di Walter Cerfeda – Segretario Confederale della Ces
La modifica profonda nella durata e gestione degli orari di lavoro non sarà di breve durata. Infatti le ragioni che hanno motivato questa scelta, in atto ormai da qualche mese in numerosi Paesi europei – Germania, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra -, hanno radici che non sarà facile estirpare. Per questo è sbagliato dare una lettura tutta congiunturale del fenomeno (le delocalizzazioni, l’allargamento), perché essa ci impedisce una riflessione più di fondo.
Le radici di questa scelta risiedono in una secca perdita di competitività dell’Europa nelle ragioni di scambio mondiale, accentuatasi in particolare negli ultimi tre anni. Com’è noto, il mondo è entrato in una fase di fortissimo rallentamento economico a ridosso di quell’evento tremendo ed incanccellabile che fu l’11 settembre. Ma, mentre gli Stati Uniti ed il Giappone sono stati in grado di fuoruscirne nel giro di un paio di anni, l’Europa è invece restata ferma al palo della crisi. Sono le cifre che parlano da sole. Se si misura il tasso di produttività degli ultimi 24 mesi, si constata che mentre essa è cresciuta in Europa dello 0,9%, negli Stati Uniti la media è stata del 5,3% con picchi all’8-9%, mentre addirittura la Cina ha raggiunto il 10,5%. Se si misura la quota di export detenuta dall’Europa nel mercato globale si constata una perdita del 2,4% dal 2000 al 2003. Se si guarda poi alla dinamica della crescita del Pil per il 2004-2005 si osserva che il Pil europeo cresce esattamente la metà di quello americano e molto meno della metà di quello cinese.
Tutti i più autorevoli centri di ricerca economica del mondo indicano che i due motori della crescita mondiale sono oggi gli Stati Uniti e la Cina, mentre l’Europa sta inesorabilmente scivolando verso il terzo posto. Se si guarda alla linea di tendenza, l’avvento impetuoso della Cina e dell’India sul mercato mondiale ha già modificato l’uso ed il costo delle materie prime – petrolio ed acciaio innanzitutto -, i cui rincari colpiscono particolarmente l’Europa regione trasformatrice e tradizionalmente povera di materie prime. Quindi, se si osserva lo scenario realisticamente, la prospettiva europea appare veramente difficile.
Ma cosa è successo? Perché questo brusco arretramento? E’ successo che in un mondo dalle economie sempre più interconnesse ogni ritardo ha conseguenze pesantissime. L’Europa non è stata in grado di reagire rapidamente e con efficacia alla recessione. I vincoli del Patto di stabilità hanno impedito una politica di sostegno alla produzione e alla domanda, mentre negli Usa si faceva un generoso ricorso al deficit-spending per controbilanciare il rallentamento. Un ruolo della Banca centrale che per statuto deve solo sorvegliare la dinamica dell’inflazione europea e non intervenire con politiche di sostegno, mentre la Federal Reserve ha usato sapientemente la politica dei tassi per far riprendere ed incoraggiare gli investimenti . Ancora, una risposta alla crisi con 25 politiche economiche e fiscali, mentre gli Usa ed il Giappone hanno centralizzato gli interventi fino alla riscoperta di forme di keynesismo e/o di protezionismo. Tutto ciò spiega perché l’Europa abbia perso slancio e sia ancora sostanzialmente ferma. Ferma perché il Pil tedesco resta ancora intorno allo zero e la Germania da sola rappresenta la vera locomotiva europea, producendo il 36% del Pil complessivo.
Ma il vero problema sta nelle conseguenze. La tendenza in atto è quella per cui le imprese europee stanno cercando di compensare sul terreno della dinamica dei costi quanto perso nella dinamica della crescita innovativa dei prodotti. Che poi questa sia una politica di corto respiro e senza sbocchi, è del tutto ovvio. Basti osservare che il costo orario del lavoro europeo é 39 volte più basso di quello cinese e 4 di quello indiano, 16 di quello rumeno e bulgaro, 10 di quello ceco, ungherese e polacco. Per questo occorre costruire una risposta molto più complessa a quella che banalmente può apparire come una improvvisa reazione imprenditoriale. Non esamino qui le risposte necessarie sul terreno macroeconomico, anche se lì vi sono poi le soluzioni reali (modifica del Patto, innovazione, ricerca, infrastrutture etc.). Voglio invece affrontare i temi più legati ad una politica corretta degli orari di lavoro.
Questa offensiva è partita dalla Germania. La ragione risulta evidente. La struttura della contrattazione tedesca è indubbiamente la più rigida in Europa, e di conseguenza, anche le relazioni industriali risultano più stabili e solide. Ma la rigidità del sistema oltre certi limiti è risultata controproducente. In realtà la Germania non ha retto davanti alle due novità degli ultimi anni: la riunificazione prima e la recessione dopo. Il grande peso di questi due interventi avrebbe dovuto consigliare una maggiore duttilità nelle scelte sindacali. Al contrario, la risposta messa in campo è stata prima (2002) una ondata salarialista – con richieste che in molte categorie sono state il triplo della inflazione reale – e poi (2003) la richiesta di estensione delle 35 ore a tutta la Germania, togliendo così alla sua parte – l’Est – più debole anche quel minimo di flessibilità necessaria per non aggravare il costo unitario del lavoro. L’esito di questa seconda rivendicazione, com’è noto, è stato disastroso, con la reazione dei lavoratori prima ancora degli imprenditori.
