Siamo in emergenza previdenziale per i giovani. I più, la ignorano. Ma c’è anche chi pensa ai rimedi. La prospettiva di svariati milioni di pensionati al di sotto della soglia di povertà intorno al 2040, avanza come uno spettro nell’Italia che fa i conti con una miscela micidiale: la stabilizzazione della spesa previdenziale e la destrutturazione del mercato del lavoro. Eppure la cosa non è all’ordine del giorno per gli opinion leader. In controtendenza, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha sorpreso per la sua improvvisa conversione a favore del lavoro stabile, dopo anni di liberismo sfrenato. I suoi fedeli hanno sollevato il ciglio con disappunto. Politici poco accorti e commentatori paludati continuano invece ad infierire sui giovani bamboccioni che sgomitano per il posto fisso. Senza impegnare l’istituto della solidarietà, il solo buon senso dovrebbe suggerire che la povertà costa alle casse statali. Perché un paese minimamente civile ha l’obbligo di provvedere alla sopravvivenza della parte meno fortunata della sua popolazione, specie se numerosa. Se ne preoccupava Otto von Bismarch alla fine dell’Ottocento. Ma quello era un principe. E intorno al 2040 la popolazione anziana sarà un esercito. L’integrazione al suo reddito produrrà voragini nei conti pubblici se non si interviene subito.
Quei milioni di futuri pensionati poveri a legislazione invariata, sono le generazioni che in questo inizio di millennio stanno entrando nel mondo del lavoro. Vi entrano con contratti atipici in misura non marginale, ne escono per lunghi periodi, rimangono nella condizione precaria per parecchio tempo. Qui sta l’emergenza. Per la statistica sono lavoratori a tempo determinato. Nel 2007, due milioni e 269 mila presenze su un totale di 17,2 milioni di occupati. Il 13 per cento, in rapida crescita. In tre anni, i contratti atipici sono aumentati del 19 per cento. Se passiamo dallo stock ai flussi, il quadro è reso più drammatico dall’andamento delle nuove assunzioni. Prendiamo una serie a caso, 2001-2008. Su 5,8 milioni di ingressi, oltre un terzo è stato a tempo determinato. Mediamente, il 36,24 per cento con punte del 42,6% nel 2007 e nel 2008. Due milioni di giovani in ansia per il rinnovo del loro contratto. Ed è certo che restando nell’attuale condizione, da vecchi faranno vita grama. Se aggiungiamo i lavoratori in nero, l’annuncio del terremoto sociale, di una bomba ad orologeria è quanto mai realistico.
VITA GRAMA
Perché da vecchi faranno vita grama? Rigorose proiezioni del 2004 hanno calcolato quanto segue. Il parasubordinato ventiduenne appena assunto, con uno stipendio di mille euro mensili, dopo 40 anni di contribuzione con una aliquota del 20 per cento matura un vitalizio equivalente agli attuali 407,19 euro al mese. Ovvero, non raggiungerebbe la soglia minima dell’assegno sociale aumentato del 20% (441,56 euro al mese) che la legge prevede per l’accesso al pensionamento. Ovvero, versando all’Inps per quarant’anni 200 di quei miserabili mille euro lordi che ti danno, a 62 anni non potresti andare in pensione. E dire che quei quarant’anni di versamenti ci devono essere tutti, e non è detto che un parasubordinato lavori con continuità per tutto quel tempo. Per far salire il tasso di sostituzione dal 40 al 55 per cento (l’ammontare della pensione rispetto all’ultimo stipendio) occorre versare di più in termini di aliquota contributiva o di permanenza al lavoro oltre i 62 anni di età. Ma siamo sempre intorno ai 500 euro. A rischio, peraltro, di tagli triennali legati alla crescita della longevità. Un reddito da vita grama.
Tutti questi numeri di cui ci scusiamo, sono d’obbligo per dimostrare che ci troviamo di fronte a una emergenza. Emergenza più volte affrontata dai sindacati. Recentemente, dalla CGIL. I numeri qui riportati vengono soprattutto dagli uffici studi di Corso d’Italia. Emergenza affrontata trasversalmente anche da due parlamentari un po’ border line, che di pensioni ne capiscono: Giuliano Cazzola, Pdl, vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera per la maggioranza, ex sindacalista CGIL; Tiziano Treu, PD, stesso ruolo per l’opposizione nella stessa commissione in Senato, ex ministro del Lavoro, già consulente della CISL. La trasversalità dell’iniziativa, un progetto di legge delega, denuncia che l’emergenza c’è davvero.
