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Home - Approfondimenti - Analisi - Il decreto di San Valentino e la stagione della concertazione – 2 puntata

Il decreto di San Valentino e la stagione della concertazione – 2 puntata

di Leonello Tronti
9 Marzo 2021
in Analisi
Il decreto di San Valentino e la stagione della concertazione – 1° puntata

Roma - 23 gennaio 1983 - firma sul costo del lavoro. Da sinistra Pierre Carniti (secondo), Luciano Lama (terzo) e Giorgio Benvenuto (quarto)

  1. I patti di luglio e il real wage cap

Il biennio 1984-1985 risulta cruciale per comprendere i successivi sviluppi della società e dell’economia. La fragilità dell’unità sindacale, esplosa allora in tutta la sua evidenza, condiziona infatti il successo della stagione della concertazione e con esso la storia sociale ed economica del Paese. Alla disdetta fanno seguito i due patti trilaterali di luglio, di nuovo a gran fatica unitari. Quello del 1992, condotto in porto da Giuliano Amato con forti resistenze della CGIL, sancisce la definitiva abrogazione della scala mobile ma assume in cambio la tutela del potere d’acquisto dei salari come priorità politica del governo, che promette di proporre a breve alle parti sociali un nuovo modello contrattuale. Il successivo presidente del Consiglio (Carlo Azeglio Ciampi) si adopera con determinazione per ottenere, il 23 luglio 1993, la firma di tutte e tre le confederazioni a un ulteriore accordo trilaterale che vara un nuovo modello contrattuale (il doppio livello negoziale che permane, con qualche modifica, ancora oggi), istituzionalizza la concertazione sociale tripartita della politica dei redditi e dell’inflazione programmata, con due incontri annuali, uno in primavera e uno in autunno, e vara un programma di politica industriale e del lavoro che traccia un disegno (mai realizzato) di ammodernamento dell’intero sistema produttivo.

Nelle speranze di Ciampi, la concertazione della politica dei redditi è “un metodo per governare” di cui l’Italia ha un immediato e urgente bisogno per far fronte alla crisi occupazionale in corso dal 1991 e agli effetti della grande, ultima svalutazione con cui la lira è uscita di scena[1]. Per il premier, il valore dell’esperienza andrà giudicato soprattutto sulla base dei risultati della terza parte del protocollo: quel vero e proprio programma pluriennale di governo, di ammodernamento dell’apparato produttivo, del sistema delle relazioni industriali e dell’intero sistema economico, che spera sia considerato dal sindacato la contropartita nello scambio politico in cui ha sì concesso regole di stringente moderazione della dinamica salariale ma ottenendo in cambio di istituzionalizzare la sua partecipazione alla definizione della manovra economica.

Il successo della concertazione sociale della politica economica richiede, però, almeno due presupposti concreti[2]. Anzitutto che il Governo sia cosciente del ruolo della concertazione stessa come strumento di governo dell’economia, in un percorso di riforma e di programmazione dello sviluppo, non solo ai fini del rientro dell’inflazione ma per la gestione a tutto tondo della difficile fase in cui si trova impegnato su tre fronti di vitale importanza: l’impatto crescente delle nuove tecnologie, la realizzazione del grande Mercato Unico Europeo con l’adozione della moneta unica, e la globalizzazione degli scambi commerciali. Il secondo presupposto al successo della concertazione consiste nell’affidabilità dei contraenti e nell’effettualità delle procedure negoziali (di cui l’unità sindacale, ricostruita a fatica, è fondamento ineludibile).

Il meccanismo dello scambio politico si incepperà su entrambi i fronti, ma immediatamente sul primo. Nel 1994 entra infatti in politica Berlusconi e la sua caratterizzazione sociale e ideologica è semplicemente dirompente rispetto al quadro precedente. La forza politica del nuovo premier è però ancora relativamente debole e il centrosinistra torna al governo nel 1996 con Prodi, dopo la breve parentesi tecnica del governo Dini. Ma già nel 1998, con il Patto di Natale, si tocca un limite anche sul secondo fronte. È infatti lo stesso esecutivo D’Alema che da un lato moltiplica i firmatari del nuovo patto ma dall’altra richiama l’urgenza della nuova fase della cosiddetta riforma “federalista” del Titolo V della Costituzione, per affermare che la concertazione dello sviluppo va decentrata dal livello nazionale a quello regionale: un passaggio ancora oggi incompiuto.

