A volte la postura e i silenzi sono più eloquenti e fragorosi delle dichiarazioni roboanti. Ed è innegabile che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia non abbiano festeggiato al pari di Antonio Tajani e di Matteo Salvini, il “sì” definitivo all’approvazione della riforma della giustizia pronunciato dal Senato giovedì 30 ottobre. La ragione sta nei libri di storia. Sta in ciò che avvenne il 4 dicembre del 2016 quando Matteo Renzi, inebriato da due anni a palazzo Chigi e dal 40,8% incassato dal suo Pd alle elezioni europee del 2014, gonfiò il petto e fece il gradasso: “Se perdo il referendum costituzionale, lascio la politica”. Gli andò male. L’ex rottamatore fu sconfitto e qualche giorno dopo abbandonò palazzo Chigi. Esattamente la fine che Meloni non vuole fare.
Ebbene, per evitare questo tragico epilogo in occasione del referendum confermativo previsto nella prossima primavera – una partita secca tra “sì” e “no” dove non entrerà in gioco l’astensione – la premier ha deciso di tracciare una linea tra lei e la consultazione. Ha studiato una strategia per tenere ben distinto il suo destino da quello della riforma della giustizia: niente politicizzazione e personalizzazione della campagna referendaria e, questa è la novità, una presa di distanze, una sorta di disconoscimento, di quella che fino a qualche settimana fa definitiva “una svolta storica”.
Per evitare la politicizzazione e dunque scongiurare che il referendum di primavera si trasformi in un plebiscito pro o contro di lei e il suo governo, Meloni da mesi ripete: “Se la riforma della giustizia non dovesse passare, non mi dimetterò. L’esecutivo non c’entra”. Un concetto ribadito dal presidente del Senato, Ignazio La Russa: “Giorgia è assolutamente contraria a legare il proprio consenso a un referendum, di qualunque tipo. Il referendum sarà sulla materia, non sul governo né sulla magistratura. Il governo andrà avanti comunque”. E dal braccio destro della premier, Giovanni Donzelli: “Noi non chiederemo mai un voto agli italiani sulla Meloni, noi al referendum chiederemo agli italiani, anche a quelli che hanno in antipatia Meloni o me, di valutare se la giustizia va bene così com’è o va riformata. Il voto su Meloni e sull’esecutivo lo chiederemo alle elezioni politiche nel 2027”. Sulla stessa linea il Guardasigilli, Carlo Nordio: “Spero che il referendum non venga politicizzato, in ogni caso non sarà un voto sul governo”.
Vero. Ma è anche vero che la separazione delle carriere è stata partorita da palazzo Chigi ed è stata portata avanti a tappe forzate dall’intera maggioranza. Dunque in caso di sconfitta, di vittoria del “no” al referendum confermativo, sarà difficile che non ci siano forti ripercussioni politiche. Anche perché Elly Schlein, Giuseppe Conte e l’intero Campo largo faranno di tutto per politicizzare e polarizzare lo scontro da qui al voto. Emblematici al riguardo i cartelli esposti dalle opposizioni nell’aula del Senato, al momento del varo definitivo della riforma costituzionale: “No ai pieni poteri”. Il leit motiv del Pd e compagni, insomma, è già deciso: se passa la separazione delle carriere, gli spazi di libertà verranno compressi. Basterà questo allarme democratico a saldare una maggioranza contraria a Meloni?
Chissà. Nel frattempo proprio Renzi, uno che come si è visto della materia se ne intende, è corso a dire: “Se perde la consultazione Meloni sarà costretta ad andare a casa. Andare al voto su un testo scritto e approvato dal governo è come chiedere la fiducia agli italiani”.
Vero anche questo. Ma, come dice a “Il Diario” il sondaggista Antonio Noto, “visto che né Salvini, né Tajani vorranno andare a elezioni, perciò in caso di sconfitta una crisi è da escludere: si blinderebbero tutti assieme al governo”.
Probabile. Però, tra vedere e non vedere, Meloni per prudenza ha stabilito di procedere a un passo ulteriore. Ha deciso di nascondere la “maternità”, appunto, della riforma appena approvata. Non lo farà in modo clamoroso. Non dirà che è brutta e cattiva. Anzi. Lo slogan è già scritto: “La separazione delle carriere renderà migliore la giustizia. E’ una novità utile ai cittadini e i cittadini la sosterranno”. Però, allo stesso tempo, eviterà di metterci la faccia.
La dimostrazione è arrivata la settimana scorsa, quando il presidente del Senato Ignazio La Russa ha scavato un solco tra Fratelli d’Italia e la riforma: “Forse il gioco non valeva la candela, io sono sempre stato per la separazione delle funzioni, non delle carriere…”.
Il motivo di questa strategia sta nei sondaggi segreti. Quelli che la premier ha commissionato e le hanno fatto venire i brividi. Gli stessi che spingono Nordio a parlare dell’esito della consultazione come di un “terno a lotto”. “Per ora i no e i sì alla riforma sono alla pari, ma se il voto si polarizza e si politicizza, è molto probabile che prevarranno i no. Meloni, infatti, non ha dalla sua la maggioranza degli elettori”, conferma il sondaggista Noto.
Da qui la decisione della premier di procedere, appunto, con la strategia del disconoscimento. L’imperativo: evitare che la consultazione si trasformi in un test pro o contro di lei. L’ordine di scuderia agli esponenti di Fratelli d’Italia: esporsi il meno possibile. A maggior ragione perché la separazione delle carriere non è mai stata la bandiera di Meloni & Co.
In base a questa strategia, la campagna referendaria non verrà “politicizzata”. Non saranno coinvolti parlamentari nei comitati e i testimonial saranno ex magistrati come Antonio Di Pietro, avvocati e vittime di “malagiustizia”. C’è chi giura che il centrodestra cercherà di cavalcare il caso Garlasco, un esempio clamoroso di pessima giustizia, dove però il tema della separazione delle carriere c’entra come il cavolo a merenda. Ma a Meloni non importa: il messaggio da far passare è che la riforma, come fosse la fata Turchina, trasformerà d’incanto la giustizia italiana in una giustizia efficace e giusta.
Scelta comprensibile. Quando è in gioco la sopravvivenza, qualsiasi manipolazione può risultare utile. Tanto più che la posta in gioco è alta: una vittoria del “sì” spalancherebbe a Giorgia la strada verso il bis a palazzo Chigi. Una sconfitta, invece, farebbe partire la destra azzoppata nella corsa verso le elezioni politiche della primavera 2027. Anche perché, dopo il fiasco dell’autonomia differenziata e il rinvio sine die del premierato, la giustizia è l’unica riforma che starebbe a certificare (secondo Meloni) il riformismo del centrodestra. Persa lei, perso tutto.
Alberto Gentili




























