Andrea Allamprese – Ricercatore all’Università Politecnica delle Marche
(Il testo del decreto nella Documentazione)
1. Premessa. – Il d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 ha ridisciplinato la materia dell’orario di lavoro, dando parziale attuazione alla delega contenuta nell’art. 22 della l. 1° marzo 2002, n. 39 (su cui v. Ricci G., La legge comunitaria 2001: l’Italia prova ad adeguarsi ai «diktat» della Corte di giustizia in materia di salute e sicurezza dei lavoratori e orario di lavoro, in Foro it., 2002, IV, p. 432; Allamprese, La delega sull’orario di lavoro nella Legge comunitaria 2001, in Carinci e Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al Disegno di legge delega 2002, Ipsoa, Milano, 2002, p. 70).
Quest’ultima norma, nel delegare al Governo il compito di emanare uno o più decreti legislativi necessari per dare attuazione alle direttive n. 93/104 del 23 novembre 1993 (relativa a «taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro»), n. 2000/34 del 22 giugno 2000 (che modifica la prima estendendone il campo di applicazione), n. 63 del 21 giugno 1999 (relativa all’orario di lavoro della gente di mare) e n. 79 del 27 novembre 2000 (sull’orario di lavoro del personale di volo nell’aviazione civile), prevede che l’emanando o gli emanandi decreti legislativi debbano recepire i «criteri di attuazione di cui all’avviso comune sottoscritto dalle parti sociali il 12 novembre 1997» [art. 22, comma 2, lett. a)], aggiungendo che essi debbano altresì riconoscere gli «effetti dei contratti collettivi in vigore alla data di entrata in vigore del provvedimento di attuazione della direttiva» [lett. b)]. Tale ultimo criterio direttivo delinea una sorta di regime di ultrattività dei contratti collettivi vigenti, di cui si dispone implicitamente la prevalenza pro tempore sulle disposizioni legislative attuative della dir. 104 (Ricci G., La legge comunitaria 2001, cit., p. 436). In relazione a siffatto criterio, l’art. 18, comma 1, dello schema di decreto legislativo varato nella seduta del Consiglio dei Ministri del 17 gennaio 2003 prevedeva che «le clausole dei contratti collettivi in materia di orario di lavoro vigenti alla data di entrata in vigore dei presente decreto manten[essero], in via transitoria e salve diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi stessi. Nelle ipotesi di contratti scaduti o di specifici accordi tra le parti, le clausole dei contratti collettivi in materia di orario di lavoro [avrebbero avuto] efficacia sino al 31 dicembre 2004». Tale previsione – fortemente criticata in ambito sindacale – è stata eliminata nella stesura definitiva del decreto in esame.
Peraltro, nel comma 3 dello stesso art. 22 si preannunciava la possibilità che, ai sensi della delega di cui ai commi 1 e 2 ed al fine di assicurare una corretta ed integrale trasposizione delle direttive in oggetto, il Governo apportasse modifiche ed integrazioni al d.lgs. 26 novembre 1999, n. 532 (in tema di lavoro notturno) e alla l. 27 novembre 1998, n. 409 (in tema di lavoro straordinario nell’industria), «nonché alle discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, con particolare riferimento al commercio, turismo, pubblici esercizi ed agricoltura». Il Governo avrebbe proceduto ad eventuali interventi correttivi «sentite le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative».
Orbene, il citato art. 22, comma 2, in parola non prevede espressamente, tra gli specifici criteri direttivi cui il legislatore delegato debba attenersi, anche quelli desumibili dalla dir. n. 93/104 (ma v. l’art. 2 della l. n. 39/2003). Tale circostanza ci consentiva perciò di affermare (Allamprese, Riduzione e flessibilità del tempo di lavoro. Quadro normativo e poteri individuali, Ipsoa, Milano, 2003, pp. 179-180) che il compito affidato al legislatore delegato fosse, anzitutto, quello di rendere coerenti le disposizioni interne con quelle dell’Avviso comune del 1997. Oltretutto, ciò avveniva senza neanche la consapevolezza, pur abbondantemente evidenziata in passato dalla dottrina (v. in particolare Ichino P., Il tempo di lavoro nell’Unione europea, in Riv. it. dir. lav., 1998, I, p. 164), dell’esistenza di ampi profili di violazione della dir. n. 104 da parte dell’intesa del 1997. Tale violazione appare evidente per ciò che attiene all’eliminazione dei limiti al superamento dell’orario di lavoro tramite il ricorso allo straordinario, «che potrebbe consentire un superamento costante delle 48 ore di lavoro settimanale e, per conseguenza, il mancato rispetto di quella media che gli artt. 6 e 16 della direttiva [n. 104] impongono di rispettare (…) in un periodo di quattro mesi, prolungabile a sei o in certi casi a dodici» (Leccese, La disciplina legale dell’orario di lavoro e il ruolo della contrattazione collettiva, in Carinci (a cura di), Orario di lavoro. Legge e contrattazione collettiva, Ipsoa, Milano, 2001, p. 68).
Alla luce del nuovo testo di legge si può dire che il legislatore delegato si sia ampiamente ispirato al progetto di trasposizione a suo tempo predisposto dalle parti sociali, aprendo tuttavia una serie di interrogativi. In sede di trasposizione della dir. n. 93/104 è infatti prevalsa un’impostazione diversa dal passato, idonea cioè a sottrarre la possibilità di modulare l’orario di lavoro su base settimanale, mensile o annuale, al vincolo delle 8 ore di lavoro giornaliere come orario di lavoro normale (ex art. 1, r.d.l. n. 692/1923, oramai abrogato). Dovremo – a questo punto – fare i conti con la debolezza della fonte contrattuale collettiva. Potrà la contrattazione collettiva ricostruire anche quelle tutele fondamentali che la vecchia legislazione del 1923 cercava di affermare? Riuscirà, ad esempio, a ricostruire dei limiti giornalieri complessivi alla durata della prestazione?
2. Finalità del decreto delegato. – Ma veniamo ai contenuti del d.lgs. n. 66. Le disposizioni del decreto delegato sono volte a «regolamentare in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale i profili di disciplina del rapporto di lavoro connessi alla organizzazione dell’orario di lavoro», giusta la previsione di cui all’art. 1, comma 1 (che apre il capo I rubricato Disposizioni generali).
In via preliminare si osserva, da parte di alcuni commentatori (Tiraboschi e Russo, Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, in Guida al lavoro, 2003, 17, p. 14), che il legislatore delegato avrebbe ritenuto assorbente il profilo della regolazione del «rapporto di lavoro» rispetto all’obiettivo – in sé e per sé considerato – della «tutela della salute e sicurezza dei lavoratori che avrebbe potuto ingenerare non pochi problemi relativamente alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni in materia» alla luce dell’art. 117 Cost. come riformulato dalla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”). Infatti, con riferimento alla competenza concorrente delle Regioni, tra le materie contenute nel comma 3 del novellato art. 117 vanno evidenziate quelle nominate “tutela e sicurezza del lavoro”, “tutela della salute” e “previdenza complementare ed integrativa”, locuzione la prima che ha ingenerato non pochi dubbi interpretativi (v. per tutti Pallini M., La modifica del Titolo V della Costituzione: quale federalismo per il diritto del lavoro?, in Riv. giur. lav., 2002, I, p. 24 ss., ove ulteriori richiami alla dottrina).
