Il primo mese di pandemia non ha visto in Lombardia nessun vero rapporto tra parti sociali e regione. Gli imprenditori hanno teso solo a tenere aperte le fabbriche, la Regione ha dato loro ragione, i sindacati non sono stati sentiti che per varare la cassa integrazione. Elena Lattuada, segretaria generale della Cgil lombarda, non è contenta di quanto avvenuto, perché, afferma, si è creata una contraddizione forte sulla validità del lockdown e sulle regole da seguire. Per questo nel futuro le relazioni industriali dovranno cambiare, ma per partire davvero è necessario un accordo generale sulle direzioni di fondo della nostra economia.
Lattuada, come si sono svolte in Lombardia le relazioni industriali in questa terribile emergenza?
Male. L’unica cosa buona in queste settimane è stata la forte tenuta unitaria all’interno del sindacato.
E il rapporto con le controparti?
Il dialogo, specie con Confindustria Lombardia, che è la nostra controparte più forte, è stato molto complicato. Marco Bonometti, il presidente degli industriali lombardi, ha tenuto solo ad affermare che le fabbriche erano il luogo più sicuro, per cui non c’era motivo perché chiudessero.
Avete avuto difficoltà anche con la Regione?
Al netto del confronto sull’avvio della cassa integrazione in deroga, la Regione si è limitata a sostenere nei fatti l’autodeterminazione delle imprese lasciando che decidessero loro cosa doveva chiudere, cosa invece doveva restare aperto. Anche quando la Regione ha deliberato di chiudere tutte le attività poi ha fatto un accordo con Confindustria Lombardia per ribadire l’autodeterminazione di queste.
Ma il confronto c’è stato?
Noi siamo stati presenti in ogni tavolo in cui siamo stati invitati, abbiamo fatto accordi sulla cassa in deroga, in generale sugli ammortizzatori sociali, ma su tutto il resto non è stato possibile condividere alcunché. Tanto per fare un esempio, noi avevamo richiesto alla Regione un’ordinanza che stabilisse che la grande distribuzione dovesse restare ferma la domenica, ma questa non è mai arrivata, tanto che abbiamo dovuto risolvere con accordi con le singole catene di distribuzione. Ancora, avevamo chiesto una determinazione della Regione per cui si potessero vendere solo beni di prima necessità, farmaci, prodotti alimentari e poco altro, e invece è stata deliberata la libertà totale, al di fuori di qualsiasi codice Ateco. Nemmeno sulla sanità siamo riusciti a condividere nulla.
Il sindacato è rimasto unito?
Sì, per fortuna. Tutti uniti sulla linea per cui la salute è più importante dell’attività produttiva. Se si vuole usare un vecchio slogan, per noi vale più la vita del profitto.
Adesso l’attenzione è al momento della riapertura delle fabbriche.
Mi viene da sorridere pensando che sono state autorizzate a continuare la produzione ben 17mila imprese. In realtà una vera chiusura non c’è mai stata. E questo provoca dei problemi, perché non è chiaro perché certe regole valgano ovunque, ma non in fabbrica. E invece ci si può ammalare negli ospedali, ma anche in fabbrica. La regola della distanza di un metro e dell’obbligo di mascherina deve valere sempre, non solo in alcuni casi.
Ma non si può stare chiusi per sei mesi.
Certamente no, ma questa è una contraddizione che non può riguardare solo alcuni e altri no, e tanto più questo problema sarà urgente quando riprenderà la produzione. Perché è chiaro che non si può andare avanti solo con lo smart working. E allora è questo il momento per compiere delle scelte di fondo.
Quali scelte ci attendono?
Dobbiamo capire quale assetto economico deve avere il nostro paese. Per anni abbiamo puntato tutto sul manifatturiero, poi abbiamo iniziato a capire che era nostro interesse puntare su altri comparti economici, sul turismo, sui servizi culturali, ma è evidente che al momento è difficile credere che possano riaprire a breve impianti turistici o culturali. Questo però cosa significa, che siamo destinati a ridare centralità solo al manifatturiero?
E’ un problema di modelli di sviluppo.
E per questo è necessario capire quale è la posta in gioco. Il sostegno all’economia non può basarsi solo sul fatto che si riaprono le produzioni del manifatturiero Serve un quadro preciso dei problemi da affrontare. Per esempio, è necessario approfondire il tema dell’universalità dei servizi essenziali, delle protezioni che devono essere assicurate. Il sistema sanitario della Lombardia era certamente eccellente, doveva reggere, ed è stato così fino a una settimana fa, adesso la realtà comincia a mostrare pericolosi scricchiolii. Abbiamo visto le inchieste su come hanno lavorato gli ospedali, le denunce dei medici di base.
Il sindacato ha sempre denunciato alcune difficoltà.
Per questo ho la coscienza a posto. Per anni abbiamo affermato che la centralità e l’universalità del sistema sanitario non poteva essere delegato alle regioni. Perché servono investimenti, ricerca, non solo nelle grandi strutture, ma lavorando tutti assieme. Ma non è stato così. Anche nella pandemia, gli ospedali privati sono arrivati ad affiancare quelli pubblici, è vero, ma lo hanno fatto con 15 giorni di ritardo.
Adesso è necessario guardare al futuro, capire dove dirigere le relazioni industriali.
Non è facile, perché i rapporti tra noi e le controparti cambieranno, credo profondamente. Dobbiamo per prima cosa prendere atto che il paese ha dimostrato di essere più diligente di come ci si poteva aspettare. Ha rispettato le regole, ha riconosciuto le autorità. In questo quadro credo sia possibile immaginare per il futuro una collaborazione con le associazioni di imprese se però dimostriamo tutti di essere in grado di condividere a priori in quale direzione vogliamo andare. Se riuscissimo a condividere gli obiettivi di fondo si potrebbe recuperare un’idea comune di paese. Ma per farlo, ripeto, dobbiamo condividere gli obiettivi di fondo.
Ci si può riuscire?
Credo proprio di sì. Ma dobbiamo definire assieme gli assi di cambiamento e sviluppo da seguire in questa ricostruzione. Questa terribile esperienza che abbiamo vissuto ci ha insegnato che gli obiettivi di fondo che devono guidare la nostra azione non possono essere quelli di prima. Può essere che tra 4 o 5 mesi ci saremo scordati tutto e torneremo a essere quelli di prima o invece possiamo prendere atto di quello che questa pandemia ci ha insegnato. Io credo proprio che non possiamo tornare a essere quelli di prima.
Massimo Mascini


























