Tiziano Treu – Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Cattolica di Milano
L’appello “per riprendere il cammino dell’unità sindacale” firmato da un gruppo di autorevoli studiosi (da Giugni a Foa a Cella a Gorrieri) pone problemi reali e obiettivi giusti. Ma richiede alcuni chiarimenti. Concordo sullo spirito del documento che riflette l’impegno costante e meritorio dei suoi firmatari per il sostegno del sindacato e della sua unità.
Concordo anche su alcuni assunti di fondo, a cominciare dalla necessità di un sindacalismo confederale forte e unitario. Questa è una lezione storica univoca: non ci sono esempi di autorevolezza e influenza sindacale sulle questioni principali in materia economica e di lavoro, in assenza di questo tipo di sindacalismo. Anche sindacati divisi per vari motivi (come quelli spagnoli e francesi) hanno supplito all’assenza di unità organica con l’unità di azione. Viceversa si sono indeboliti quando anche questa è mancata.
Gli eventi italiani recenti confermano tale caduta di peso in mancanza di unità almeno di azione.
E’ anche vero, come sottolineano i firmatari dell’appello, che esiste un dissenso strategico alla base dell’attuale divisione sindacale. Non da oggi le confederazioni si sono ispirate a concezioni e obiettivi diversi, spesso lontani. Per esemplificare, hanno avuto posizioni divergenti circa il carattere partecipativo o antagonistico delle relazioni industriali, circa l’ampiezza, gli obiettivi e i luoghi del metodo contrattuale, circa la struttura della rappresentanza. Sono proprio questi i temi strategici su cui i firmatari dell’appello invitano i sindacati a confrontarsi senza pregiudiziali per avvicinare le loro posizioni.
Il metodo del confronto sui contenuti è sicuramente essenziale per migliorare il rapporto fra sindacati. Ma anche quelli fra i partiti. L’attuale impasse dell’Ulivo va affrontata prima di tutto con un confronto di merito sui programmi e sugli obiettivi, lasciando per ora la ricerca, dimostratasi impraticabile, di strutture comuni (e ancora più di organigrammi).
Un motivo di fiducia proviene dall’esperienza passata. Dissidi anche radicali su questioni sindacali importanti sono stati superati ricercando mediazioni pazienti nel merito. Basti ricordare l’accordo del luglio 1993 in tema di rappresentanze sindacali unitarie e la soluzione poi generalizzata nel PI sul medesimo argomento; la stessa frattura del 1984 conseguente al referendum sulla scala mobile fu riassorbita, con fatica ma positivamente.
Anche ora i contrasti, se affrontati nel merito, non dovrebbero essere insanabili. C’è però un elemento fondamentale che differenzia l’attuale situazione da quelle passate, e cioè il rapporto con il quadro politico. Nei casi precedenti il rapporto del sindacato era con un Governo amico o non ostile. Ora il sindacato deve confrontarsi con un Governo sicuramente non amico e che dà molte prove di essere ostile. Per di più, ciò avviene in un contesto istituzionale segnato dal bipolarismo, che impone scelte più nette di quello proporzionale, che ostacola, se non impedisce, soluzioni compromissorie e tanto più consociative richiedenti un assenso sindacale unanime. Si ricordi che tutto il dopoguerra ha sancito la prassi, tacita ma radicata, che le decisioni nelle materie sociali si prendevano con il consenso o comunque non contro il consenso del sindacato, della Cgil in primis. Il bipolarismo mette in discussione queste prassi e sottopone a una prova più ardua la gracile autonomia del sindacato.
Questo è il punto critico, su cui il documento non insiste abbastanza.
Io sono un convinto sostenitore del bipolarismo per tanti motivi che non è il caso di ribadire qui. Non ritengo inevitabile che al bipolarismo politico faccia riscontro un bipolarismo sindacale. Al contrario, sarebbe una iattura. Ma perché sia così occorre un di più di autonomia sindacale, cioè di scelte che tengano conto del contesto anche politico ma siano fortemente concentrate sul merito sindacale delle questioni, sui pro e contro delle soluzioni rispetto agli specifici interessi dei lavoratori rappresentati in rapporto alle concrete alternative presenti nel momento. Non spetta al sindacato cambiare il quadro politico né può permettersi di sospendere la sua attività contrattuale in attesa che cambi il sindacato. A mio avviso non può rifiutarsi di trattare, anche se è in posizione sfavorevole, e non può neppure rifiutare a priori soluzioni del tipo “minor male”. Il suo riformismo, come il suo metodo, è diverso da quello dei partiti. Anche per questi il riformismo rifiuta posizioni di mera interdizione ed è sempre propositivo anche se espresso da forze di opposizione.
Se non si chiariscono questi punti, e non sono ancora chiariti fra Cgil / Cisl / Uil, è difficile procedere nel merito delle questioni. Non a caso ci sono tentazioni o inclinazioni, da parte della Cgil, a contrastare le proposte del governo “a prescindere”, per una sorta di presunzione che siano irricevibili in quanto provenienti da un interlocutore non credibile (se non si arriva a qualificarlo come regime). Dall’altra parte si alimentano i sospetti che Cis e Uil siano troppo condiscendenti rispetto alle proposte governative, se non per collateralismo per una posizione simmetrica a quella della Cigl.
Le polemiche sul Patto per l’Italia esprimono entrambe queste posizioni. Non è utile continuare a ribadirle, scambiandosi accuse reciproche o addirittura scomuniche (purtroppo si sono viste nei rapporti sindacali più delicati come quelli “di base”). Anche per questo motivo sarebbe bene guardare oltre il Patto senza chiedere abiure o professioni di fede, ma discutendo anzitutto sul senso dell’autonomia in questo contesto politico, cioè con questo Governo. E traendone conseguenze coerenti. Oltre i temi strategici ricordati nell’appello, ci sono anche argomenti più facili e strettamente sindacali. E’ positivo che ora Epifani sottolinei la necessità di “fare più sindacato” per riprendere il cammino dell’unità. Qui il sindacato può misurarsi per avviarsi sul difficile percorso della riconciliazione. In imprese così ardue, gli early wins possono essere utili ad acquistare fiducia e a proseguire. Alcuni tavoli tematici come quelli sulle politiche industriali e sullo sviluppo del Mezzogiorno possono costituire terreni positivi di confronto.
La ripresa di rapporti negoziali diretti con le controparti datoriali, Confindustria in testa, senza la presenza del Governo, è anch’essa utile per “depoliticizzare” il confronto.
Analogamente, ci sono ambiti di contrattazione territoriale he possono risultare più praticabili perché più lontani dalla politica “romana”, riguardanti oggetti strutturalmente sindacali, verificabili direttamente dalla base sindacale, collocati in contesti politici diversificati (ci sono regioni, governate sia dal centro destra, che dal centro sinistra). In alcune regioni, come l’Umbria, si sono già conclusi patti di sviluppo unitari, a conferma che la concertazione è ancora possibile. Milano può essere un terreno di sperimentazione propizia per la ripresa del dialogo, anche per la disponibilità manifestata dai sindacati, compresa la dirigenza della Cgil.