Eppure le finalità della direttiva 104 sono chiare. Questa – come fatto palese dalla sua rubrica – non si occupa in generale della disciplina degli orari di lavoro, ma coltiva l’obiettivo (giudicato a caldo come modesto e figlio di una «politica del diritto “minimalista”») di stabilire alcune «prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro» (art. 1, par. 1), che consentano di rispondere alle finalità contenute nell’art. 118 A del Trattato (ora trasfuso nell’art. 137 CE), ed espressamente richiamate nel preambolo della direttiva medesima (v. il 1° considerando).
A fronte di ciò, il legislatore, invece di affrontare direttamente un nodo critico della disciplina derivante dal fatto che la materia della salute e sicurezza del lavoro rientra a pieno titolo nella legislazione concorrente regionale (nel senso di una competenza legislativa ‘a rialzo’ rispetto al livello quantitativamente minimo determinato dallo Stato: v. da ultimo Di Stasi, Notazioni su il lavoro tra diritto europeo, diritto statale e diritto regionale, in corso di pubblicazione in Lav. giur., 2003), ha preferito sottolineare l’incidenza della nuova regolamentazione degli orari di lavoro sulla disciplina dei rapporti di lavoro, materia questa di competenza statale secondo un orientamento in via di consolidamento, così sostanzialmente aggirando la delicata questione dei livelli di competenza nella regolazione della materia.
Questa impostazione non è senza riflessi sui contenuti del decreto, in quanto consente al legislatore delegato di “smarcarsi” elegantemente dai vincoli comunitari e rivendicare le forti potenzialità innovative della direttiva n. 104, individuandole proprio negli aspetti di flessibilità della disciplina, che porrebbero il testo comunitario «in piena sintonia con le tendenze che vanno affermandosi nella prassi» (Caruso, La retribuzione e l’orario di lavoro “alla corte” della flessibilità, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1995, 17, p. 103) e che giustificherebbero l’ampliamento degli spazi di flessibilità oggi ammessi dalla legge italiana e, soprattutto, l’arretramento de jure condendo delle tutele legali previgenti.
Abbiamo già avuto modo di criticare siffatte interpretazioni della direttiva 104 (Allamprese, Riduzione e flessibilità del tempo di lavoro, cit., p. 34 ss.): la presenza nell’articolato di numerose eccezioni (in parte superate dalle direttive successive) e di numerose disposizioni di «natura opzionale» (Ricci G., La comunitarizzazione «leggera»: la disciplina degli orari di lavoro in Gran Bretagna, in Dir. lav. rel. ind., 2001, p. 264 ss.), che consentono di rendere flessibili, finanche in modo «eccessivo, i limiti minimi di riposo ed i limiti massimi di durata del lavoro, non può infatti essere letta disgiuntamente dalla precisa e prevalente (Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale della persona, durata della prestazione e rapporto tra le fonti, Cacucci, Bari, 2001, p. 151 ss.) connessione che la stessa direttiva stabilisce con le finalità di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
3. Definizioni. La nozione di “orario di lavoro”. – Il decreto definisce, anzitutto, i presupposti applicativi della normativa in esso contenuta. L’art. 1, comma 2, detta, in particolare, le nozioni di: orario di lavoro, periodo di riposo, lavoro straordinario, periodo notturno, lavoratore notturno, lavoro a turni e lavoratore a turni, nonché lavoratore mobile, lavoro offshore, riposo adeguato e contratti collettivi di lavoro. Soffermiamoci sulla prima delle suddette nozioni.
Il d.lgs. n. 66 definisce – sulla scorta delle indicazioni comunitarie (art. 2, par. 1, dir. n. 93/104; v. da ultimo Allamprese, La nozione europea di orario di lavoro e il suo recepimento in Francia: spunti di riflessione per il legislatore italiano, in Lav. giur., 2001, p. 1122) – l’orario di lavoro come «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni» [art. 1, comma 2, lett. a)]. In tal modo, esso interviene a colmare la sfasatura venutasi a creare fra l’ambito di applicazione della direttiva 104 e quello della legge nazionale (Ferrante, La nuova legge in tema di lavoro straordinario, in Nuove leggi civ. comm., 1999, p. 804), che – fino all’entrata in vigore del decreto 66 – era almeno formalmente ristretto ai soli casi in cui vi fosse una «applicazione assidua e continuativa» (secondo la nota formula dell’art. 3, r.d.l. n. 692/1923, oramai abrogato).
Infatti, il criterio di misurazione dell’orario di lavoro risulta ora composito, assumendo rilievo non solo il tempo della prestazione effettiva, ma anche quello di disponibilità del lavoratore e quello di presenza nel luogo di lavoro. La Corte di giustizia, pur lasciando intendere che i tre criteri testé indicati devono concorrere, ha interpretato in maniera elastica il riferimento all’esercizio dell’attività o delle funzioni contenuto nell’art. 2, par. 1, dir. n. 104 (e recepito ora dal legislatore delegato): il che le ha permesso di concludere che «il periodo di servizio di guardia che svolgono i medici delle unità di pronto soccorso, secondo il regime della presenza fisica nel centro sanitario, dev’essere interamente considerato come rientrante nell’orario di lavoro» (Corte di giustizia 3 ottobre 2000, C-303/98, SIMAP, in Racc., 2000, p. 7963; nello stesso senso v. Corte di Giustizia 3 luglio 2001, ord., causa C-241/99, Confederación Intersindacal Galega, in Racc., 2001, p. 5139 e, da ultimo, le conclusioni dell’Avv. gen. Colomer presentate l’8 aprile 2003 nella causa C-151/02, Landeshauptstadt Kiel vs. Jaeger, entrambe sulle attività di guardia del personale di pronto soccorso).
Sul ché il d.lgs. n. 66 non sembra porre problemi. All’esito di una più approfondita analisi, si condivide la lettura (Tiraboschi e Russo, Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, cit., p. 16) secondo la quale i lavori discontinui o di semplice attesa e custodia, quali enumerati (tassativamente) nella tabella allegata al r.d. n. 2657/1923 ampiamente modificata e integrata da numerosi provvedimenti successivi (trattasi di camerieri, barbieri, custodi, guardiani, sorveglianti che non partecipano al lavoro, addetti ai centralini, ecc.), sono a tutti gli effetti compresi nella nozione di orario di lavoro di cui al citato art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66. Pur continuando infatti – ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. d) – ad essere esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina della durata settimanale dell’orario normale di cui all’art. 3 (fatte salve le condizioni di miglior favore stabilite dai contratti collettivi, nazionali e/o di secondo livello), essi sono tuttavia assoggettati ai limiti di durata media massima settimanale (48 ore) di cui all’art. 4 dello stesso decreto delegato, stante la previsione per quest’ultima disciplina di uno specifico e diverso ambito derogatorio (art. 17, d.lgs. n. 66/2003).
