La prima notizia sulla morte di Federico Aldrovandi la lessi su un giornale locale il 26 o 27 settembre 2005, all’inizio del mio secondo mandato da sindaco di Ferrara. Il giornale diceva, senza molti particolari, che in zona Via Aeroporto, all’alba, era morto un giovane tossicodipendente per overdose. Una notizia triste che ogni tanto si ripete in ciascuna delle nostre città. Quelli che abitavano lì avevano sentito un ragazzo che urlava, avevano chiamato la polizia ma il ragazzo era morto.
Ferrara è una città di medie dimensioni dove le notizie circolano e, se c’è un buon rapporto con i cittadini, arrivano anche in Comune. Passano un paio di giorni, viene da me la mia capo di gabinetto e mi dice che il suo compagno che lavorava nel SerT (Servizio regionale tossicodipendenza) esclude che Federico Aldrovandi fosse un tossico. Restiamo perplessi: possibile che un giornale locale faccia un errore del genere? Ma la notizia viene ripetuta uguale per un paio di giorni.
Poi il mio vice sindaco mi viene a parlare e mi dice che il parroco della Chiesa vicina al luogo della morte di Federico ha ricevuto una confessione che parla di tutt’altro. Lui non può dirci nulla, per “segreto confessionale”, ma le cose non sono andate come dicono i giornali. Ultimo messaggio di quei primissimi giorni arriva dal pronto soccorso dell’Ospedale Sant’Anna. Gli infermieri ci informano di una stranezza: “sono venuti 4 poliziotti a farsi medicare per ferite ricevute ma non avevano nessuna ferita vera, solo qualche escoriazione alle mani”. D’altra parte il 118, arrivato sul posto, trova Federico ammanettato dietro la schiena già morto per arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale.
Nei giorni successivi iniziano a girare le notizie più strane, ma purtroppo vere. Quella mattina il questore non era in città. Qualcuno dalla Questura ha detto alla magistrata di turno che non c’era bisogno andasse sul posto a verificare l’accaduto e lei non c’era andata. La famiglia di Federico è stata informata da un poliziotto (amico di famiglia) solo 5 ore dopo la morte del figlio.
Quando Patrizia, la mamma di Federico che lavorava in Comune in un ufficio a 10 metri dal mio, un mese dopo, mi ha mostrato la foto della testa del ragazzo appoggiata a terra e circondata da una pozza di sangue, abbiamo avuto la conferma di quante menzogne erano state dette dagli organi di stampa, su indicazione (verosimilmente) della Polizia e delle autorità di pubblica sicurezza.
Con Tiziano Tagliani, il mio vicesindaco, andammo a parlare con il Prefetto e il Procuratore capo della Repubblica, chiedendo loro di avviare indagini serie sull’accaduto. Ci risposero che avrebbero fatto indagini “senza guardare in faccia nessuno”. Ma così non fu. Tant’è che quando in un discorso pubblico io dissi che come sindaco e come Municipio di Ferrara eravamo accanto alla famiglia a chiedere “verità” sulla “morte violenta” di Federico, il Prefetto e il Questore si alzarono e uscirono dalla sala.
Molti altri particolari inquietanti mi fecero capire che si era determinata una sorta di “solidarietà”, seppure basata su una realtà distorta, tra le istituzioni cittadine e che il Comune era l’unico soggetto a non aver accettato questo atteggiamento omertoso. Un atteggiamento tanto diffuso che persino il Vescovo, in quei mesi, non accettò mai di incontrare la famiglia Aldrovandi.
La vicenda si sbloccò grazie alla determinazione del papà e della mamma di Federico e dei loro avvocati. E anche grazie alla nomina di Giuliano Amato a ministro dell’interno nel 2006: ricordo che venne in visita a Ferrara e ricevette la famiglia Aldrovandi in Prefettura. Poi nominò un nuovo Questore e dichiarò pubblicamente che, per il bene di tutti, il processo doveva proseguire fino a conclusione; come poi avvenne, con la condanna dei 4 poliziotti alla fine dell’iter giudiziario per “omicidio colposo con eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”.
Gaetano Sateriale

























