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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Esiste un “Modello Fiat”?

Esiste un “Modello Fiat”?

di Massimo Mascini
4 Giugno 2015
in L'Editoriale

Esistono due linee di tendenza nel mondo delle relazioni industriali e questa mattina si sono scontrate nel Parlamentino del Cnel, dove era in corso la presentazione di un libro di Paolo Rebaudengo. Questi è stato per molti anni responsabile delle relazioni industriali in Fiat, quando ancora non si chiamava Fca, e recentemente ha scritto un bel libro per Il Mulino, “Nuove regole in fabbrica”, nel quale ha descritto l’avventura dell’accordo per Pomigliano, di quelli che l’hanno seguito e dell’uscita dell’azienda da Confindustria. Questa l’occasione. A contendere erano Maurizio Sacconi e Cesare Damiano, presidenti delle Commissioni Lavoro rispettivamente al Senato e alla Camera dei deputati, tutti e due ex ministri del Lavoro, uno di centrodestra, l’altro di centrosinistra. Era fatale che si scontrassero. Il che è avvenuto, poi, fino a un certo punto.

Rebaudengo ha detto una cosa importante. A suo avviso le relazioni industriali non devono essere ideologiche e, infatti, la rivoluzione nelle relazioni industriali fatta dalla Fiat dall’accordo di Pomigliano in poi non è stata il frutto di una decisione ben orchestrata fin dall’inizio, è venuta dai fatti. Perché la Fiat aveva un problema, aveva uno stabilimento, quello di Pomigliano, 5.000 lavoratori diretti, che in realtà, come ha detto lui, “non stava in piedi”, era nelle stesse condizioni dello stabilimento di Termini Imerese, che infatti è stato chiuso.

La Fiat però non voleva chiudere anche questo stabilimento e per questo ha deciso di spostare lì la produzione della Panda dalla Polonia, una decisione sofferta perché lo stabilimento funzionava e si sarebbero dovuti licenziare 1.500 lavoratori. Ma a Pomigliano serviva flessibilità aggiuntiva e così si è cominciato a negoziare e piano piano si è arrivati a nuove regole, fino all’uscita da Confindustria e al contratto di gruppo. Ma nulla di preordinato, nulla di ideologico. Diverso il caso sia di Damiano che di Sacconi.

Damiano ha chiarito subito che l’ideologia a suo avviso è una cosa positiva, se è un contenitore di valori, anzi, è essenziale. E poi ha spiegato le sue ragioni. Ha detto di non essere favorevole a un contratto su misura. Se si vuole accompagnare un processo di rinnovamento delle relazioni industriali, questo deve avvenire su regole generali o le troppe deroghe portano dumping sociale, a tutto danno dei lavoratori. Ugualmente non condivide l’azione del governo Renzi  che ha rinunciato alla concertazione e più in generale all’ascolto delle parti sociali, perché in questo modo a suo avviso si indeboliscono i corpi intermedi e questo è controproducente, per l’efficienza dell’apparato produttivo oltre che per la democrazia. Allo stesso modo, anche l’uscita di Fiat da Confindustria, a suo avviso, è un fatto negativo perché ha indebolito la rappresentanza imprenditoriale.

Diverso invece il problema che aveva Marchionne, ma che hanno le imprese in generale, quello di veder assicurata l’esigibilità degli accordi firmati. Ma questo risultato, secondo Damiano, si può cogliere con le regole che Confndustria e sindacati si sono dati, per le quali alle trattative partecipano i sindacati che raccolgono almeno il 5% della rappresentatività e gli accordi valgono erga omnes se votati dal 50% più uno  dei lavoratori o dalla maggioranza delle rappresentanze. Allo stesso modo si deve pensare a sanzioni verso chi non ottempera agli accordi approvati a maggioranza, ma solo verso le organizzazioni, non verso i lavoratori.

Sacconi invece si è scagliato contro quella che ha chiamato la “rigidità centralistica”, perché a suo avviso è meglio lasciare libertà di azione alle parti sociali. La rigidità centralistica, ha ricordato, fu praticata e fu utile quando si combatté l’inflazione con l’accordo del 1984, quello di San Valentino sui punti di scala mobile, poi fu codificata con l’accordo del 1993, ma già allora era superata. Il gioco delle parti sociali, ha detto infatti, non deve essere mai bloccato o la realtà delle relazioni industriali non evolverà mai. E proprio per questo il presidente della Commissione Lavoro del Senato ha sostenuto la validità dell’articolo 8 della legge dell’agosto del 2011, quello ripudiato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil. Quell’articolo infatti prevedeva la possibilità di superare il dettato di contratti e anche di disposizioni legislative con un accordo tra le parti in azienda (o nel territorio), se supportato dal consenso certificato dei lavoratori e diretto a obiettivi di carattere sociale ed economico.

L’articolo 8, ha ribadito Sacconi, è vivo, anche se poco citato negli accordi a causa di quel ripudio dovuto, a suo avviso, al fatto che quell’articolo fu visto subito da Cisl, Uil e da parte imprenditoriale come lo strumento per ridurre la portata dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello sui licenziamenti. A suo avviso infatti non si dovrebbe mai cercare di imbrigliare la vitalità della contrattazione, ma al contrario si dovrebbe sostenere la capacità di esprimerla.

Una visione del tutto lontana da quella di Damiano, anche se tutti e due sostengono la necessità di alimentare la voglia di contrattare, ma l’uno vuole farlo all’interno di regole precise, l’altro vuole lasciare mano libera alle parti quanto più è possibile. E infatti, non a caso, si sono divisi anche in merito alla possibilità di una legge sulla contrattazione. Per Damiano dovrebbe essere solo una legge di sostegno delle regole già stabilite dalle parti sociali, per Sacconi deve lasciare il massimo di libertà. Lo stesso per l’ipotesi di un salario minimo stabilito per legge: Damiano pensa debba valere solo per i lavoratori non contrattualizzati, Sacconi osserva che i minimi contrattuali coprono il 90% dei salari di fatto e questo lascia troppo poco spazio al salario di produttività.

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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