Resta invece irrisolta – dato il perdurante silenzio del legislatore sul punto – la questione concernente la qualificazione giuridica delle c.d. attività preparatorie allo svolgimento della prestazione (e la conseguente riconducibilità del tempo impiegato per lo svolgimento delle attività medesime alla nozione di orario). In particolare, i tempi di mera presenza sul posto di lavoro, nella fase antecedente all’inizio del turno, o quello impiegato per munirsi degli attrezzi o, ancora, per indossare la tuta o il camice, sono da ritenersi computabili nel monte orario massimo, oppure risultano estranei alla (nuova) nozione di orario di lavoro?
E’ noto come, nel vigore della precedente disciplina del 1923 (l’oramai abrogato art. 3, r.d.l. n. 692), la dottrina avesse concordemente optato per la seconda delle soluzioni ipotizzate, alla stregua del principio per cui si definisce effettivo, cioè assiduo e continuativo, il lavoro che richiede «una continuità costante di sforzo» (Pera, Diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1988, p. 469), sicché andavano certamente escluse quelle attività che, così come quelle sopra nominate, non presentavano tali caratteristiche. In conformità a tale orientamento dottrinale, la giurisprudenza, nell’individuare il c.d. “lavoro effettivo” retribuibile, lo ha inizialmente commisurato all’effettiva erogazione di energie da parte del dipendente (Cass. 21 dicembre 1995, n. 13055, in Not. giur. lav., 1996, p. 213); solo in seguito si è delineata una (ri)lettura del dato normativo più favorevole ai lavoratori, volta a far rientrare nella nozione di lavoro effettivo «ogni periodo, anche di mera attesa, in cui il lavoratore sia tenuto a rimanere a disposizione del datore di lavoro» (Cass. 2 aprile 1986, n. 2268, in Rep. Foro it., 1986, voce Lavoro (rapporto di), n. 1132; più di recente v. Trib. Torino 26 ottobre 1999, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1335). Con riguardo poi alla questione concernente la qualificazione giuridica della peculiare fattispecie del “tempo-tuta” (cioè del tempo impiegato per indossare e dismettere gli abiti da lavoro), quale parte integrante dell’orario di lavoro o meno, si è confermato, nell’ultimo decennio, un orientamento giurisprudenziale sostanzialmente favorevole ai lavoratori (per un’ampia rassegna della giurisprudenza di merito e di legittimità in materia v. Ricci G., Sulla riconducibilità del c.d. “tempo tu-ta” alla nozione di lavoro effettivo: recenti orientamenti giurisprudenziali a confronto, in Foro it., 1999, 12, p. 3612). L’interpretazione più elastica ha fatto breccia anche in una parte della dottrina (Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Giuffrè, Milano, 1985, p. 284).
A ben vedere, la soluzione della questione può essere trovata rispondendo alla seguente domanda: l’elenco dei tre criteri menzionati dall’art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66, dev’essere considerato come cumulativo (come lasciano intendere – con riferimento all’art. 2 della dir. n. 104 – i giudici di Lussemburgo nel citato caso SIMAP) oppure alternativo, così determinandosi un ampliamento della nozione di “orario di lavoro”, tale cioè da ricomprendere anche le c.d. attività preparatorie allo svolgimento della prestazione?
Gli argomenti a sostegno della seconda interpretazione non sembrano mancare. Una lettura puramente formale del testo dell’art. 1, comma 2, lett. a) (in particolare, l’assenza di particelle disgiuntive) porterebbe a considerare cumulativo l’elenco dei tre criteri di misurazione dell’orario, Ma la norma – come si diceva – si presta anche ad una diversa lettura. Una prima perplessità sorge – a nostro avviso – quando si confrontano, e soprattutto si sommano, le due nozioni di «disposizione» e di «esercizio della sua attività» (rispettivamente secondo e terzo criterio di misurazione), nozioni queste che presentano un contenuto manifestamente antitetico, e quindi non possono essere cumulate. A ciò si aggiunge il fatto che l’applicazione congiunta dei tre criteri mal si concilia con gli scopi e quindi con la ratio del decreto delegato in commento (e della direttiva di riferimento), che è quella di assicurare ai lavoratori un tempo ragionevole di riposo. Consideriamo quali sarebbero le conseguenze pratiche del cumulo dei tre criteri in questione con riguardo all’applicabilità di due disposizioni del d.lgs. n. 66, ossia dell’art. 7 riguardante il riposo giornaliero, e dell’art. 4 riguardante la durata media massima settimanale del lavoro. E’ evidente che, se si ammette che l’art. 1, comma 2, lett. a), possa essere interpretato nel senso che, ai fini del computo dell’orario di lavoro, si prendono in considerazione le sole ore in cui il lavoratore esercita effettivamente la sua attività ed è a disposizione del datore di lavoro, non potrà essere assicurato il rispetto dell’obbligo di garantire al medesimo lavoratore un periodo di riposo giornaliero di 11 ore consecutive e la durata media di lavoro settimanale entro il limite delle 48 ore (comprensive dello straordinario), in quanto non rientrerebbero nel calcolo tutti quei periodi in cui di fatto il lavoratore non svolgerebbe attività lavorativa ma sarebbe comunque “a disposizione”, e quindi non a riposo, con la conseguenza che i tempi di intervallo effettivo sarebbero inferiori al minimo imposto dal decreto delegato. Peraltro, le preoccupazioni aumentano se si prende in considerazione la previsione di cui all’art. 6 del decreto 66, che pure trova un appiglio nella dir. n. 104 (art. 16, n. 2), in base alla quale «i periodi di ferie annue ed i periodi di assenza per malattia non sono presi in considerazione ai fini del computo della media di cui all’art. 4. Nel caso di lavoro straordinario, se il riposo compensativo di cui ha beneficiato il lavoratore è previsto in alternativa o in aggiunta alla maggiorazione retributiva di cui al comma 5 dell’art. 5, le ore di lavoro straordinario prestate non si computano ai fini della media di cui all’art. 4».
4. Campo di applicazione. – Le disposizioni del d.lgs. n. 66/2003 trovano applicazione in tutti i settori di attività, privati e pubblici, con le sole eccezioni della gente di mare (ma non, in quest’ambito, dei lavoratori offshore: cfr. art. 17, comma 2, lett. a), del personale di volo nell’aviazione civile e dei lavoratori mobili per quanto attiene ai profili di cui alla dir. n. 2000/15.
Siffatta impostazione unitaria della disciplina dell’orario pare derivare anzitutto dallo stesso ambito di applicazione della direttiva 104, che – all’indomani della novella del 2000 – è tendenzialmente generale (v. oltre). Ma sembra trovare una giustificazione anche nell’ormai consolidato processo di “privatizzazione” del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni
Per il rapporto di pubblico impiego, all’indomani della sua contrattualizzazione si è posta la questione della diretta applicabilità della normativa dettata in materia di orario per il settore privato. Sul punto la dottrina si è assestata su due posizioni antitetiche. Da una parte si assumeva la diretta riferibilità anche al lavoro pubblico della normativa dettata per il settore privato; dall’altra, si postulava l’applicazione transitoria della previsione dell’art. 14 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili), così come interpretata autenticamente dall’art. 30, comma 1, l. 29 marzo 1983, n. 93. In concreto, la diatriba dottrinaria veniva superata dai contratti collettivi del primo quadriennio (1994-1998) che fissavano la durata dell’orario settimanale di lavoro in 36 ore e qualificavano come straordinario l’orario eccedente tale limite (Leccese e Pinto, Ruolo e contenuti della contrattazione collettiva in materia di orario di lavoro dei dipendenti della P.A., in Quad. dir. lav. rel. ind., 17, p. 197).