Nel frattempo, peraltro, sul modello contrattuale del 1993 si erano manifestate le critiche della commissione di verifica, prevista dal Protocollo stesso, istituita da Prodi nel 1997 e presieduta da Gino Giugni. Queste si rivolgono essenzialmente su tre punti: a) la concertazione è afflitta da un problema giuridico di collocazione nel disegno istituzionale previsto dalla Costituzione; b) esiste un rilevante  problema culturale, soprattutto sindacale (ma non solo), a gestire in modo opportuno i due livelli contrattuali e in particolare quello decentrato; c) esiste un ancor più evidente problema macroeconomico legato alla struttura della contrattazione: seppure il contratto nazionale mostra di tutelare in modo adeguato il potere d’acquisto delle retribuzioni senza effetti di trascinamento dell’inflazione (rendendo con ciò infondato ogni richiamo alla necessità di reintrodurre la scala mobile), la diffusione della contrattazione decentrata si rivela del tutto insufficiente ad assicurare una crescita adeguata delle retribuzioni reali.

Col senno di poi[3] si può constatare che il modello contrattuale a due livelli disegnato dal protocollo del ’93, rimasto in questo inalterato fino ad oggi, data la limitata diffusione della retribuzione decentrata impone alla dinamica salariale dei lavoratori italiani un real wage cap: un vero e proprio tetto alla crescita delle retribuzioni reali. Il vincolo causa per la larga maggioranza un risultato di stagnazione del potere d’acquisto significativamente al di sotto della crescita della produttività che dura ormai da un quarto di secolo e non trova paragone alcuno in altri paesi avanzati, né nell’area dell’euro né altrove, con gravi ripercussioni sulla crescita dei consumi e quindi degli investimenti e dell’intera economia.

Tuttavia, nell’immediato la stagnazione salariale è una carta vincente. Infatti, è proprio grazie ad essa che l’Italia riesce dal 1991 al 1999 a frenare significativamente l’inflazione (dal 7,1 all’1,9%) nonostante l’ultima, grande svalutazione della lira del settembre ’92 (-30% sul marco), ottenendo di entrare nell’euro alla prima chiamata. Al tempo stesso viene arginata prima e rovesciata poi la crisi occupazionale del 1992-95, con il sostegno ad adjuvandum della liberalizzazione dei rapporti di lavoro realizzata dal pacchetto Treu (1997). Ai fini del benessere delle famiglie, la stagnazione salariale è almeno in parte compensata dall’aumento dell’occupazione, in particolar modo femminile, seppure con contratti sempre più flessibili e a tempo parziale.

Tra il 1990 e il 2007 gli occupati crescono infatti di 1,4 milioni (di 1,5 milioni le donne, mentre gli uomini si riducono di 111 mila unità); il tasso di occupazione complessivo aumenta di 3,8 punti (di otto punti per le donne, mentre per gli uomini si riduce di sei decimi di punto), e quello di disoccupazione scende dal 9,1 al 6,2% senza alcun surriscaldamento delle rivendicazioni salariali. La nuova occupazione è fortemente influenzata dai rapporti di lavoro flessibili: per quasi il 40% si tratta di contratti a tempo determinato e per il 51% di rapporti a tempo parziale (di durata sia determinata che indeterminata). Nonostante la crescita occupazionale e un incremento del valore aggiunto per unità di lavoro di circa il 17%, l’assenza di contrattazione decentrata fa sì che la quota di valore aggiunto dell’economia che remunera il lavoro dipendente cada dal 46,2 al 42,4%, una differenza che a prezzi del 2007 vale più di 61 miliardi di euro. (Fine seconda puntata/ segue)

Nota: Il testo qui pubbicato è parte di un lavoro che è stato pubblicato per intero in  Aa. Vv. (2020), UIL 1950-2020. La nostra storia studiata, Arcadia Edizioni, Roma, pp. 137-150.

Leonello Tronti (Università degli Studi Roma Tre)

[1] Si veda, su quell’esperienza, il libro di Carlo Azeglio Ciampi, “Un metodo per governare”, Bologna, Il Mulino, 1996.

[2] Il tema dei presupposti per il successo di una politica di concertazione è trattato approfonditamente in Tarantelli, 1986, cit.

[3] Su questo aspetto si vedano i lavori dello scrivente: Protocollo di luglio e crescita economica: l’occasione perduta, in Rivista internazionale di scienze sociali, n. 2, 2005; La crisi di produttività dell’economia italiana: modello contrattuale e incentivi ai fattori, in “Economia & lavoro”, n. 2, 2010; e Il mercato rende diseguali? Il ruolo della contrattazione e delle istituzioni del mercato del lavoro, in M. Franzini e M. Raitano (a cura di) (2018), “Il mercato rende diseguali?”, il Mulino, Bologna, (con Andrea Ricci).

Leonello Tronti

Leonello Tronti

Università degli studi Roma Tre

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