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Home - Approfondimenti - La nota - Ex-Ilva, in attesa del 30 novembre, i sindacati chiamano il Governo

Ex-Ilva, in attesa del 30 novembre, i sindacati chiamano il Governo

di Fernando Liuzzi
25 Novembre 2020
in La nota
Ex-Ilva, in attesa del 30 novembre, i sindacati chiamano il Governo

Oggi due ore di sciopero in tutti gli stabilimenti di ArcelorMittal Italia. Sciopero proclamato dai sindacati confederali dei metalmeccanici: Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil.

In contemporanea, i Segretari generali delle tre organizzazioni hanno tenuto una conferenza stampa  presso la sede nazionale che condividono al n. 36 di corso Trieste, a Roma. Scopo convergente delle due iniziative, quello di inviare un messaggio al Governo: il sindacato, che rappresenta i circa 12.500 lavoratori della ex Ilva, non accetta di essere nuovamente tagliato fuori nel momento in cui il Governo stesso, assieme all’azienda acquirente, si accinge ad assumere decisioni che segneranno il futuro del più grande stabilimento siderurgico del nostro Paese e, con esso, della siderurgia italiana

Come è noto, infatti, l’ormai vicinissimo 30 novembre è l’ultimo giorno in cui ArcelorMittal Italia può esercitare il recesso dal contratto di affitto di ramo d’azienda finalizzato al suo acquisto dovendo pagare una penale di “soli” 500 milioni di euro.

Come è anche noto, questa data e questa cifra, assai modesta se si pensa sia alle dimensioni del compratore – ArcelorMittal è il più grande gruppo siderurgico privato del mondo -, che alle proporzioni dell’oggetto della compravendita – lo stabilimento di Taranto è la più grande acciaieria dell’intera Europa -, sono il frutto di un accordo raggiunto il 4 marzo scorso presso il Tribunale di Milano. Accordo che vide a protagonisti – al termine di un contenzioso legale avviatosi nel 2019 in seguito alla cancellazione del cosiddetto scudo penale esteso in precedenza dai Commissari straordinari ai dirigenti dell’azienda acquirente – da un lato il Governo, in quanto proprietario del gruppo passato anni fa in Amministrazione controllata, e, dall’altra, la stessa azienda acquirente, ovvero, appunto, il colosso franco-indiano ArcelorMittal.

Ebbene, questo è uno dei problemi che sono stati sollevati oggi da Francesca Re David (Fiom), Roberto Benaglia (Fim) e Rocco Palombella (Uilm). Il 6 settembre del 2018 i sindacati hanno firmato col Governo e con l’azienda acquirente un accordo che ha fissato i piani e i programmi in base a cui il gruppo siderurgico sarebbe dovuto tornare a una piena operatività dopo sei anni dal sequestro dello stabilimento di Taranto. Sequestro che fu effettuato dalla locale Procura della Repubblica, per problemi di inquinamento ambientale, ai primi di agosto del 2012.

I sindacati stessi si ritengono dunque obbligati a rispettare quell’accordo e a quello si sentono legati. Non si sentono invece legati alle intese intervenute in Tribunale tra Governo e AM Italia.

Ora va detto che tali intese, indipendentemente dal fatto che avessero tagliato fuori i sindacati, erano comunque solo intese parziali. Ovvero, intese che, per diventare operative, avevano bisogno di essere fortemente implementate. In particolare, la grande novità dell’accordo del 4 marzo – accordo in base al quale le due parti rinunciavano a proseguire il contenzioso legale che le aveva viste contrapposte – consisteva nel fatto che veniva ipotizzato l’ingresso della mano pubblica nel capitale di ArcelorMittal Italia. Mano pubblica che, nell’occasione, doveva essere rappresentata da Invitalia. E cioè da quell’Agenzia nazionale “per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa”, partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia, che era ed è tutt’ora guidata dall’allora quasi sconosciuto, ma oggi notissimo, Domenico Arcuri.

Ora è evidente che tale ipotesi, delineata contemporaneamente a una flessione della domanda mondiale d’acciaio, e al permanere di problematiche ambientali ancora irrisolte, veniva a impattare sulle precedenti prospettive industriali di AM Italia. E ciò tanto più in quanto venivano avanti nuove ipotesi di una qualche conversione tecnologica dell’impianto tarantino. Ipotesi relative non solo al classico risanamento del sito, ma all’introduzione, almeno parziale, di tecnologie meno inquinanti. Si trattava dunque, da un lato, di immaginare una nuova governance della futura impresa a capitale misto e, dall’altra, di rivedere sia il piano industriale che quello ambientale.