LEGGE BIPARTISAN
In sostanza si tratta di garantire a tutti i pensionati un trattamento base pari all’assegno sociale – oggi 406,05 euro al mese – più la pensione che spetta loro secondo il sistema contributivo. Operazione costosa, che sarà a carico di tutti noi attraverso la fiscalità generale. Com’è peraltro adesso per l’assegno sociale, che però non è universale ma selettivo a favore di chi non ha un sufficiente montante contributivo ed è al di sotto di una certa soglia di reddito. Nella bozza di progetto di legge – non ancora depositato – l’indicazione della copertura finanziaria viene rinviata al momento della definizione della delega.
Tutto avviene nel quadro del sistema contributivo, del quale Cazzola è diventato un estimatore. Pur avendolo osteggiato quando fu varato nel 1995 con Treu fra i protagonisti nel governo tecnico di Lamberto Dini appoggiato dalla Sinistra. Per generale ammissione, l’introduzione del calcolo delle pensioni con la capitalizzazione simulata dei contributi versati, ha stabilizzato intorno al 15% del PIL la spesa previdenziale. Sin dalla sua applicazione pro rata. Ovvero in una transizione ancora in atto che vede i lavoratori più anziani restare in tutto o in parte nel calcolo in base alle retribuzioni: un doppio regime con il retributivo che va a morire e il contributivo che si estende gradualmente a tutti.
CONTRIBUTIVO OK
La controprova della stabilizzazione della spesa previdenziale sta nei valori medi delle pensioni Inps vigenti al 1 gennaio 2009. Confrontiamo quelle a calcolo interamente retributivo, con quelle più recenti a regime misto pro rata retributivo-contributivo. Le vecchie valgono 818,67 euro al mese. Le nuove, miste, 496,64 euro. C’è una differenza in meno pari al 40 per cento. Questa differenza rappresenta, e nemmeno per intero, l’apporto delle nostre tasse al raggiungimento dei quegli 818,67 euro, che almeno per il 40 per cento non erano coperti dai contributi versati per una vita di quei lavoratori. Considerando che il retributivo va a morire, il soccorso della fiscalità generale non ci sarà più. Ciò significa che per avere una buona pensione, molto più di prima occorre guadagnare discretamente e versare contributi significativi. Cosa che non avviene ai giovani precari di cui ci stiamo occupando. Anzi, accade esattamente il contrario. Salari bassi, contributi scarsi, pensione povera. Per cui se si troveranno indigenti, la colpa non sarà del sistema di calcolo contributivo, ma della struttura del mercato del lavoro nel quale sono costretti a vivere.
Il progetto trasversale PD-PDL si presenta come un aggiustamento della Dini, che effettivamente era stata pensata quando il lavoro era più stabile. Un aggiustamento profondo, su aspetti strutturali. L’aliquota contributiva viene unificata, portata gradualmente per tutti al 28 per cento. Per i lavoratori dipendenti scenderebbe di cinque punti, per autonomi e parasubordinati salirebbe di sette-otto punti. Per i dipendenti è un taglio della pensione finale, che dovrebbe essere compensato dalla pensione di base e da un’altra misura strutturale: il ritorno alla doppia indicizzazione del vitalizio, che crescerebbe con la dinamica dei salari oltre che con quella dei prezzi. Il progetto indica una soglia minima di pensione per tutti, che non può essere inferiore al 60 per cento dell’ultimo stipendio. Altra misura strutturale, il ritorno alla flessibilità del pensionamento della Dini (partendo da una età minima di 61 anni invece di 57) cancellata ottusamente da uno dei primi governi di centro destra.
SPECIALE PRECARI
Per accrescere le pensioni dei lavoratori parasubordinati si propongono due soluzioni alternative. Una agisce al momento del pensionamento, l’altra durante la vita lavorativa. La prima: aumentare fino al 20 per cento il coefficiente di trasformazione di sistema, ovvero il divisore tra i contributi accumulati e gli anni di speranza di vita da cui risulta l’ammontare della pensione. La seconda: aumentare fino al livello dei lavoratori dipendenti la cosiddetta aliquota di computo. Ovvero, la quota di salario utilizzata per formare il montante contributivo. In questo caso sarebbe maggiore dell’aliquota contributiva a carico delle busta paga. Esempio. Poniamo il caso che in un certo periodo i contributi che versano i parasubordinati siano al 23% del salario. E quelli dei dipendenti al 30%. Per il computo di quanto va ad alimentare il montante del parasubordinato, quel 23 vale 30. Chi paga questi sette punti di contributi figurativi per la maggior aliquota di computo? Oppure quella lievitazione dei coefficienti? Lo Stato con le nostre tasse. Altre misure importanti riguardano la maternità, il part time fra pensione e lavoro per consentire un atterraggio morbido verso l’inattività, e valorizzare le competenze attraverso un “Piano nazionale per il prolungamento della vita attiva”.