Il problema si sarebbe dovuto definitivamente risolvere con l’entrata in vigore dei contratti collettivi del secondo quadriennio (1998-2001); in virtù dell’art. 72, comma 1, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (come sostituito dall’art. 36 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546), la sottoscrizione, per ciascun comparto, del secondo contratto collettivo avrebbe dovuto comportare la caducazione di tutta la disciplina pubblicistica previgente e l’applicazione immediata dell’intera disciplina privatistica. Sennonché i contratti di comparto della seconda tornata contengono una previsione in base alla quale «nelle more della piena contrattualizzazione della disciplina dei rapporti di lavoro mediante recupero alla disciplina pattizia degli istituti non regolamentati dal precedente contratto collettivo ed eventuale revisione delle norme contrattuali già dettate» rimangono in vigore non solo le norme contrattuali, ma anche quelle legislative che non sono state espressamente abrogate (cfr., tra gli altri, l’art. 47, comma 3, Ccnl 16 febbraio 1999 relativo agli enti pubblici non economici). E’ evidente come tale previsione contrattuale comporti ricadute dirette anche in materia di orario di lavoro, differendo la piena applicazione dei principi privatistici destinati a convivere con le regole non incompatibili desumibili dal previgente regime pubblicistico. Nonostante ciò, anche nel previgente assetto normativo, si ritieneva non sussistessero più dubbi in merito alla immediata applicabilità ai rapporti di pubblico impiego della previsione dell’art. 13 della l. n. 196/1997 (per una ricostruzione della materia v. da ultimi Santucci, Orari di lavoro e part-time nelle amministrazioni pubbliche, in Lav. pubbl. amm., 2002, p. 479; Boscati, La disciplina dell’orario nelle amministrazioni pubbliche, in Carinci (a cura di), Orario di lavoro, cit., p. 236).
L’art. 2, comma 2, prevede – per il pubblico impiego – che siano individuate con decreto ministeriale le «particolari esigenze inerenti al servizio espletato» o le «ragioni connesse ai servizi di ordine e sicurezza pubblica, di difesa e protezione civile, nonché degli altri servizi espletati dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco», in base alle quali le disposizioni sull’orario contenute nel decreto non trovano applicazione nei riguardi delle «forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ivi compresi quelli del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate per finalità istituzionali all’attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato».
La norma contiene un regime di esenzioni assai ampio, che solo in parte trova legittimazione nelle finalità di trasposizione del dato comunitario.
La dir. n. 2000/34, di modifica del testo normativo originario della dir. 104, ha – come ricordato – esteso l’applicazione dei contenuti di quest’ultima «a tutti i settori di attività, privati e pubblici, ai sensi dell’art. 2 della direttiva quadro n. 89/391, fermi restando gli artt. 14 e 17 della presente direttiva» (art. 1, par. 3, dir. 104), eccezion fatta – in virtù proprio del principio di specialità (canonizzato dal testé citato art. 14) – della gente di mare, del personale di volo nell’aviazione civile e delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto.
Il rinvio alla sfera di efficacia della direttiva quadro n. 391 (art. 2, par. 1) comporta che le disposizioni della dir. 104 non trovino applicazione allorquando «particolarità inerenti ad alcune attività specifiche nel pubblico impiego, per esempio nelle forze armate o nella polizia, o ad alcune attività specifiche nei servizi di protezione civile, vi si oppongano in modo imperativo» (art. 2, par. 2, dir. n. 391). Sennonché, ad avviso della Corte di Lussemburgo, tanto dall’oggetto della direttiva quadro, «ossia la promozione del miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul lavoro», quanto dal dettato dell’art. 2, par. 1, dir. n. 391, emerge che il campo di applicazione di quest’ultima (e, quindi, della dir. n. 104) «deve essere inteso in senso ampio» e le eccezioni al campo d’applicazione della dir. n. 391 medesima (incluse quelle di cui al suo art. 2, par. 2) devono essere interpretate in senso restrittivo (Corte di Giustizia 3 ottobre 2000, causa C-303/98, SIMAP, spec. punti 34-35 della motivazione).
Orbene, alla luce delle testé richiamate affermazioni dei giudici comunitari, appare discutibile l’estensione del regime di esenzione di cui all’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 66, alle attività del personale delle «biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato», essendo queste – per usare le parole dei giudici comunitari – difficilmente assimilabili, in condizioni normali, alle «attività specifiche del pubblico impiego destinate ad assicurare l’ordine e la pubblica sicurezza, indispensabili al buon funzionamento della vita sociale».
Ancora si osserva che in sede di stesura definitiva del testo del decreto si è ritenuto opportuno contemplare specifici adattamenti della emananda disciplina con riferimento a quei settori della pubblica amministrazione interessati da specifici regimi legali dell’orario di lavoro. Si è così giunti ad escludere dall’applicazione della nuova normativa il personale della scuola di cui al d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 66).
In merito al campo di applicazione del d.lgs. n. 66, deve infine segnalarsi la previsione (di cui all’art. 2, comma 4) volta ad estenderne il contenuto agli apprendisti maggiorenni, che risultano così assoggettati al lavoro notturno. Tale ultima possibilità era infatti – prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto – esclusa dall’art. 10, comma 4, l. n. 25/1955, la quale fissava il periodo d’interdizione notturna dal lavoro per questi lavoratori tra le 22 e le ore 6. Trattasi di una previsione assai discutibile nel merito data la presumibile minore professionalità del prestatore (come indicato dallo stesso tipo di contratto) che potrebbe aumentare i rischi per la salute e sicurezza dello stesso; essa si colloca tuttavia all’interno di una linea di tendenza espressasi recentemente nell’abolizione, ad opera dell’art. 21 della legge (comunitaria per il 2002) 3 febbraio 2003, n. 14, del divieto di lavoro notturno per gli apprendisti di età superiore ai 18 anni nell’ambito delle aziende artigianali di panificazione e di pasticceria, delle aziende del comparto turistico e dei pubblici esercizi.
5. Limiti settimanali dell’orario di lavoro e annuali dello straordinario. – Gli artt. 3 e 4 aprono il capo II del decreto rubricato Principi in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Il primo dei due articoli, riproducendo quasi testualmente i contenuti dell’art. 13, comma 1, l. n. 196/1997, dispone che l’orario «normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali»; esso facoltizza inoltre i contratti collettivi di lavoro a «stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore» e «riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno» (art. 3, commi 1 e 2).
