E’ in atto una profonda ristrutturazione delle rappresentanze imprenditoriali. Basterebbe a connotare questa trasformazione la nascita di Rete Imprese Italia, la fusione in corso tra le centrali cooperative, l’avvicinamento tra banche e assicurazione, il raggruppamento sotto un’unica sigla di quattro su cinque associazioni industriali del Lazio. Avvenimenti importanti, in grado di cambiare le abitudini stratificatesi in parecchi decenni. Ma ancora più importanti potrebbero essere i cambiamenti che deriveranno dal mutare della contrattazione.
Il contratto nazionale di lavoro sta infatti perdendo il primato che ha avuto per tanto tempo. I contratti di categoria resteranno sempre a dettare le regole di fondo dello scambio tra lavoro e salario, ma è destino che assumano sempre più peso le contrattazioni di secondo livello. L’accordo interconfederale del 2009 prima, poi quello del maggio scorso e infine l’articolo 8 del decreto sulla manovra economica di ferragosto, hanno dilatato l’ambito delle possibili deroghe, ed è ormai chiaro che sarà sempre più in ambito aziendale che si cercherà l’ottimizzazione degli scambi tra lavoro e capitale. L’unica variante potrebbe essere la contrattazione territoriale e infatti anche in questo ambito si intravedono esperienze sempre più interessanti e diffuse.
Ma sia in un caso che nell’altro, sia cioè che si tratti di accordi aziendali o territoriali, almeno per quanto si riferisce alle rappresentanze imprenditoriali, protagoniste non saranno le organizzazioni di categoria ma quelle territoriali. E parallelamente crescerà la loro importanza a scapito delle categorie. Probabilmente questo processo avverrà anche in casa sindacale, non fosse che perché la realtà imprenditoriale è sempre lo specchio di quella sindacale, ma in casa Confindustria (e poi anche nelle altre, sia pure in maniera meno diffusa e veloce) si può dire che il processo è già avviato e causerà alcuni terremoti nella distribuzione del potere tra i diversi livelli dell’organizzazione.
Le associazioni territoriali di Confindustria del resto hanno già cambiato notevolmente i loro connotati in questi anni. Due i dati peculiari di questa trasformazione. Il primo è il moltiplicarsi dei servizi offerti dalle Unioni, che si occupano oltre che della parte sindacale e dei rapporti con le autorità locali, svolgendo quindi compito normale di lobby, anche di credito, di ricerca, di acquisti, di energia e così via secondo la fantasia dei loro dirigenti. Ci sono anche delle unioni che provvedono a offrire un servizio di gestione delle paghe e dei contributi: più per calmierare un mercato altrimenti senza regole, ma sempre cambiando abitudini radicate. Il secondo fenomeno è la perdita dell’identità associativa assoluta, prima ritenuta invalicabile. In pratica, le unioni tendono ad associare non più solo aziende industriali, ma anche artigiani, commercianti, certamente imprese che forniscono servizi, e perfino liberi professionisti. Tutte realtà operative che trovano utile essere sotto il cappello confindustriale, anche se merceologicamente non vi appartengono.
Il dilatarsi dei servizi forniti ha portato a una crescita del personale impegnato e quindi dei costi di gestione delle unioni e del contributo chiesto. Ma anche l’elevatezza del ticket non ha impedito negli anni passati un dilatarsi del numero degli associati. Forse un freno è stato registrato negli ultimi due anni, ma questo fenomeno può essere anche attribuito senza grosse possibilità di errore alla crisi che ha costretto tutti a una revisione degli impegni.
Questa serie di fenomeni fa credere che si arriverà presto a una revisione della struttura organizzativa,anche perché spesso si osserva una sperequazione tra i servizi offerti tra le diverse unioni, il che crea non poche difficoltà considerando che i contributi sono invece gli stessi. Alcune realtà hanno ovviato a questo problema dando una serie di servizi solo dietro pagamento, ma non sempre questa strada è stata ritenuta percorribile.
Una possibile modifica potrebbe essere in un futuro anche abbastanza vicino quello dello sfoltimento del numero delle unioni provinciali, magari tramite accorpamenti. Fenomeno che potrebbe essere facilitato dalla riduzione, sensibile, del numero delle provincie, ma che comunque viene ritenuto obbligato. Del resto è quanto è avvenuto nel Lazio, dove le unioni di Roma, Viterbo, Rieti e Frosinone hanno deciso di fondersi per razionalizzare le loro strutture e operare una riduzione dei costi. Una strada che Alberto Bombassei, nel suo programma per la candidatura alla presidenza di Confindustria, ha gia’ dichiarato di voler seguire a livello nazionale.
Unioni provinciali, dunque. Ma anche le federazioni di categoria sembrano destinate a una riconsiderazione del loro ruolo. Le trasformazioni della contrattazione sono per loro forse ancora più importanti che per le realtà territoriali, non fosse che perché i confini sembrano non essere più rigidi come una volta. Crescono le realtà che raggruppano aziende in maniera trasversale rispetto alle vecchie partizioni e del resto sono le stesse filiere ad allungarsi sempre di più chiedendo una parallela revisione delle categorie. Né dovranno essere esentate da questo ripensamento generale le realtà regionali, che peraltro non hanno mai funzionato come si sperava e spesso hanno rappresentato un elemento più di intralcio che di facilitazione dei rapporti.
Insomma, il pianeta Confindustria, ma le stesse argomentazioni valgono anche per le strutture associative dei commercianti e degli artigiani, è in procinto di vivere una fase di cambiamento. Questo sarà certamente un elemento di crescita della funzionalità delle rappresentanze, sempre più utili alle imprese in questi anni di esasperata difficoltà.
Massimo Mascini