di Claudio Negro – Segretario Uil Lombardia
Ragionare di riforma del modello di contrattazione significa ragionare allo stesso tempo di politica dei redditi: le regole della contrattazione sono infatti uno dei principali elementi su cui la politica dei redditi costruisce le proprie politiche redistributive. Non a caso, quando la politica dei redditi è diventata modello accettato delle parti sociali e dalle istituzioni, ci si è dotati appunto di un modello contrattuale adeguato: il protocollo Ciampi del ’93 orientava la politica dei redditi alla lotta all’inflazione e sceglieva come strumento principale la modulazione salari/inflazione programmata. A questo scopo veniva fortemente privilegiata e regolata la contrattazione nazionale. La contrattazione di secondo livello, affermata in linea di principio, era sacrificata nei fatti (oggi copre solo 1/3 dei lavoratori, e distribuisce una quota sul monte salari complessivo di circa il 4%).
La centralizzazione della contrattazione, come garanzia di politiche rivendicative moderate, è una tipica politica da tempi di crisi. E ha funzionato: in questi 10 anni le retribuzioni sono aumentate molto poco in termini reali, così come la produttività. La quota delle retribuzioni nel valore aggiunto è diminuita; ma quel poco di crescita che c’è stata si è trasformata quasi tutta in aumento di occupazione, e nel frattempo l’inflazione si è ridimensionata ai livelli perseguiti.
Ricontrattare oggi un patto che generi una nuova politica dei redditi significa darsi obiettivi ben diversi: un aumento delle retribuzioni senza ricadute inflattive, e una partecipazione più ampia al mercato del lavoro. Entrambi passano inevitabilmente attraverso una riforma del modello contrattuale, che lo trasformi da sistema fortemente accentrato a diffusa contrattazione decentrata.
Questo perché, innanzitutto, il modello centralizzato esclude i lavoratori più deboli, quelli delle piccole e piccolissime imprese, dalla partecipazione agli incrementi di produttività, poiché li esclude dalla contrattazione di secondo livello, che si svolge solo nelle imprese maggiori. Ben lungi dal garantire uniformità delle retribuzioni, il modello centralizzato determina un crescente grado di disparità, motivato non da riscontri oggettivi (maggior produttività o migliori risultati) ma unicamente da diversa forza negoziale. Se poi si tenta, tramite la contrattazione nazionale, di aumentare il grado di copertura salariale generale si rischia di produrre rigidità retributive dannose per aziende, comparti o aree geografiche più deboli.
Lo spostamento del baricentro della contrattazione dal centro alla periferia consente invece di collegare alla produttività o alla redditività notevoli incrementi della retribuzione complessiva distribuita. A questo scopo, però, il livello decentrato dovrebbe acquisire una funzione tendenzialmente prevalente in materia retributiva, sottraendo al Ccnl competenze in materia di flessibilità della prestazione, orario di lavoro e salario. Assetto, questo, il cui graduale raggiungimento potrebbe essere agevolato da modalità a termine, quale quella che fu suggerita dalla commissione di studio per la verifica del protocollo Ciampi, di inserire nei Ccnl clausole in uscita, secondo il modello tedesco, che consentano deroghe transitorie, negoziate in sede locale, alla disciplina contrattuale.
Ma la politica salariale ha anche un ruolo determinante nelle politiche dell’occupazione. E infatti la UE raccomanda politiche salariali che tengano conto dei diversi livelli di produttività e delle diverse condizioni dei mercati del lavoro: in aree di pieno impiego le spinte sono all’aumento del potere d’acquisto delle retribuzioni; dove la priorità è la crescita dell’occupazione la UE sollecita politiche salariali che rendano conveniente puntare su un costo del lavoro inferiore, eventualmente accompagnato da sgravi contributivi e fiscali per i salari più bassi. E’ una logica che ci riporta alle gabbie salariali? No, se la diversificazione retributiva è frutto della contrattazione collettiva territoriale. Sono invece gabbie salariali all’incontrario quelle che impongono un salario uguale a prescindere dai fattori di costo e di produttività reale, e che penalizzano l’investimento nelle aree deboli e il reddito dei lavoratori nelle aree forti.