Ebbene, negli otto mesi e passa che ci separano dall’accordo del 4 marzo, mesi in cui l’emergenza pandemica ha ridotto moltissimo per i sindacati sia la possibilità  concreta di mobilitare i lavoratori, sia quella di conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica e, quindi, di farsi sentire da parte di Governo e Azienda, è stato tutto un alternarsi di notizie contrastanti. Un giorno un analista dava per certa l’intenzione di ArcelorMittal di sganciarsi dall’avventura intrapresa in terra italiana. Un altro giorno un’incauta dichiarazione di qualche Ministro lasciava intendere che gli stessi poteri pubblici fossero decisi a chiudere l’area a caldo del sito tarantino e quindi, in pratica, il sito stesso. Mentre, nei tempi più recenti, tutto pareva sospeso in attesa che un’accurata analisi pervenisse a fissare l’attuale valore delle proprietà di ArcelorMittal Italia e, quindi, consentisse alle parti di cominciare a concretizzare i contorni finanziari di una possibile intesa.

Tra ieri e oggi, valenti giornaliste, come Gilda Ferrari del Secolo XIX e Giusy Franzese del Messaggero, hanno dato, anche se con qualche differenza, la notizia più sostanziosa. Notizia secondo cui le parti trattanti avrebbero raggiunto un accordo in base al quale, almeno inizialmente, ArcelorMittal Italia e Invitalia entreranno nella nuova società detenendone ciascuna il 50%.

Ed ecco dunque le iniziative sindacali di oggi. “Noi non scegliamo né le imprese, né gli Amministratori delegati”, ha detto Francesca Re David, Segretaria generale della Fiom. Mentre il suo collega della Uilm, Rocco Palombella, aveva affermato, in precedenza, che i sindacati non si sentono “vincolati” da accordi da loro non sottoscritti e che ciò che loro interessa è “il piano industriale”.

Insomma, al di là degli accordi sulla partecipazione, almeno inizialmente paritaria, dei due soggetti, quello pubblico, italiano e quello privato, multinazionale, alla proprietà della nuova società e sulla struttura della governance che dovrà capitanarla, i sindacati vogliono poter discutere di tre cose: il nuovo piano industriale; il nuovo, conseguente, piano ambientale; e, infine, se non prima di tutto, il piano occupazionale.

I sindacati hanno cioè sottolineato che l’accordo del settembre 2018, negoziato oltre che col Governo con una grande impresa privata, ArcelorMittal, non prevedeva esuberi di sorta. Infatti, era specificato che oltre ai 10.700 lavoratori direttamente assunti in ArcelorMittal InvestCo, poi divenuta ArcelorMittal Italia, nessun altro ex dipendente Ilva avrebbe avuto davanti a sé un destino incerto. Infatti, quelli dei 1.700 lavoratori ancora in forza a Ilva in Amministrazione straordinaria che a fine 2023 non avessero trovato un’altra collocazione, sarebbero stati riassorbiti dalla stessa AMI. Sarebbe quindi tanto più paradossale se, adesso che la proprietà della nuova società dovrebbe essere pubblica almeno al 50%, i sindacati dovessero trovarsi davanti a nuove eventuali dichiarazioni di esubero.

Ma dire No a eventuali esuberi non basta ai sindacati. Che hanno detto No anche a qualsiasi ipotesi di allungamento della Cassa integrazione. Un timore, questo, collegato all’altra ipotesi secondo cui i tempi di realizzazione del piano industriale slitterebbero dal 2023 al 2025. Ebbene, hanno sottolineato i sindacati, non si può chiedere a un lavoratore – tanto più, aggiungiamo noi, se dotato di un’alta formazione professionale – di vivere per anni con i redditi modesti della Cig.

Il Segretario generale della Cisl, Roberto Benaglia, ha poi detto che nell’incontro “informale ma non segreto” che i tre leaders dei metalmeccanici hanno avuto ieri con l’Amministratore delegato di AMI, Lucia Morselli, è emerso che quest’anno la produzione dello stabilimento di Taranto si fermerà  a poco più di 3 milioni di tonnellate di acciaio, ovvero circa la metà degli obiettivi iniziali fissati con l’accordo del 2018, pari a 6 milioni di tonnellate.

Servono dunque investimenti robusti indirizzati verso tre obiettivi: riprendere la manutenzione ordinaria, che ha sofferto molto negli anni dell’amministrazione straordinaria; avviare una transizione tecnologica verso obiettivi green, che possano usufruire dei finanziamenti previsti dal programma Next Generation EU; concludere il risanamento ambientale, sanando i danni provocati dal pregresso inquinamento.

La conferenza stampa è stata tenuta a Roma, nella sala dedicata a Angelo Airoldi, ma è stata seguita su Internet da giornalisti collegati anche da Genova, Bari e Taranto, oltre che dai presidi allestiti dagli scioperanti fuori da diversi stabilimenti. Oltre l’epidemia di Covid 19, che prima o poi, si spera, passerà, l’attenzione di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie è concentrata sul 30 novembre. Quel giorno, con ogni probabilità, una storia si chiuderà. Ma non sono ancora chiari i contorni di quella che si aprirà.

 

@Fernando_Liuzzi

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