Sull’onda di questi errori grossolani si è manifestata la reazione delle imprese, che in realtà minacciano la delocalizzazione al solo fine di ottenere una flessibilizzazione del sistema. Gli accordi Siemens, Opel, Daimler, Continental ed ora il negoziato in corso alla Volkswagen hanno tutti questa logica. La mancanza di cultura adattiva nel sindacato tedesco ha portato molte categorie a definire un vero e proprio decalogo sulle concessioni possibili. Infatti questo approccio viene definito «concessional bargaining», confermando in questo modo di voler procedere come se la flessibilità fosse un evento eccezionale e non ordinario.
Non esiste sindacalista al mondo che non abbia sempre cercato un equilibrio tra la contrattazione di un processo di ristrutturazione e, in cambio, garanzie sull’occupazione o sulle politiche di investimento da parte delle imprese. Utilizzare gli orari o, in casi estremi, sacrificare parte delle retribuzioni, sono stati e sono esercizi complessi e difficili, ma ordinari. Mai è stato definito tutto ciò una concessione. Il problema che però oggi abbiamo di fronte sta nell’influenza più generale che questa pratica può indurre nella politica degli orari europei. Infatti non è certo un caso che i primi effetti li abbiamo dovuti registrare in Olanda ed in Belgio, ovvero nei due territori confinanti e quindi con economie interconnesse. Anche in questi due Paesi gli accordi sull’allungamento degli orari si moltiplicano, sempre con la motivazione che questa è l’unica strada possibile per evitare le delocalizzazioni.
Va in ogni caso ricordato che le delocalizzazioni effettivamente realizzate fin qui sono estremamente ridotte. In realtà il quadro di sistema nei nuovi Stati membri è ancora molto fragile. Fragile sul versante delle infrastrutture materiali ed immateriali, fragile per la povertà territoriale, fragile per il contesto burocratico-amministrativo, fragile sul terreno della qualificazione professionale. I vantaggi quantitativi sui costi spesso si vanificano per la qualità del prodotto, e tutto ciò si acutizza tremendamente quando si tratta di Paesi asiatici. Non è un caso che le delocalizzazioni abbiano riguardato più la fornitura o la subfornitura piuttosto che il trasferimento, e quando il trasferimento avviene esso riguarda le produzioni ad alta intensità di lavoro e a tecnologia debole. E’ sempre stato così in fatto di politiche industriali, anche se ciò finisce per colpire particolarmente l’Italia che – dal tessile al calzaturiero, alla meccanica generale etc.- risulta molto esposta a questa tendenza. Ma di tendenza stiamo parlando, non certo di una minaccia né reale né incombente.
Una recente ricerca della Fondazione di Dublino conferma che negli ultimi cinque anni la riduzione di posti di lavoro derivanti dalla delocalizzazione riguarda il 4% della popolazione lavorativa nell’Europa dei Quindici. Ma questo non mette in discussione il dato fondamentale, la spinta delle imprese per ridurre il costo del lavoro. Paradossalmente si può dire che mentre molti di noi temevano lo svilupparsi di pratiche di dumping sociale, come lo sfruttamento dei nuovi Paesi più deboli, invece ora siamo costretti a constatare che i Paesi deboli vengono solo utilizzati come una minaccia per fare dumping nei Paesi più forti. Per questo anche l’Italia verrà coinvolta in questa tendenza, che probabilmente si manifesterà da noi in modo diverso. Dico questo perché, diversamente dalla Germania, in Italia la flessibilità non costituisce un tabù ormai da molto tempo. L’adattabilità dei nastri orari alle fluttuazioni produttive è patrimonio consolidato di molti contratti di lavoro. Ciò spiega perché finora non si è sviluppata una pressione pari a quella di altri Paesi.
La rigidità italiana non consiste nelle specifiche «poste» contrattuali quanto nella stessa struttura contrattuale. L’evasione da noi non avviene chiedendo flessibilità ad una norma specifica, come gli orari, ma alla struttura stessa della contrattazione, con il dilagare impressionante del lavoro irregolare o illegale. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui esistoni due livelli di contrattazione con funzioni distinte, ma è anche l’unico Paese con contratti a cadenza quadriennale, in un mondo in cui le imprese programmano, quando va bene, a 6 mesi. In Europa, tranne l’Irlanda in cui i salari sono concertati una volta ogni tre anni con il Governo per tutti i lavoratori di tutti i settori, i contratti hanno una cadenza molto più corta (massimo due anni), ma non generano un secondo livello di contrattazione aggiuntiva. La durata limitata, infatti, consente una protezione piena dei lavoratori per quello che riguarda la difesa e/o l’incremento del potere di acquisto, lasciando al livello dell’impresa, invece, una funzione partecipativa piuttosto che negoziale.
Ovviamente, parliamo di pratiche partecipative fortemente radicate nella cultura delle relazioni industriali prima ancora che nella legislazione e nella pratica contrattuale. Tutto ciò ha consentito fin qui di risolvere tutti i problemi relativi alle condizioni ed all’organizzazione del lavoro attraverso il fitto reticolo di strumenti partecipativi esistenti, ed in maniera preventiva piuttosto che come esito di un compromesso negoziale. Anche il salario fa parte delle politiche aziendali, ma con una funzione più ex post che ex ante, cioè nel definire un aumento retributivo conseguente ad una performance positiva dell’impresa piuttosto che per raggiungere eventuali obiettivi produttivi.
Davanti ad un tale scenario la struttura contrattuale italiana risulta particolarmente distonica. Per questo temo che su questo terreno rischi di concentrarsi una pressione delle imprese italiane, con l’obiettivo di introdurre modifiche tendenti unicamente a ridurre il monte complessivo dell’attuale costo contrattuale. Detto in altre parole, la flessibilità degli orari tedesca o francese da noi rischia di configurarsi come flessibilità contrattuale.