Questo approccio alla questione della riforma della contrattazione implica di individuare anche il territorio, e non solo l’azienda, come sede del negoziato di secondo livello. Un livello territoriale di contrattazione consentirebbe:
· la realizzazione di un livello negoziale integrativo per quelle imprese che non fanno contrattazione aziendale (sul modello artigiani o commercio o edilizia); quindi l’effettiva generalizzazione della contrattazione decentrata e la possibilità di alleggerire il Ccnl;
· il collegamento delle politiche rivendicative, con il sistema della cooperazione negoziata che sta alla base dei sistemi di sviluppo locale (i distretti industriali);
· una politica rivendicativa in funzione di obiettivi di crescita mirati sulle esigenze del sistema territoriale (rafforzamento della competitività, incremento occupazionale)
E’ chiaro che introdurre la contrattazione territoriale come sede negoziale di secondo livello implica una forte innovazione del sistema della contrattazione collettiva e un forte spostamento del suo baricentro dal centro alla periferia. Naturalmente la contrattazione territoriale dovrebbe essere alternativa, e non aggiuntiva a quella eventualmente svolta in azienda, ma potrebbe diventare nei fatti esigibile come sede di ultima istanza per quelle aziende che non facciano negoziato aziendale.
Come? Una strada è quella indicata dall’art. 10 della l.30, che subordina, con una prassi peraltro sperimentata in alcuni comparti, il riconoscimento di benefici normativi e contributivi al rispetto integrale delle disposizioni contrattuali, sia nazionali che territoriali o aziendali; e suggerisce anche una novità di orientamento giurisprudenziale: la pari dignità riconosciuta dal legislatore alla contrattazione collettiva nazionale e a quella decentrata segnala infatti esplicitamente un cambio di equilibri del sistema contrattuale. Una novità prontamente recepita dall’accordo interconfederale dell’artigianato del 3 marzo 2004, che istituisce due livelli contrattuali (nazionale e regionale) non articolati gerarchicamente, com’è nel classico “rimando” alla contrattazione integrativa, ma coordinati funzionalmente, in base alle specifiche competenze di ciascun livello.
Il nocciolo di una riforma della contrattazione collettiva sta naturalmente nel ridefinire i rapporti tra Ccnl e contrattazione decentrata delimitando le competenze. Rispetto al nodo principale, cioè trasferire alla periferia quote crescenti di autorità sulle politiche retributive, una soluzione interessante è quella dell’accordo del comparto artigiano, che delega al livello nazionale l’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione attesa e al livello regionale il recupero eventuale tra inflazione prevista e inflazione reale nonché la redistribuzione degli incrementi di produttività del lavoro. Un’altra strada potrebbe essere quella di non considerare, in sede di contrattazione nazionale, l’inflazione programmata (prendendo atto del fatto che la priorità del sistema contrattuale non è più la lotta all’inflazione) ma di negoziare i minimi tabellari tenendo conto del margine che si vuole lasciare per la redistribuzione della produttività a livello locale.
Un’ipotesi stimolante e provocatoria è quella, accennata da Ichino e Boeri, di introdurre l’istituto del salario minimo garantito, meglio se accompagnato da sgravi fiscali e contributivi per i salari più bassi, modulabile anche per aree territoriali e fasce di età in funzione di obiettivi occupazionali. Esso dovrebbe liberare il Ccnl dalla funzione “impropria”, acquisita con la giurisprudenza corrente, di stabilire i minimi contrattuali cui riferire il concetto di giusta retribuzione richiamato dall’art.36 della Costituzione. In questo modo si porrebbe in modo completamente diverso il problema dell’erga omnes degli accordi collettivi, che verrebbe riportato al suo ambito naturale (l’art.39 e la questione della rappresentanza sindacale e della sua misurazione). Il salario minimo incoraggerebbe la contrattazione decentrata, che verrebbe ad esercitarsi in condizione di minor vincolo rispetto al livello nazionale.
Riformare il sistema della contrattazione non è cosa che si possa fare alla leggera, ma l’attuale modello fondato sulla centralizzazione ce lo portiamo dietro, nelle sue linee di fondo, dal lodo Scotti del 1983. La discussione sulla sua revisione non è semplice né indolore, ma non può essere rinviata: c’è una forbice crescente tra rigidità della contrattazione nazionale ed esigenze concrete del lavoro. Se la forbice non si chiude, il sistema della contrattazione collettiva può disarticolarsi per spinte spontanee (pensiamo al comparto del trasporto locale) o ridursi gradualmente al ruolo di “tutela povera”, lasciando largo spazio alla contrattazione individuale.



























