Troppe aziende familiari in Italia (72%, contro il 30% dei partner europei) non hanno ancora un manager esterno alla famiglia dell’imprenditore. Sul tema dell’impresa e dell’imprenditore. Oltre al valore competitivo si aggiunge però anche un valore legale, che ha a che fare con le responsabilità sempre più pressanti che i vertici aziendali oggi hanno in termini di legislazione sicurezza e privacy. Per questo abbiamo chiesto al professor Pasquale Dui, avvocato che si occupa da sempre di dirigenti e imprese, qual è il valore legale di avere un manager all’interno dell’impresa inquadrato con il contratto dirigenti, piuttosto che avere un manager che opera come quadro, libero professionista e consulente.
Come è definita la figura del dirigente nel sistema legislativo e contrattuale italiano?
La contrattazione collettiva del settore dirigenti terziario, in linea con quelle degli altri settori, stabilisce che sono dirigenti a norma dell’art. 2094 del codice civile e agli effetti del contratto coloro che, rispondendo direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l’impresa o a una sua parte autonoma. La qualifica di dirigente comporta la partecipazione e la collaborazione, con la responsabilità inerente al proprio ruolo, all’attività diretta a conseguire l’interesse dell’impresa e il fine della sua utilità sociale.
Quali sono le principali criticità del ricorso a figure autonome per coprire ruoli dirigenziali?
Solo un soggetto inserito stabilmente ed effettivamente nell’organizzazione aziendale può costituire un punto di riferimento per il datore di lavoro e per l’impresa ed espletare le sue funzioni con l’ampiezza di poteri e le prerogative proprie del ruolo, in una modalità sostitutiva e di supporto dell’azione imprenditoriale. L’idea che un collaboratore ingaggiato con una formula contrattuale precaria e sminuente, quale il lavoro autonomo con partita iva o una generica collaborazione coordinata e continuativa, o assunto come quadro, possa attribuire al collaboratore stesso una qualifica formale parametrabile a quella di un manager contrattualmente assunto, è semplicemente frutto di una visione miope e distorta delle esigenze dell’impresa.
Perché? Qual è il contenuto dei poteri di questa funzione?
Il dirigente può assumere pienezza di poteri ed essere destinatario di deleghe effettive nei vari ambiti della gestione dell’impresa solo se regolarmente inquadrato nell’area contrattuale, normativa ed economica, con ampiezza e pienezza di funzioni. Mi sono sempre chiesto come i cosiddetti consulenti di vario genere, ingaggiati ormai sempre più frequentemente e stabilmente in alternativa a una regolare assunzione dirigenziale, per svariate ragioni, legate a esigenze economiche e alla necessità di coprire una figura istituzionale senza impegni a lungo termine, come in una sorta di prova infinita, possano svolgere funzioni manageriali a beneficio dell’azienda. L’assenza dell’investitura formale quale dirigente limita enormemente i poteri del collaboratore e rappresenta una figura indefinita e indefinibile nell’organizzazione aziendale, la quale, per ciò stesso, non può essere altro che fumosa e precaria.
Quali invece i poteri e le prerogative della figura dirigenziale?
A questo proposito, basti pensare all’esercizio concreto di poteri direttivi, organizzativi e di controllo verso il personale di riferimento il quale, trovandosi di fronte a una figura ibrida dell’organizzazione interna, è naturalmente portato a giudicarla con un certo disvalore e sospetto. Il collaboratore non dirigente, a rigore, non può essere titolare di deleghe interne di attribuzione di poteri, ostandovi, da un lato, il mancato inserimento nell’organizzazione reale e, dall’altro lato, l’esistenza di stringenti vincoli legali, interni ed esterni, che impediscono l’attribuzione di poteri di rappresentanza verso l’organizzazione interna e verso la platea esterna dei riferimenti aziendali (clienti, fornitori, istituzioni ecc.). Viene spontaneo pensare all’inadeguatezza del collaboratore autonomo ad alleviare il carico delle responsabilità connesse con i doveri di gestione e controllo dell’impresa, attesa la carenza di istituzionalità e incardinamento della sua figura. Questo si verifica certamente nell’ambito delle responsabilità civili e penali connesse all’esercizio di impresa, istituzionalmente a carico del datore di lavoro, ovvero del consiglio di amministrazione e/o dell’amministratore delegato. La giurisprudenza è già molto severa nell’escludere queste responsabilità e dirottarle verso i dirigenti, a mezzo di specifiche deleghe di funzioni, soprattutto con riguardo alla salute e alla sicurezza sul lavoro e alla normativa in tema di privacy e Gdpr, dovendosi conseguentemente escludere a priori che un semplice collaboratore a partita iva o simile possa essere destinatario di responsabilità delegate in questi delicati e fondamentali ambiti. Se si allarga il pensiero a tutti gli obblighi derivanti dal decreto legislativo 231/2001 in tema di responsabilità penale/amministrativa delle imprese per i cosiddetti reati presupposto, con le pesanti sanzioni penali, amministrative, interdittive, ora allargate sino a ricomprendere i reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro e i reati tributari negli ambiti prescritti, ci si rende conto di quanto sia ridicola la posizione del collaboratore a favore dell’impresa, non potendo certo giovare un rapporto così debole e non istituzionalizzato a favorire la costituzione di un “modello organizzativo” idoneo a rispettare i dettami della legge.
