersi se davvero la competitività del sistema economico nazionale (o europeo) debba passare per una diminuzione del livello di diritti e tutele dei lavoratori. Che gli assistenti di volo possano decidere di aggirare i vincoli alla disciplina dello sciopero ricorrendo a stati di malattia collettivi (com’è accaduto nella compagnia aerea di bandiera) è un fatto che si colloca all’interno della disciplina del conflitto collettivo ma che non inficia il principio di tutela della salute delle persone che lavorano: non vorrei che si confondesse l’uso consapevolmente patologico di un diritto con la sua efficacia fisiologica. Se il problema è la competitività del sistema, la domanda è: i diritti delle persone che lavorano diminuiscono la competitività del sistema economico?
Proprio dall’Inghilterra, Paese dalla tradizione culturale assai incline all’economismo, qualche hanno fa ci è arrivato uno studio su Il diritto del lavoro e la teoria economica (Deakin e Wilkinson in Giornale di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali del 1999) dal quale emerge che «se dobbiamo prendere sul serio i suggerimenti di un certo numero di teorie economiche, l’attenzione della politica deve allora cominciare a spostarsi lontano dalla deregolamentazione, per andare verso un quadro di legislazione del lavoro avendo in mente gli obiettivi di politica economica che si vogliono raggiungere… [cioè] abbandonare l’opposizione sterile a diritti ed efficienza ed esplorare più da vicino le complementarità fra diritto del lavoro e sviluppo economico». Sarebbe sbagliato negare che lo sviluppo storico del capitalismo e le sue attuali trasformazioni esigono un aggiornamento delle categorie giuridiche di rappresentazione e regolazione del mercato del lavoro di un’area geo-economica nella quale il diritto del lavoro è nato e ha garantito livelli di tutela alle persone che lavorano mai raggiunti prima nella storia. Tuttavia, la sfida della globalizzazione esige un nuovo catalogo di diritti tale da conservare e rafforzare le tutele del lavoro come espressione primaria del livello di sviluppo proprio della società europea. I giuristi sono parte di questo prodotto della dialettica storica che è il diritto del lavoro ma sono anche parte nella costruzione di un sempre più avanzato livello di progresso sociale. La competitività deve essere una cosa da prendere assai sul serio, tanto da non poter ancora una volta riproporre modelli teorici classici che danneggiano i lavoratori e la competitività stessa.