Per quanto concerne l’ultima parte della norma, va anzitutto osservato come, dalla formulazione letterale del 2° periodo dell’art. 13, primo comma, l. n. 196, si potesse dedurre che soltanto i «contratti collettivi nazionali» erano abilitati a prevedere la flessibilizzazione annuale dell’orario normale settimanale legale, con esclusione dei livelli sottostanti. E si osservava come la scelta del legislatore del 1997 di ampliare il ruolo della contrattazione collettiva nazionale nella gestione dell’orario su medie ultrasettimanali non affrontasse «il problema di promuovere un effettivo controllo a livello aziendale da parte del sindacato o delle rappresentanze sui luoghi di lavoro, che pure sono i soggetti privilegiati dall’ordinamento ad intervenire in materia occupazionale (…) sugli istituti connessi all’orario di lavoro» (Scarponi, La recente disciplina legislativa in materia di orari di lavoro: l’inizio di una riforma?, in Lav. dir., 1998, pp. 141-142).
Viene qui in rilievo il problema della democraticità delle decisioni assunte dal soggetto collettivo (Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale della persona, durata della prestazione e rapporto tra le fonti, cit., p. 402), tanto più delicato in quanto la previsione di orari multiperiodali ad opera del contratto collettivo svolge una funzione costitutiva del potere unilaterale del datore di lavoro di variare la distribuzione dell’orario nel corso dell’anno (Allamprese, Riduzione e flessibilità del tempo di lavoro, cit., p. 93 ss.). Ciò pone evidentemente il problema di come assicurare al lavoratore a tempo pieno, e non soltanto a quello a tempo parziale, la possibilità di programmare i propri tempi di vita e di lavoro. E spiega la necessità che questo potere unilaterale di decisione attribuito (dalla fonte negoziale) all’impresa sia sottoposto, non soltanto ad un vincolo di congruità con specifiche esigenze aziendali, ma anche a vincoli procedimentali (informazione e consultazione sindacale), i quali coinvolgano le rappresentanze sindacali in azienda nella effettiva gestione e preventiva programmazione dei moduli flessibili di orario (il ché presuppone, a sua volta, un adeguato rinvio ad opera della sede contrattuale nazionale).
Orbene, l’art. 3 del d.lgs. n. 66/2003 parla ora di «contratti collettivi di lavoro», elidendo il riferimento al livello nazionale della fonte collettiva abilitata alla modulazione. Deve quindi senz’altro riconoscersi alla contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale e territoriale) la facoltà di operare all’interno dei confini posti dalla legge e dai contratti collettivi di settore, sulla base delle clausole di rinvio generalmente contenute in questi ultimi.
Il successivo art. 4 introduce una serie di limiti massimi settimanali, che dovrebbero condizionare il potere di modulazione dei contratti collettivi (come definito dall’art. 3) e la stessa possibilità di ricorrere a prestazioni di lavoro straordinario. In particolare si individuano due limiti paralleli di durata massima settimanale. Il primo, relativo alla singola settimana lavorativa, affidato alle libere determinazioni dell’autonomia collettiva (comma 1). Il secondo limite concerne invece la durata massima settimanale, intesa come valore medio all’interno di un arco di tempo determinato. Più precisamente, riproponendosi fedelmente la previsione di cui all’art. 6, n. 2, dir. n. 104, si stabilisce che la «durata media dell’orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario» (comma 2); siffatta durata media «deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi» (comma 3), con facoltà in ogni caso dei contratti collettivi di «elevare il limite di cui al comma 3 fino a sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi» (comma 4).
La fissazione di un limite massimo settimanale, comprendente lo straordinario, modifica l’intera prospettiva di contenimento delle prestazioni aggiuntive a quelle stabilite contrattualmente (c.d. “lavoro supplementare”). Viene infatti osservato come la possibilità di riferire, mediante i contratti collettivi (nazionali e/o di secondo livello), l’orario normale di lavoro alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo determinato (non superiore all’anno) comporti, con riferimento a specifici archi temporali, l’eventualità di un totale assorbimento dei limiti massimi di orario da parte della peculiare modulazione dell’orario normale. Il lavoro straordinario dovrebbe quindi ricollocarsi nei restanti periodi, nel rispetto degli specifici vincoli previsti dai contratti collettivi o, in assenza, dal legislatore. Conforme a tale prospettiva di valutazione viene considerata l’eliminazione del limite trimestrale delle 80 ore di cui all’ormai abrogato comma 2 dell’art. 5-bis, r.d.l. n. 692/1923 (come modificato dal d.l. n. 335/1998, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 409/1998) ed il mantenimento del solo limite annuale delle 250 ore (cfr. art. 5, comma 3, d.lgs. n. 66) (v. sul punto Tiraboschi e Russo, Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, cit., p. 19).
A quest’ultimo proposito, ci permettiamo di segnalare come sia abbastanza contraddittorio porre – come fa il testé citato art. 5, comma 3 – un limite quantitativo di 250 ore annuali entro cui, previo accordo tra datore e prestatore di lavoro, è consentito lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario (salva diversa previsione collettiva), nel momento in cui non si sa più quando le suddette prestazioni cominciano; in assenza di tetti giornalieri all’orario massimo ordinario e straordinario (v. oltre), lo straordinario diventa soltanto un conto “a consuntivo” fatto alla fine del periodo quadrimestrale, semestrale o annuale di riferimento. Il modello a cui si potrebbe andare incontro – il più equilibrato in un’ipotetica logica di scambio tra riduzione e flessibilizzazione dell’orario di lavoro – è il seguente: in cifra capitale, il conto delle ore si fa alla fine dell’arco temporale di riferimento per sapere se abbiamo o no superato le 40 ore medie per tutte le settimane; nel corso dell’anno, il disagio di lavorare oltre le 8 o le 10 ore giornaliere verrebbe compensato con una maggiorazione simile a quella prevista per il lavoro festivo a turni, che comunque comporta uno specifico compenso connesso alla maggiore penosità della prestazione lavorativa. Naturalmente, in questa prospettiva, nessun controllo vero sarebbe possibile sull’effettuazione delle ore di straordinario e la stessa previsione, importantissima sulla carta, contenuta nel citato art. 5, comma 3, quella cioè di uno straordinario volontario su base individuale, verrebbe frustrata dal fatto che il lavoratore stesso non saprebbe più a che punto è nello svolgimento quadrimestrale, semestrale o annuale e quindi se quell’ora che gli viene chiesta è o no un’ora straordinaria. Perché, se così sarà, lo sapremo soltanto alla fine del periodo di riferimento.
Peraltro, con riferimento al consistente allungamento del termine di adempimento degli obblighi di informazione ai servizi ispettivi di cui all’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 66, va rilevato come il superamento delle 48 ore settimanali mediante lavoro straordinario, nel nuovo sistema di limiti all’orario di lavoro assume significato esclusivamente “a consuntivo”, sulla base cioè della valutazione complessiva delle ore lavorate in un determinato periodo di riferimento. Non a caso, infatti, la scadenza temporale degli obblighi di informazione coincide con l’arco di tempo (quadrimestrale, semestrale o annuale) sulla base del quale calcolare il rispetto dei limiti legali di durata massima settimanale.
