di Paolo Candotti, Direttore Risorse Umane Gruppo ACC
L’interessante dibattito che si sta sviluppando sull’efficacia della riforma del mercato del lavoro italiano oscilla tra caustici giudizi di bocciatura ed entusiastiche manifestazioni di approvazione. Si contrappongono tra questi estremi diverse opinioni sul rapporto tra regolamentazione del mercato del lavoro e competitività e diversi approcci ideologici, culturali e giuridici alla disciplina del rapporto di lavoro.
Si contrappongono, in altre parole, visioni e logiche “giacobine” di chi assegna un ruolo primario alla norma ed alla procedura nei processi di trasformazione e cambiamento della realtà sociale ed economica, e visioni e logiche “girondine” di chi, assegnando il primato ai processi di cambiamento dell’economia e della società, immagina un ruolo più leggero per la norma e per la procedura, affidando ad esse un compito di indirizzo e/o di coordinamento per i soggetti economici e sociali, veri protagonisti dei processi di cambiamento.
Nel Libro Bianco del mercato del lavoro in Italia, Marco Biagi diagnosticava con sintetica efficacia i limiti del mercato del lavoro italiano e del suo sistema di regole ed indicava conseguentemente il senso e gli indirizzi della riforma che purtroppo non sarebbe riuscito a veder compiuta. Scriveva: “… Mercato e organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità. Non altrettanto avviene per i rapporti di lavoro: il sistema regolativo oggi utilizzato in Italia non è più in grado di cogliere e governare la trasformazione in atto”.
La legge Biagi, quindi, poggia su alcune idee ed alcuni presupposti di base. Innanzitutto sull’idea che la regolamentazione del mercato del lavoro non debba avere i tratti dell’assoluta prescrittività e debba superare la logica del divieto in favore della logica dell’adattabilità. In tal senso si immaginava un intervento leggero della legge (le c.d. soft laws) nella disciplina dei rapporti di lavoro, assegnando un ruolo centrale alla contrattazione collettiva, anche aziendale e/o individuale, per adattare la norma alle caratteristiche di settore merceologico e di azienda. Inoltre, prendendo le mosse dall’analisi delle trasformazioni in atto nell’economia, nel mercato e nell’organizzazione del lavoro, la riforma si caratterizza per due indirizzi/obiettivi principali:
Ø Aumentare la flessibilità/adattabilità dei contratti di lavoro
Ø Estendere alcune tutele proprie del lavoro subordinato (primo fra tutti il contratto a tempo indeterminato) anche alle c.d. nuove tipologie contrattuali, a partire da quelle introdotte dalla 1a vera riforma del mercato del lavoro, ovvero il “pacchetto Treu”.
Si immaginava, in altri termini, che ad una realtà economica ed organizzativa in rapida trasformazione dovessero corrispondere strumenti di regolazione dei rapporti di lavoro capaci di adattarsi nel tempo assicurando nel contempo adeguati standard di tutela previdenziale ed assistenziale. In tal senso la riforma, già avviata con il D.Lgs. 368/2001 sul contratto a tempo determinato, si propone di superare la storica dicotomia fra lavoro subordinato a tempo indeterminato e lavoro “precario”, includendo in tale termine ogni forma contrattuale diversa dal tempo indeterminato, modificando alcune forme contrattuali esistenti per adattarle alle mutate esigenze dell’organizzazione del lavoro ed introducendone di nuove laddove quelle esistenti male si coniugassero con le trasformazioni intervenute nell’economia e nell’organizzazione.
È innegabile come progresso tecnologico, globalizzazione dei mercati abbiano modificato e continuino a modificare gli scenari competitivi, trasformando intere economie di Paese (dal manifatturiero all’economia dei servizi) ed imponendo trasformazioni dei modelli organizzativi (lean organization – organizzazioni a rete). Alla luce di tali trasformazioni era impensabile che le regole del mercato del lavoro rimanessero quelle di trent’anni fa, ma era altrettanto impensabile che la normativa del lavoro potesse e possa condizionare da sola tali processi di cambiamento. Risulta più ragionevole pensare che la regolamentazione del mercato del lavoro possa accompagnare tali processi di cambiamento assecondandone le valenze positive (quali la nascita di nuove professioni) e limitando le conseguenze negative (integrandosi sinergicamente, ad esempio, con gli ammortizzatori sociali).
Tracciare un bilancio della riforma e dell’efficacia della 276 appare a mio giudizio prematuro, sia per il limitato lasso temporale trascorso dall’introduzioni di alcune strumentazioni contrattuali, sia perché buona parte della riforma, prevedendo ampi rinvii alla contrattazione collettiva, potrà manifestare la sua piena potenzialità solo quando la contrattazione, ai diversi livelli, le avrà sapute cogliere a pieno. Sino ad oggi potremmo eufemisticamente sostenere che la contrattazione collettiva su tale argomento sia stata per lo meno timida, se non addirittura reticente.
Se è assolutamente comprensibile che i singoli contratti collettivi, sia quelli di categoria che quelli aziendali, possano scegliere quali tipologie contrattuali meglio rispondano alle loro esigenze ed in che modo esse siano più efficacemente adattabili, non appaiono assolutamente accettabili, sul piano morale e contrattuale, le richieste di esplicita rinuncia all’utilizzo di taluni strumenti consentiti da una legge dello Stato. Misurare, per contro, l’efficacia della riforma usando solo i dati sintetici del tasso di disoccupazione e del tasso di occupazione può risultare fuorviante se tali dati non vengono contestualizzati, ad esempio individuando quanta parte della nuova occupazione sia avvenuta attraverso strumentazioni introdotte dalla riforma. Risulta altresì limitativo giudicare fallace il presupposto della riforma, secondo il quale a un maggior numero di tipologie contrattuali sarebbero dovuti corrispondere più posti creati. I posti sono creati dalle opportunità di mercato (prodotti e servizi) e dagli investimenti.
Pertanto, la vera efficacia della riforma si misura, a nostro modesto avviso, in termini di complessiva competitività del sistema Paese. Da sola, senza investimenti e sviluppo dei mercati, la riforma non può garantire competitività. Ma è altrettanto vero che il pieno sfruttamento delle potenzialità della riforma consente di sostenere ed amplificare i benefici che investimenti e sviluppo del mercato possono portare.
Per poter cogliere interamente le potenzialità della nuova regolamentazione del mercato del lavoro risultano determinanti fattori quali la costruzione di un consenso sociale intorno ad essa, la formazione dei c.d. addetti ai lavori, affinché sappiano meglio associare ogni strumento alla finalità/esigenza organizzativa più propria.