Quali sono gli elementi essenziali di una delega di funzioni efficace per esonerare il datore di lavoro da responsabilità?
Il problema della delega di funzioni si manifesta in numerevoli ambiti e, in modalità evidente, nella materia della salute e sicurezza del lavoro (ma anche, ad esempio, con adattamenti, nella materia ambientale), in relazione ai reati di lesioni gravi e morte a seguito di infortunio sul lavoro e, in genere, alle violazioni della normativa generale e speciale. La delega, per essere efficace, deve rispettare limiti condizioni (art. 16, decreto legislativo 81/2008): che risulti da atto scritto avente data certa; che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; che attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; che attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; che sia accettata dal delegato per iscritto. Alla delega deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità. Inoltre, la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. Non può essere delegata la valutazione dei rischi e la nomina del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp). Il rispetto delle suddette condizioni esclude la responsabilità del datore di lavoro.
In buona sostanza, questi collaboratori autonomi sono utili a un’impresa?
Mi sembra proprio che siano veramente figure inutili all’impresa, se non per la ricerca di qualche ridotto beneficio economico e di impegni duraturi senza vincoli. Dal lato del soggetto con il quale l’azienda instaura la collaborazione autonoma, appare evidente come l’azienda, di fatto, offra una soluzione precaria a un soggetto debole, privo di occupazione, di difficile ricollocazione a causa della fascia di età, in un mercato del lavoro chiuso e incerto quale quello attuale.
Perché è opportuno assumere un dirigente “vero”?
L’assunzione di un dirigente deve essere frutto di una consapevole decisione imprenditoriale, qualificata proattivamente come un investimento in funzione di crescita e miglioramento dell’organizzazione aziendale e, dal canto suo, il dirigente deve percepire questa realtà, caratterizzata da precisi obblighi di trattamento economico e normativo (leggi ccnl), formazione, delineazione di un percorso di crescita professionale, condiviso e percepito, successivamente “toccato” con mano, in quanto “sentito”, nel corrispondente sviluppo temporale della collaborazione dirigenziale, tale da stimolare il dirigente a dare il massimo del suo impegno, nell’ambito delle sue competenze specifiche e caratterizzanti, stimolate dall’azienda e valorizzate dal ruolo e dalla funzione, nel rispetto degli obiettivi assegnati. I benefici per l’impresa saranno innegabili e verranno da sé, nel rispetto di questo codice etico di scambio tra offerta e domanda di lavoro qualificato, senza comportamenti contrastanti con i principi di lealtà, correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e nello scambio funzionale tra le due parti del rapporto dirigenziale.
Ci sono limiti legali contro l’abuso delle collaborazioni?
Certamente. Si consideri, da ultimo, che lo sviluppo della legislazione, dalla legge Biagi del 2003 alla legge Fornero del 2012, alla legge 81/2017 (Jobs Act del lavoro autonomo, dove è disciplinato anche il lavoro agile), sono stati introdotti molti paletti e clausole di salvaguardia a favore dei collaboratori con partita iva e simili, che ne delimitano l’uso indiscriminato, con eccessivi poteri di direzione e controllo tali da soffocare l’autonomia del collaboratore. Questi vincoli portano, in caso di accertata violazione e abusi dell’impresa, laddove si manifesti la cosiddetta “etero-organizzazione” (direttive specifiche e stringenti), sanzioni consistenti nell’applicazione forzata al rapporto in questione delle regole del lavoro subordinato, con effetto dall’inizio della collaborazione, con buona pace di quei datori di lavoro che, con visione superficiale, abbiano contrabbandato come collocazione autonoma nell’impresa l’offerta di una posizione di fatto subordinata ma senza vincoli e costi del lavoro dipendente.
Gualtiero Lami