6. La questione dei limiti giornalieri. – L’esclusiva previsione di una durata oraria settimanale «normale» di 40 ore nell’art. 13, primo comma, l. n. 196/1997 aveva già portato alcuni Autori a considerare non più tipizzato normativamente il limite giornaliero dell’orario (massimo) normale. In effetti, stando almeno alla lettera della legge, si poteva ipotizzare che non vi fosse più una durata massima normale giornaliera di 8 ore, ma soltanto una durata oraria settimanale normale di 40 ore [su questa posizione, tra gli altri, Bellomo S., La disciplina dell’orario di lavoro tra normativa comunitaria, legge e contrattazione collettiva, in Santoro-Passarelli G. (a cura di), Flessibilità e diritto del lavoro, II, Giappichelli, Torino, 1997, p. 71]; questo pareva significare piena flessibilizzazione dell’orario della prestazione lavorativa all’interno della settimana e, se proprio avessimo voluto ricercare un limite orario giornaliero, avremmo dovuto dire che l’art. 13, l. n. 196/1997 ci aveva fatto il non troppo gradito dono di portare il limite massimo di orario giornaliero da 8 a 13 ore, visto che, per converso, il limite che ci consegna la direttiva n. 93/104 è quello di «11 ore consecutive» d’intervallo tra le prestazioni svolte in due giornate consecutive (art. 3).
Orbene, queste interpretazioni trovano ora conferma nel testo del decreto delegato, con l’eliminazione dei tetti massimi legislativi all’orario giornaliero normale e straordinario (abrogazione tacita – ai sensi dell’art. 19, comma 2 – degli artt. 1 e 5, r.d.l. n. 692/1923). L’art. 5 del decreto prevede oramai – come sopra ricordato – soltanto un limite di 250 ore annuali allo straordinario.
Alla soppressione dei tetti giornalieri all’orario massimo ordinario e straordinario fa da contrappeso solo la previsione del diritto ad 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 (art. 7), limite peraltro ampiamente derogabile ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 66.
Abbiamo in più occasioni sostenuto come su questa materia vi fossero ampi spazi per l’intervento del legislatore delegato. La possibilità di inserire, nelle norme delegate, dei tetti massimi legali alla giornata lavorativa, pur in assenza di un’espressa previsione in tal senso della direttiva n. 93/104 (art. 3) e dell’Avviso comune del 1997, derivava infatti direttamente dall’art. 36, comma 2, Cost.
Si può affermare che l’art. 3 della dir. n. 104 risponde, in maniera certamente compromissoria, ad una finalità: quella di fissare un periodo d’intervallo minimo tra le prestazioni svolte in due giornate consecutive. La stessa norma non risponde però agli obiettivi posti alla base del precetto costituzionale – di cui oggi ci si sta dimenticando – in base al quale la «durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge» (art. 36, comma 2), sicché spetta al legislatore fissare una durata massima contenuta della giornata lavorativa [si tratta – secondo una parte della dottrina – di una “riserva” di legge assoluta: v. per tutti Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale della persona, durata della prestazione e rapporto tra le fonti, cit., p. 91 ss.].
Dunque, la direttiva sull’orario, limitandosi a richiedere il rispetto di un «periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive», non riesce a dare una risposta esauriente alle esigenze imposte dalla nostra Costituzione. Può il legislatore italiano fare altrettanto? Può cioè – come fa il decreto in esame – non determinare un limite di durata massima contenuta della prestazione esigibile nell’arco della giornata, violando così sia l’art. 36, comma 2, Cost. sia la clausola di non regressione di cui all’art. 18, par. 3, dir. 104 (secondo la quale l’attuazione della direttiva medesima «non costituisce una giustificazione per il regresso del livello generale di protezione dei lavoratori»)? Le considerazioni che precedono ci portano a dire di no.
A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che il vincolo all’osservanza della clausola di non regressione costituisce sicuramente un criterio essenziale da tenere in considerazione in sede di attuazione della dir. n. 104, come di altre direttive comunitarie che la prevedano. Invero, tale clausola – secondo talune letture – non sembra porre alcun limite reale alla libera scelta degli Stati membri in ordine alla revisione in senso meno garantista delle originarie tutele interne, a condizione però che tale revisione non abbia come giustificazione l’attuazione della direttiva, che è proprio ciò che si propone il legislatore delegato nel caso di specie. La Corte costituzionale italiana ha già mostrato di attribuirvi rilievo nella sentenza 7 febbraio 2000, n. 45, con la quale la richiesta di referendum abrogativo della disciplina legale del part-time fu respinta, anche perché, diversamente, si sarebbe rischiato di dar luogo ad un assetto normativo con contenuti di tutela sicuramente inferiori a quelli previgenti: tali appunto da costituire una violazione della clausola di non regressione.
7. Pause e riposi giornalieri. – Il decreto delinea anche una disciplina di legge in materia di pause dal lavoro. L’art. 7 prevede, anzitutto, il principio secondo cui «ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore». Si tratta di una previsione che era assente nel previgente contesto normativo. Tale riposo giornaliero «deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata» e fatta salva la possibilità di deroga da parte dei contratti collettivi anche di secondo livello (cfr. art. 17, d.lgs. n. 66).
L’art. 8 prevede poi a favore del prestatore, in ottemperanza alla disposizione contenuta nella dir. n. 104 (art. 4), un tempo di pausa intermedia nell’orario di lavoro quotidiano. Da notare che nel previgente contesto normativo mancava, anche in questa materia, una norma generale; l’art. 5 del r.d. n. 1955 del 1923 si limitava – come noto – a distinguere i «riposi intermedi» dalle «soste di lavoro» (“pause interne” con funzione di alleggerimento dei ritmi di lavoro), escludendo entrambi dalla nozione di «lavoro effettivo». In assenza di una norma di legge in proposito, la materia era quasi integralmente disciplinata dalla contrattazione collettiva (soprattutto in riferimento ai lavoratori turnisti) e dalla produzione giurisprudenziale circa i riposi cc.dd. “fisiologici” (che vengono calcolati come orario di lavoro effettivo se contenuti entro limiti ristretti).
Tale prioritaria funzione dell’autonomia collettiva viene conservata dalla riforma, ma inquadrata all’interno di una specifica disciplina, prevedendosi anche una regolamentazione legale minima in assenza di disposizioni di contratto collettivo. Più specificamente si affida alla contrattazione, «qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore», la determinazione delle modalità e della durata dell’intervallo dal lavoro a cui hanno diritto i prestatori, «ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo». In difetto di disciplina collettiva che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, «al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo» (art. 8, commi 1 e 2, d.lgs. n. 66).
Rimangono infine «non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata» – con possibilità quindi per i contratti collettivi di riferire il diritto del lavoratore alla pausa a un periodo lavorativo, pur sempre di 6 ore, che occupi però anche i momenti di lavoro non effettivo – i periodi di cui agli artt. 5 del r.d. 10 settembre 1923, n. 1955 (per le aziende industriali e commerciali) e 4 del r.d. 10 settembre 1923, n. 1956 (per le aziende agricole) (art. 8, comma 3, d.lgs. n. 66); trattasi nel primo caso: 1) dei riposi intermedi c.d. normali, «che siano presi sia all’interno sia all’esterno dell’azienda», cioè le pause ad ore fisse indicate nella tabella oraria esposta in azienda (ai sensi dell’art. 12, r.d. n. 1955) concesse al lavoratore per il riposo e i pasti (art. 5, commi 1, punto 1, e 2, r.d. n. 1955); 2) il tempo impiegato per spostarsi dalla propria abitazione al «posto di lavoro» (art. 5, comma 1, punto 2); 3) le soste di lavoro «di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore (…) durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all’operaio o all’impiegato» (punto 3).
