(Dedicata al ragazzo che ha subito una grave menomazione nello stabilimento Giovanni Rana di Moretta)
Non è ancora morto,
ma gli hanno tolto il gesto.
Tre dita, evaporate
nell’alveo di un ingranaggio sazio.
Il sangue non è scandalo,
è parte del processo.
Qui, dove l’acciaio ha memoria lunga
ma non riconosce i nomi.
Lui sta in piedi,
con una mano dimezzata
e l’altra che stringe
l’aria come un testamento.
Non è un errore
se il corpo cede,
è la natura del disegno
che chiamiamo impresa.
Il contratto gli abita la pelle,
grigio come polvere industriale.
Nessuno lo vede:
non ha cravatta, non ha quota,
non ha voce.
Una macchina ha fame —
e ogni turno è un’offerta.
Non c’è angelo che risponda
tra gli scaffali del profitto.
Cammina ancora,
con il vuoto che pulsa nella tasca.
Il gesto interrotto
non è silenzio ma frastuono.
C’è un sole che non lo scalda,
c’è un cielo che non lo guarda.
Ma lui è ancora qui,
superstite della carne a noleggio.
E nella mano che resta
cresce, feroce,
un seme senza padrone.
(nell’ombra di una fabbrica, tra i resti di una mano)
Ho scritto questa poesia con le mani tremanti e l’anima irrigidita, come se ogni verso fosse un pezzo di metallo, come se ogni parola dovesse ricompensare, almeno per un istante, ciò che è stato tolto: un gesto, una dignità, un corpo che ora deve reimparare a toccare il mondo. L’ho scritta perché non sopporto l’indifferenza di chi guarda altrove, mentre un ragazzo perde tre dita in una fabbrica che non si ferma. L’ho scritta perché non sembra una guerra, ma lo è. Una guerra silenziosa, quotidiana, con armi fatte di orari infiniti, stipendi fragili, macchinari voraci, e contratti che non hanno volto né voce. So bene cosa vuol dire il dolore del lavoro svenduto, la carne che viene prima del diritto, la fame che tace perché è abituata. E questo ragazzo, così giovane, così invisibile, è tutti noi; è il corpo offerto al Minotauro della produzione, è il sacrificio che nessuno vede perché succede ogni giorno. Scrivo con la rabbia e con l’amore: la rabbia per un sistema che consuma vite come se fossero materiali di scarto; l’amore per chi, anche spezzato, non si lascia spegnere. Questa poesia è per lui, ma anche per tutte le mani che non contano e che pure, ogni giorno, reggono il peso del mondo.
Yuleisy Cruz Lezcano