Il 25 per cento? Il 50? Il 10? Perché non 150? E poi: domattina? A luglio? O magari a settembre? Ci sono momenti in cui è un sollievo non essere un capitano d’industria e non dover navigare un caos come quello creato nel commercio internazionale – e, molto specificamente, nel più importante nodo di interscambio dell’economia mondiale, quello fra Europa e Stati Uniti, una roba da 1.500 miliardi di dollari l’anno – dal vagolare decisionale di Donald Trump intorno al suo rovello d’elezione, dogane e bilancia dei pagamenti. Anche per i più ottimisti, convinti che, esaurita la danza del negoziato, la conclusione sarà qualche dazio non catastrofico, la tattica più ragionevole sembra essere la paralisi – negli acquisti, nelle forniture, negli investimenti – di ogni decisione, in attesa che l’orizzonte si schiarisca. Quanto stia costando a tutti questo stato di animazione sospesa lo capiremo solo nei prossimi mesi: in economia i pasticci non sono mai gratis.
C’è del metodo in questa follia? Al contrario dell’Amleto di Shakespeare, dentro quelli che molti ritengono la prova del declino cognitivo dell’inquilino della Casa Bianca non c’è una strategia, ma un’ossessione senile, sorda a tutti e a tutto. La fissazione sulla bilancia commerciale scavalca – in particolare per quanto riguarda l’Europa – dati e realtà. Trump insiste su quanto avviene nel comparto merci (dove gli Usa hanno un deficit con l’Europa di 150 miliardi di euro), ma, per qualche motivo caparbiamente mai spiegato, non tiene conto dell’interscambio gemello, quello dei servizi (finanza, software) dove le aziende americane sono in vantaggio per 100 miliardi. Il disavanzo effettivo è, dunque, una cinquantina di miliardi e, nei fatti, è inghiottito da quello che è noto come il trucco irlandese. Metà del (tutt’altro che impressionante) deficit commerciale Usa con l’Europa è dovuto, infatti, alle sole esportazioni della minuscola Irlanda, dove, escludendo le patate, ci sono soprattutto le giravolte contabili – stranote – delle stesse multinazionali Usa, che fanno figurare importazioni fittizie dall’Irlanda, per pagare meno tasse negli Stati Uniti. La rapina dell’Europa ai danni dell’America, che denuncia Trump, è, soprattutto, un gioco d’ombre inventato da scafati tributaristi made in Usa.
E l’apporto salvifico che Trump attribuisce ai dazi per la bilancia commerciale , insieme, per il bilancio statale? Si spegne in un insolubile viluppo di contraddizioni. O i dazi sono tanto alti da ridurre le importazioni ( e allora producono poco gettito) o sono abbastanza bassi, da produrre gettito (ma non riducono le importazioni). Insomma, o combattono il deficit commerciale oppure quello statale. Non le due cose insieme.
Contemporaneamente, meno importazioni significano meno dollari che vanno all’estero e, dunque, meno dollari che tornano per essere investiti, in particolare nei titoli del debito pubblico. Quindi interessi più alti, per attirarli comunque, che si traducono in maggior deficit pubblico e poi debito. Qui è, piuttosto, il gioco dell’oca.
Quanto all’agognato rilancio dell’occupazione manifatturiera, c’è già stato, anche se Trump non se ne è accorto. Dal 2000, nelle fabbriche Usa ci sono 4 milioni di occupati in meno, ma ce ne sono sei milioni e mezzo in più a Silicon Valley e dintorni.
Purtroppo, i pasticci nella massima superpotenza mondiale ci riguardano tutti. Quanto pesa sull’economia europea la minaccia di sanzioni? Poco, a prima vista. Le vendite negli Usa sono solo il 3 per cento delle esportazioni europee nel mondo e, in totale, corrispondono allo 0,3 per cento del Pil Ue. Il problema è come sono distribuite. A parte la bizzarria irlandese, il grosso dell’export lo fanno Germania e Italia. E i 60 miliardi di euro di vendite italiane oltre Oceano fanno un buon 3 per cento del Pil nazionale.
Lo inghiottiranno le dogane di Trump, rendendo proibitive le nostre esportazioni?
In realtà, le tariffe aumenteranno i prezzi, ma non tutti i prodotti sono ugualmente sensibili ai prezzi. Chi ha avuto modo di vedere chi, in America, compra Ferrari, Prada, San Daniele e Parmigiano ha motivo di dubitare che quei consumatori si spaventino perché i prezzi sono saliti. Inoltre, le esperienze precedenti di offensive doganali mostrano che le aziende americane sfruttano i dazi su quelle estere per aumentare anch’esse i prezzi, depotenziando l’effetto sostituzione. Infine, la sostituzione è anche più difficile per prodotti come i farmaceutici. Diciamo che almeno metà di quel 3 per cento di Pil in esportazioni può riuscire a superare il muro delle dogane di Trump. Un altro 1 per cento può essere compensato dall’aumento di vendite su altri mercati, finora trascurati perché vendere in America è più facile. Ragionevolmente, dunque, i dazi americani potrebbero compromettere uno 0,5 per cento del nostro Pil. Ugualmente, un colpo duro per una economia che fa fatica a crescere dello 0,5 per cento.
Come assorbirlo? Venendo a soccorso dei settori e delle aziende più colpite. Con quali soldi? Quelli che si possono ricavare dai controdazi, in particolare se si ha il coraggio di prendere di mira le grandi multinazionali del digitale.
E’ un passo che l’Europa esita ancora a fare. Più di un governo preferirebbe abbassare la testa, venendo incontro alle pretese di Trump, in modo da ottenere un atteggiamento più benigno. Ma sarebbe, anche psicologicamente, un errore, avvertono gli antitrumpiani d’America. Sia perché Trump, come si è visto in queste settimane, si spaventa facilmente. Sia perché, nel quadro geopolitico che Trump va delineando, l’Europa non si vede. Nella testa dell’inquilino della Casa Bianca, c’è un , mondo diviso in tre sfere d’influenza: americana, russa, cinese. Se l’Europa (la terza superpotenza dell’economia mondiale, dopo Usa e Cina) vuole un posto a tavola, deve, anzitutto, nella logica un po’ da cow boy, un po’ da mafioso, di Trump, guadagnarsi rispetto.
Maurizio Ricci



























