Di Maurizio Ricci
Fare impresa in Italia è, prima di tutto, una fatica. Che non ha niente a che vedere con il rischio, l’imprenditorialità, la capacità di navigare confronti e conflitti con i fornitori, i lavoratori e i loro sindacati, i concorrenti, i clienti. E’ una fatica che si somma a tutto questo, tanto più opprimente, perché non è necessaria e inevitabile. E’ una fatica che usura la voglia di impresa e spaventa chi può tenersene lontano. Nonostante la propaganda, quando si chiede ad un imprenditore straniero perché non investe in Italia, in ballo non entrano i sindacati, gli scioperi, la produttività, il costo del lavoro. Ma, soprattutto, due cose. Uno, i tribunali e l’eterna incertezza delle cause di lavoro. Due: il peso, monetario e burocratico, del fisco.
Su questo secondo aspetto, getta luce una ricerca condotta dalla World Bank, insieme ai consulenti aziendali della Price Waterhouse Cooper, che mette a confronto i regimi fiscali sulle imprese in quasi 150 paesi e, in particolare, in Europa. Ne viene fuori che l’Italia non ha solo il record della pressione fiscale sul singolo contribuente, ormai – se sottraiamo gli evasori e consideriamo solo il reddito dichiarato – superiore al 50 per cento. Alle imprese, va anche peggio. L’aliquota fiscale complessiva sul reddito di impresa (tutto compreso: fisco, contributi sociali, imposte locali e tasse in genere) arriva in Italia al 65,8 per cento, per un’azienda di 60 dipendenti. Quasi due terzi esatti. In Europa, è un record. La Francia non supera il 64,7 per cento. All’opposto, in Gran Bretagna siamo al 34 per cento, la metà dell’Italia. Ma non è solo un problema di modello anglosassone. In altri paesi-simbolo del modello sociale dell’Europa continentale, paesi dal welfare pesante, il fisco è, comunque, assai più leggero che da noi. In Germania, la tassazione sulle imprese è al 49,4 per cento. In Svezia, al 52 per cento.
E’ significativa anche la distribuzione delle varie voci all’interno di questo onere. La Francia, ad esempio, mostra un cuneo fiscale anche superiore al nostro, con un peso dei contributi sociali che arriva al 51,7 per cento, contro il nostro 43,4 per cento. Al confronto, paesi che siamo soliti associare all’idea di Stato-balia, riescono a comprimere assai meglio i contributi sociali sulle buste paga: in Germania, siamo al 21,8 per cento; in Svezia, dopo mezzo secolo di socialdemocrazia, al 35,5 per cento. Al contrario, la tassazione specifica sul profitto d’impresa – che forse incide di più sulle decisioni di investimento – è racchiusa in un ventaglio abbastanza ristretto. Chi tassa di più i bilanci aziendali è la Germania (al 23 per cento), mentre l’Italia è al 20,3 per cento. Fra questi due valori si collocano anche Spagna, Danimarca, anche Gran Bretagna. Ma già in Svezia si scende al 16 per cento. E, in Francia, le imposte dirette sui ricavi sono solo all’8,7 per cento, quasi una forma di dumping fiscale, rispetto agli altri paesi.
Ma le tasse non sono solo soldi. Sono anche impegno e attenzione. E rieccoci nel ruolo di chi rende le cose difficili. L’Italia impone alle aziende 15 adempimenti fiscali. In Germania sono 9, in Francia 7. In Svezia, solo 4. Significa distogliere, comparativamente, più risorse, persone ai rapporti con il fisco. E più tempo. Tanto tempo: per assolvere agli adempimenti fiscali, quell’impresa di 60 dipendenti, in Italia, deve dedicare 269 ore di lavoro l’anno. Certo, in Guinea ce ne vogliono 440, ma, in Europa, quello italiano è l’ennesimo record negativo. Con i pedanti tedeschi ce ne vogliono 218, ma, altrove, si va molto più spediti. In Francia, bastano 132 ore, in Svezia 122, l’equivalente di una settimana di lavoro per tre persone. In Gran Bretagna, un’impresa se la cava con anche meno: 110 ore e non ci pensa più.