Allo stato attuale del progetto è impossibile valutare il suo impatto finanziario. Vale per tutti i lavoratori di ogni tipo alla prima occupazione, che entrano per la prima volta nel sistema il 1° gennaio 2011. Se ipotizziamo per l’INPS un flusso di 200.000 persone che ogni anno andranno in pensione (sono 204 mila quelle attese l’anno prossimo), intorno al 2050 la pensione di base nel settore privato costerebbe allo Stato l’equivalente degli attuali 80 milioni di euro che vanno moltiplicati per tutti gli anni di vita residua di quei soggetti. Una cifra destinata a crescere rapidamente con i flussi successivi in modo esponenziale, fino a svariati miliardi l’anno. Il legislatore dovrà chiedersi se è opportuna una redistribuzione così massiccia dalle tasche di tutti i contribuenti – fra questi, lavoratori e pensionati – a quelle di chi riceverà pensioni medio-alte. Infatti la pensione base è universale. Invece l’unificazione dell’aliquota contributiva potrebbe essere a costo zero, perché le minori entrate dal comparto dipendenti sarebbero compensate dalla crescente aliquota dei parasubordinati.
E IL SINDACATO, CHE FA?
Riguardo ai sindacati, la robusta analisi presentata dalla CGIL la settimana scorsa, era supportata da elevate professionalità provenienti dalla ricerca universitaria: Michele Raitano, Giuseppe Costa e Sandro Gronchi. In particolare Gronchi ha raccomandato una maggiore diversificazione dei coefficienti per classi di età, ed ha proposto che il soccorso pubblico si limiti a mezzo punto più del PIL nel rendimento della contribuzione, che farebbe crescere del 10% le pensioni. L’analisi del sindacato ha portato alla conclusione di un deterioramento del sistema rispetto ai propositi delle riforme del 1992 e del 1995, aggravato dall’annunciata revisione dei coefficienti di trasformazione. Con il risultato di dare alle giovani generazioni una percezione del tutto negativa del loro futuro previdenziale. Morena Piccinini, segretaria confederale che ha tenuto le redini dell’incontro, ha messo il dito nella piaga. I rischi del mercato sono stati esageratamente trasferiti sul singolo lavoratore. L’assunzione a tempo ha scaricato sul lavoratore precario parte del rischio d’impresa da cui discende l’autorità dell’imprenditore. Il rischio finanziario condiziona la pensione dei Fondi integrativi, il rischio PIL anche quella dell’INPS insieme al rischio longevità e al rischio politico dei tagli nella finanza pubblica.
Quasi la metà del costo del lavoro è sottratto alla busta paga per la contribuzione sociale – 33% all’INPS + 11% al Fondo integrativo – occorre un reddito da lavoro che la renda sostenibile, e una relativa certezza che allo sforzo corrisponda un reddito previdenziale adeguato. Per questo secondo la CGIL occorre reintrodurre significativi elementi redistributivi e solidaristici nel sistema previdenziale a ripartizione. Non poche proposte coincidono con il progetto Cazzola-Treu. Come la garanzia del 60 per cento dell’ultimo stipendio nell’importo della pensione. O il ripristino del pensionamento flessibile. O un calcolo meno attuariale dei coefficienti di trasformazione. E se comunque il coefficiente si deve adattare al crescere della vita attesa (un anno ogni cinque), lo si faccia sui futuri accumuli del montante contributivo e non retroattivamente sull’intero montante. Si propongono contributi figurativi per il precario che resta a casa o per i lavori di cura. La speranza di vita venga attribuita per profili lavorativi, i lavori usuranti fanno campare di meno. Simile alla doppia indicizzazione del Cazzola-Treu è il “sistema di rivalutazione” che eviti l’impoverimento delle pensioni.
Anche sulla previdenza integrativa ci sono delle proposte rilevanti. Nei periodi di Cassa Integrazione occorre recuperare il contributo del datore di lavoro. I profili di rischio vanno adattati all’età dell’iscritto introducendo il Life Cycle. L’accordo per il Fondo Negoziale di categoria dovrebbe valere erga omnes come per tutti i contratti collettivi, salvo il dissenso espresso del singolo lavoratore.
FONDI PENSIONE E GREEN ECONOMY
Dulcis in fundo, una ciliegina: ai Fondi pensione negoziali si chiede un ruolo “nella promozione di politiche economiche innovative” con investimenti nella green economy, nelle attività di utilità sociale ed in altre nobili imprese. Anche Maxwell pensava di far del bene cercando di salvare dal default le sue società con i soldi del Fondo previdenziale, e i suoi 40 mila dipendenti britannici restarono senza pensione. La CGIL sembra dimenticare che i Fondi integrativi hanno un solo scopo. Quello di dare una pensione ai loro iscritti con investimenti oculati del patrimonio: minimo rischio, massimo rendimento. Alle politiche economiche innovative è meglio che ci pensino le istituzioni insieme alle forze politiche e sociali.
Fonti: Inps, Istat, Cnel, Nidil, Convegno CGIL sul futuro delle pensioni (3.12.2009)
di Raul Wittenberg