8. Riposi settimanali. – L’art. 9 del decreto detta la nuova disciplina in tema di riposo domenicale e settimanale. La legislazione previgente in materia appariva eccessivamente datata, a fronte viceversa di una giurisprudenza particolarmente attiva, sia sul versante della disciplina del commercio, che su quello, tecnicamente connesso, della regolamentazione del lavoro domenicale. A tale ultimo riguardo, era oramai indiscusso nel nostro ordinamento il diritto del lavoratore al riposo settimanale (art. 1, l. 22 febbraio 1934, n. 370; art. 2109, comma 1, c.c.; art. 36, comma 3, Cost.) ed era incontroverso, almeno secondo la giurisprudenza della Cassazione, che l’esigenza di recupero delle energie psico-fisiche potesse essere soddisfatta anche mediante la fruizione di tale riposo in giorno della settimana diverso dalla domenica (cfr., tra le altre, Cass. 17 aprile 1996, n. 3634, in Giust. civ., 1996, I, p. 2938; Cass. 20 gennaio 1989, n. 342, in Foro it., 1989, I, p. 1106). I giudici di legittimità hanno poi, in più di un’occasione, ritenuta legittima l’estensione, da parte del contratto collettivo o individuale, del riposo settimanale su periodi ultra-settimanali, a condizione che sussistessero interessi apprezzabili e fosse rispettata la regola che dopo 6 giorni di lavoro deve essercene uno di riposo (cfr. Cass. 6 giugno 1996, n. 5273, in Rep. Foro it., 1996, Lavoro (rapporto), 943; Cass. 22 luglio 1995, n. 8014, ibid., 1997, p. 353; Cass. 3 marzo 1993, n. 2702, ibid., 1993, p. 1039; ma tale ultimo principio di diritto non risulta affatto pacifico nella giurisprudenza: cfr. Cass. 4 novembre 1997, n. 10836, in Rep. Foro it., 1997, Lavoro (rapporto), n. 986; Cass. 27 gennaio 1996, n. 623, ibid., 1996, n. 1096; Cass. 28 novembre 1995, n. 12263, ibid., 1995, n. 935); un orientamento flessibile, questo, che nella dir. 104 è recepito da quella previsione (art. 16, n. 1) che legittima il computo del riposo settimanale di cui all’art. 5 («24 ore a cui si sommano le 11 di riposo giornaliero previste all’art. 3») nell’ambito di un arco temporale più ampio della settimana, ma non superiore a 14 giorni.
Ci si è posti la domanda (Ichino, Il lavoro e il mercato, Giuffré, Milano, 1996, p. 102) se il necessario contemperamento tra le esigenze di tutela del c.d. “tempo libero qualificato” (cioè del tempo di vita «che deve poter essere speso insieme al coniuge, ai figli, o ad altre persone con cui il lavoratore stesso intrattenga una relazione associativa o di altro genere») e le esigenze obiettive di continuità del lavoro in alcuni servizi pubblici e nei processi produttivi a ciclo continuo, possa essere perseguito meglio attraverso un divieto generale del lavoro festivo, temperato da mille deroghe stabilite dalla legge (combinato disposto dell’artt. 3, comma 1, e degli artt. 5 e ss. della l. n. 370/1934); o se invece non sia meglio lasciare che sia la contrattazione collettiva ad indicare i casi in cui il lavoro può o non può svolgersi di domenica, limitandosi la legge a stabilire una congrua maggiorazione della retribuzione per il lavoro domenicale, non derogabile in senso sfavorevole al lavoratore, in omaggio al principio enunciato in proposito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 22 gennaio 1987, n. 16 (in Foro it., 1987, I, p. 666).
Rispetto alle suddette sollecitazioni dottrinali, il legislatore di riforma – preso atto della sostanziale indifferenza dell’ordinamento giuridico comunitario circa la collocazione temporale del periodo di riposo settimanale ed in linea con le indicazioni dell’Avviso comune del 1997 (cfr. i punti 1-4 dell’articolo relativo al Riposo settimanale) – ha scelto di adottare la tradizionale tecnica normativa. E così il comma 1 dell’art. 9, dopo aver sancito il diritto del lavoratore «ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive (…) da cumulare con le ore di riposo giornaliero di cui all’art. 7», ha stabilito il principio della normale coincidenza di tale riposo con la domenica.
Tale principio, come anche il diritto al riposo settimanale, sono però sottoposti a una nutrita serie di eccezioni. Esse riguardano: a) le attività di lavoro a turni ogni volta che il lavoratore cambi squadra e non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero o settimanale; b) le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata (si pensi al part-time nelle imprese di pulizia, ma in generale a tutte le attività del commercio con lavoro frazionato); c) per il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari: le attività discontinue; il servizio prestato a bordo dei treni; le attività connesse con gli orari del trasporto ferroviario che assicurano la continuità e la regolarità del traffico ferroviario.
Resta da valutare la legittimità costituzionale del suindicato complessivo sistema di deroghe: questione peraltro non attinente alla collocazione temporale del giorno non lavorativo, in quanto assenti al riguardo specifiche norme costituzionali, bensì alla stesa regola della periodicità settimanale del riposo, principio espressamente stabilito dall’art. 36, comma 3, Cost. Il riferimento problematico è in particolare alla possibilità dei contratti collettivi, ex art. 9, comma 2, lett. d), di «stabilire previsioni diverse» dalle ipotesi legali di deroga al principio del riposo ebdomadario, configurandosi quindi un regime di ipotesi derogatorie sostanzialmente indeterminato (cfr. Tiraboschi e Russo, Prime osservazioni sull’attuazione della direttiva n. 93/104/Ce, cit., p. 23).
Tale profilo di analisi si colloca peraltro in un percorso logico-argomentativo già affrontato dalla giurisprudenza costituzionale con esiti contrastanti.
Da un lato, secondo la Consulta – ma la giurisprudenza ordinaria appare diversamente orientata – l’art. 36, comma 3, Cost. configurerebbe la periodicità settimanale del riposo come principio generale, destinato ad informare la disciplina dell’istituto senza precludere l’introduzione di regimi derogatori speciali.
La regolarità costituzionale di siffatte discipline è tuttavia – secondo un consolidato orientamento della Corte Costituzionale – subordinata alla ricorrenza di alcuni presupposti: a) mantenimento di una media di 6 giorni di lavoro e di 1 di riposo, con riferimento ad un arco temporale complessivo ed in modo da non snaturare la periodicità tipica della pausa; b) «evidente necessità» delle eccezioni a tutela di altri ‘apprezzabili’ interessi, identificabili di norma con quelli produttivi; c) ragionevole contemperamento tra le esigenze della salute dei lavoratori e quelle, particolari, di speciali attività produttive (cfr., tra le altre, Corte cost. 7 maggio 1975, n. 101, in Riv. giur. lav., 1975, II, p. 335; Corte cost. 15 dicembre 1967, n. 150, in Giur. cost., 1967, II, p. 17).
