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Home - Rubriche - Giurisprudenza del lavoro - Discriminazione indiretta se ad essere licenziato è un lavoratore disabile

Discriminazione indiretta se ad essere licenziato è un lavoratore disabile

di Biagio Cartillone
21 Aprile 2023
in Giurisprudenza del lavoro
Licenziamenti individuali: quella legge del ’66

Un collaboratore subordinato dell’Amsa milanese è stato licenziato per essere stato assente per malattia per 375 giorni nell’arco dei 3 anni precedenti il suo nuovo ulteriore periodo morboso. Il licenziamento è stato intimato nel rigoroso rispetto delle previsioni del contratto collettivo del settore che disciplina il rapporto.

Il lavoratore ha impugnato licenziamento; il tribunale ha accolto la sua domanda ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro perché ha ritenuto sussistente una discriminazione diretta correlata alle condizioni di disabilità del lavoratore, riconosciuto portatore di handicap con capacità lavorativa ridotta del 75% ed inidoneo allo svolgimento di diverse mansioni sulla base degli accertamenti sanitari interni espletati dall’azienda. Il tribunale di Milano ha ritenuto sussistente la discriminazione perché il lavoratore era stato licenziato a ragione della sua malattia riconducibile alle condizioni di disabilità che gli impedivano di svolgere le mansioni a causa delle sue limitazioni.

La Corte di Appello di Milano, davanti alla quale l’azienda ha impugnato la sentenza, ha confermato la decisione del tribunale sulla nullità del licenziamento ma ha cambiato la motivazione: il licenziamento non era nullo per discriminazione diretta, che ha ritenuto insussistente, ma per discriminazione indiretta. Gli effetti della nullità del licenziamento, però, sono rimasti gli stessi.

La Corte di Appello ha configurato la discriminazione indiretta nel fatto che l’azienda, omettendo di considerare il grave quadro patologico del lavoratore, lo aveva licenziato per superamento del periodo di comporto applicando la normativa collettiva del settore, “trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE del 18/1/2018”.

La discriminazione indiretta per legge ricorre “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone “.
L’azienda ha proposto ricorso in Cassazione; la Corte suprema ha confermato la sentenza. Per la Suprema Corte la tutela contro le discriminazioni che hanno origine dalle condizioni di disabilità trova fondamento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nella convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.

Queste norme stabiliscono “un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione.”

Un lavoratore disabile rispetto ad un lavoratore non disabile è esposto ad u rischio ulteriore di malattia collegato al suo handicap, con la possibilità di accumulare maggiori giorni di assenza per malattia utili per il successivo licenziamento per superamento del periodo di comporto. Trattando le assenze per malattia del lavoratore disabile e del lavoratore non disabile nello stesso modo si ha la conseguenza di svantaggiare il lavoratore disabile con una disparità di trattamento indirettamente basata sul suo handicap.

Per la Cassazione “il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione”.

Per la Cassazione “Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.

Non si pone, quindi, una questione di mancato bilanciamento con la finalità di contrasto dell’eccessiva morbilità dannosa per le imprese: nella misura in cui la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva.

La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, invece, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE), secondo una prospettiva che non risulta percorsa in concreto nel caso in esame.” Cassazione civile sez. lav., 31/03/2023, (ud. 31/01/2023, dep. 31/03/2023), n.9095. Nel panorama della nostra contrattazione collettiva non vi è un solo contratto che preveda un periodo di comporto differenziato per il lavoratore affetto da handicap e il lavoratore privo di questo svantaggio.

Le parti collettive, come auspica la stessa Corte di Cassazione, prendendo atto del contenuto della sentenza e del quadro normativo esistente a livello internazionale ed europeo devono con immediatezza colmare questo vuoto prevedendo in modo esplicito una tutela maggiore per il lavoratore handicappato rispetto a chi non lo è dando così certezza alle aziende sulla corretta disciplina da applicare.

L’attuale vuoto normativo della contrattazione collettiva sicuramente rappresenta una fonte di danno per l’azienda perché crea grave incertezza e confusione dovendo interpretare la certificazione medica senza avere dei parametri sicuri di valutazione. Nell’attuale assetto normativo, prima di licenziare un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, occorre ponderare molto bene questa soluzione perché qualsiasi scelta rischia di apparire arbitraria ed essere foriera di guai giudiziari.

Biagio Cartillone

Biagio Cartillone

Biagio Cartillone

Avvocato, Giuslavorista del Foro di Milano - www.biagiocartillone.it

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