Dopo il danno, la beffa. Prima l’inflazione ci ha reso tutti più poveri. Poi, su quel reddito smagrito si è abbattuto il fisco: neanche fossimo Pinocchio, il Gatto e la Volpe (diciamo governo e agenzia delle entrate), mentre ci cullavano con l’assicurazione di una riforma che avrebbe alleggerito le tasse, ci scucivano dalle tasche più soldi di prima. E, grazie a questa sorta di gioco delle tre carte potevano poi gloriarsi, davanti all’illustre uditorio delle agenzie di rating e della finanza mondiale, di conti pubblici sereni e risanati. Improbabile, purtroppo, che Giorgia Meloni si ripresenti con un video social per specificare che, in realtà, la celebrata discesa dello spread e il solido bilancio magnificati nella puntata precedente sono, in buona misura, il frutto di un gettito extra tenuto sotto coperta. Tutt’altro che spiccioli: dal Covid in poi, 21 miliardi di euro imprevisti. Un tesoretto che ha tenuto in piedi tutte le ultime Finanziarie, riempiendo più di un terzo dei buchi di spesa pubblica: così, verrebbe da dire, son capaci tutti. Anche a promettere di abbassarle le tasse. Invece, gli impegni e le promesse su cui il governo gioca la propria credibilità elettorale suonano false e fasulle.
I conti li ha fatti un organismo indipendente e imparziale come l’Ufficio parlamentare del bilancio. E il fenomeno non è affatto misterioso, del resto, anche se era stato dimenticato, nel lungo periodo di inflazione zero. Il fiscal drag, infatti, è direttamente legato all’inflazione. Quando salgono i prezzi, salgono anche le parcelle dei lavoratori autonomi, le pensioni indicizzate, i salari contrattuali, proprio per recuperare l’inflazione. In termini reali (al netto, cioè, dell’inflazione) succede, in realtà, assai poco. Più o meno, i redditi restano quelli di prima. Ma le cifre scritte sulla busta paga sono cresciute e incappano in aliquote Irpef più alte. Il risultato è la tosatura dei redditi reali. E quando, in due anni, come dopo il Covid, l’inflazione schizza verso l’alto del 15 per cento, la tosatura è crudele.
E continuiamo a pagare di più. Con una inflazione al 2 per cento, stima l’Upb, l’Irpef pagata dai contribuenti, grazie solo allo scivolamento, via fiscal drag, verso lo scaglione più alto , è cresciuta nel 2023, di 3,26 miliardi, contro i 2,89 miliardi incassati, per lo stesso processo, l’anno prima. Mezzo miliardo in più, senza toccare neanche un codicillo o una direttiva. Ma c’è di peggio, perché si svuotano anche le promesse fiscali, strombazzate a dritta e manca dal governo. Con l’inflazione all’1,5 per cento che la Banca d’Italia prevede per quest’anno, il fiscal drag risucchierà 2,45 miliardi di euro, ovvero quasi metà dei 4,74 miliardi di risparmi Irpef che dovevano scaturire per i contribuenti dalla riduzione dell’imposta da 4 a 3 aliquote.
Li hanno fatti i calcoli dell’Upb al Tesoro? O è un miracolo inconfessato anche a se stessi? Il dubbio se questa galleria degli orrori politico-tributari sia frutto di consumata astuzia o di imperdonabile incompetenza viene, se si passa al successivo capitolo delle promesse fiscali del governo: il miracoloso taglio del cuneo fiscale. I meccanismi, spiega l’Upb, sono tali per cui, in realtà, il mancato ricalcolo (per tener conto dell’inflazione) di detrazioni e deduzioni fiscali sulle buste paga fa sì che il fiscal drag incrudelisca su operai e impiegati, più di quanto pesi su pensionati ed autonomi.
Nel 2022, il drenaggio fiscale aggravava, in media, dell’1,32 per cento il conto Irpef del pensionato, dello 0,61 per cento quello dell’autonomo, 1,69 per cento l’impiegato, 3,17 per cento l’operaio, il più penalizzato di tutti. Poi, il governo, dopo numerosi interventi – dalla flat tax in giù – a favore degli autonomi, tende la mano ai lavoratori dipendenti, rendendo permanente, con una manovra su deduzioni e detrazioni, il taglio del cuneo fra stipendio lordo e netto. Risultato? Per pensionati e autonomi, estranei al cuneo fiscale, il drenaggio fiscale pesa naturalmente come prima. Per i dipendenti, grazie alla riforma, paradossalmente molto di più. Per l’impiegato, l’effetto delle nuove norme fa salire l’effetto fiscal drag dall’1,69 al 2,31 per cento di maggiore imposta. Per l’operaio, il salto è da un’Irpef appesantita del 3,17 per cento ad un Irpef più alta del 5,54 per cento. Altro che rilancio dei consumi, tosando i redditi si riduce anche la speranza che più domanda rilanci l’economia.
Una sorta di Waterloo per la narrazione politica su cui il governo insisteva da settimane. E un’accusa, velata quanto clamorosa, di incompetenza o di doppiezza da parte dell’Ufficio parlamentare del Bilancio, che il garbo della diplomazia fa fatica a dissimulare: se si vuol intervenire sui redditi più bassi con misure fiscali, piuttosto che con la spesa diretta, recita il rapporto dell’Upb, “bisogna prestare particolare attenzione al loro disegno e alle caratteristiche che ne derivano”. Raramente si era vista una bocciatura più sonora della riforma-vetrina di una maggioranza.
Maurizio Ricci