Dall’altro lato, lo stesso giudice costituzionale ha precisato che come per la disciplina delle ferie – e a differenza di quanto riscontrabile per i limiti massimi dell’orario di lavoro – anche per l’istituto in oggetto in Costituzione non è riinvenibile una riserva di legge: negli spazi da quest’ultima non coperti o rimessi alle fonti sottordinate, sono perciò ammissibili regimi differenziati, sia regolamentari che contrattuali, purché rispettosi, a pena di caducazione radicale, dei tratti fisionomici essenziali dell’istituto (Corte cost. 30 giugno 1971, n. 146, in Foro it., 1971, I, p. 2140). Si registra, tuttavia, anche un orientamento più rigido, secondo il quale il principio del riposo ebdomadario di 24 ore consecutive (art. 36, comma 3, Cost.; artt. 1 e 3, l. n. 370/1934; art. 2109 c.c.) ha carattere rigidamente imperativo e può essere derogato solo da specifica previsione legislativa, non da disposizioni contrattuali (individuali o collettive), le quali pertanto debbono considerarsi invalide (cfr. Cass. 11 luglio 1996, n. 6327, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, p. 113, con nota di Nogler; Cass. 28 novembre 1995, n. 12263, in Foro it., 1996, I, p. 1746; Cass. 23 dicembre 1991, n. 13895; Cass. 25 ottobre 1985, n. 5266, in Orient. giur. lav., 1986, I, p. 491).
Ad esigenze di razionalizzazione della materia è riconducibile anche il riferimento alla necessaria correlazione tra l’individuazione di ipotesi derogatorie e la concessione di «periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata» [art. 17, comma 4, come richiamato dall’art. 9, comma 2, lett. d)]. Viene così sostanzialmente formalizzata la dominante tesi giurisprudenziale che negava la liceità di quelle clausole collettive che prevedevano la mancata concessione del riposo settimanale con definitiva perdita dello stesso (cfr. in particolare Cass. 16 luglio 1998, n. 6985, in Notiz. giur. lav., 1998, p. 713).
9. Ferie annuali. – Tra i numerosi profili di inadeguatezza del nostro ordinamento rispetto alla direttiva n. 93/104 vi era quello concernente la durata minima delle ferie retribuite.
Rispetto a queste ultime, la direttiva 104 garantisce un periodo minimo di 4 settimane, rinviando alle legislazioni e/o prassi nazionali la determinazione delle relative condizioni di ottenimento e di concessione (comma 1). La durata minima delle ferie non può essere sostituita da una «indennità economica», salvo il caso di cessazione del rapporto (comma 2). Al contrario, quella durata minima era – prima dell’entrata in vigore del decreto in commento – fissata in sole tre settimane dalla Convenzione OIL n. 132 del 1970, ratificata dall’Italia con la l. n. 157 del 1981 (di cui restava opinabile la portata precettiva, in particolare per gli argomenti che si addurranno di qui a poco). Né – come è stato recentemente osservato (Leccese, L’orario di lavoro. Tutela costituzionale della persona, durata della prestazione e rapporto tra le fonti, cit., p. 418, ove ulteriori richiami alla dottrina favorevole e contraria a nota 20) – all’inadeguatezza del dato interno testé segnalata sembrava potessero supplire le discipline contrattuali collettive (cui pure il comma 2 dell’art. 2109 c.c. demanda la determinazione della durata del periodo annuale di ferie retribuito).
Il profilo di inadeguatezza in parola sembrava, peraltro, ancora più evidente a seguito della pronuncia della Corte di giustizia 26 giugno 2001 (caso BECTU, cit.). Tale sentenza induce a riflettere sul significato e sulla forza che il diritto materiale dell’Unione europea ha acquistato e continua a riverberare. Nel senso che dal corpo di certe direttive è possibile enucleare – anche sulla base della giurisprudenza comunitaria – un corpus di norme sociali fondamentali non declinabili in peius dalla normativa interna di qualsiasi rango. Una riprova di quanto detto è offerta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata al Consiglio europeo di Nizza (7 dicembre 2000), alla quale (art. 31, comma 2) si appoggia la Corte di Lussemburgo laddove afferma che «il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite va considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario, al quale non si può derogare» (punto 43 della motivazione). Non v’è dubbio che questa statuizione dei giudici comunitari poneva limiti tanto all’autonomia individuale quanto all’autonomia collettiva, e rendeva non più applicabili norme di altre fonti (come quelle internazionali dinanzi citate) che sono con essa confliggenti.
Ebbene, l’art. 10 del d.lgs. n. 66 prevede ora il diritto del lavoratore a un periodo annuale di ferie non inferiore a 4 settimane, salva la possibilità dei contratti collettivi di prevedere disposizioni più favorevoli. Viene quindi superata la già citata previsione della Convenzione OIL n. 132 del 1970. Viene invece espressamente mantenuta la disciplina di cui all’art. 2109 c.c., che attribuisce al potere dispositivo del datore di lavoro la scelta del periodo feriale, potere da esercitarsi nel contemperamento delle esigenze dell’impresa con gli interessi del prestatore di lavoro.
L’art. 10 del decreto provvede anche a meglio specificare un principio già affermato a livello costituzionale (art. 36, comma 3, Cost.) e cioè l’irrinunziabilità delle ferie. Si afferma che il predetto periodo minimo di 4 settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
10. Disposizioni transitorie e abrogazioni. – Il d.lgs. n. 66 è entrato in vigore il 29 aprile 2003. Da tale data hanno cessato di efficacia «tutte le disposizioni legislative e regolamentari» nella materia disciplinata dal decreto delegato medesimo, salvo le disposizioni «espressamente richiamate e le disposizioni aventi carattere sanzionatorio» (art. 19, comma 2).
In definitiva, la normativa oggi in vigore risulta formata: a) dalle nuove disposizioni contenute nel decreto legislativo in commento; b) dalle previsioni degli articoli di legge che sono dichiarati ancora in vigore (le disposizioni aventi carattere sanzionatorio); c) dalle disposizioni ulteriori «espressamente richiamate» negli articoli della nuova legge. Al di fuori delle suddette tre ipotesi, tutte le norme che precedentemente disciplinavano la materia dell’orario di lavoro sono abrogate.
Quanto alla seconda parte dell’art. 19, comma 2, in teoria tutte le disposizioni di carattere sanzionatorio sono rimaste in vigore. La difficoltà nasce dal fatto che viene abrogata la norma sostanziale ma rimane in vita quella sanzionatoria. Il problema esiste ed un’Autrice, in un recente lavoro monografico (De Felice A., Le sanzioni nel diritto del lavoro, Esi, Napoli, 2003), si interroga anche su questo modo sempre più diffuso di fare salve le vecchie sanzioni senza commisurarle ai mutamenti del precetto, ossia senza verificare in concreto la norma sotto il profilo importantissimo della sua effettività. Questo è già capitato con il contratto a termine, con il lavoro sommerso, con il collocamento pubblico. Chissà cosa accadrà in futuro. Il fatto è che la sanzione viene considerata qualcosa di estrinseco al precetto e ciò perché finora hanno funzionato meglio delle tradizionali sanzioni i meccanismi automatici, l’inderogabilità in pejus, le conversioni legali. Ma quid iuris in un mercato del lavoro retto da norme ancora più ‘liberiste’?