Venerdì scorso, 23 maggio, sul quotidiano del Friuli-Venezia Giulia, il Messaggero Veneto, è apparsa la notizia che l’acciaieria green Metinvest Adria, la newco partecipata dal Gruppo friulano Danieli e dalla multinazionale Metinvest BV – inizialmente progettata per essere localizzata nel consorzio per lo sviluppo industriale dell’Aussa Corno a San Giorgio di Nogaro (UD) – sarà collocata nel comune di Piombino. Con un investimento che vale 2,7 miliardi l’accordo prevede un rilancio complessivo del polo siderurgico toscano e diventerà il più avanzato d’Europa nella produzione di acciaio green. È questo l’epilogo di una vicenda in qualche modo emblematica dell’evidente declino del ricco Nordest e della sua inadeguata classe dirigente.
Questo imponente progetto di investimento era stato infatti concordato con la Giunta regionale del FVG, ma nel settembre del 2023 il presidente della Regione, Massimiliano Fedriga, si è opposto alla sua realizzazione per la contrarietà espressa da alcuni sindaci del territorio circostante. Si trattava però di un investimento che sarebbe stato pari al 6% del Pil regionale e che avrebbe creato 700 posti di lavoro ad alta specializzazione e altrettanti indiretti. Teniamo poi presente che stiamo parlando di una regione che nel 2024 ha visto il saldo esportazioni-importazioni segnare quasi un meno 9%, eppure si continua quasi a esultare perché “il grande malato d’Europa” sarebbe la Germania. Come se il deficit di incassi dall’export in Germania fosse irrilevante!
Con il governo Meloni la produzione industriale italiana è scesa a meno 2% nel 2023 e poi addirittura a meno 3,5% in media nel 2024. Tale media, declinata al Nordest, si è tradotta in Veneto in mille aziende in crisi solo negli ultimi due anni e ad una dilagante cassa integrazione cresciuta del 36% per un totale di ore pari 50.930.687 nel 2023 e a 69.460.410 nel 2024. A livello di settore le ore di cassa integrazione di meccanica e metallurgia sono cresciute da 26.110.432 a 41.523 032.
Purtroppo, anche il Veneto di Luca Zaia ha smesso di essere un modello vincente, al punto che sul Corriere del Veneto capita di imbattersi in articoli che parlano senza mezzi termini di “Nordest in affanno”. E stiamo parlando di quel Veneto che è stato la terra della grande industria tessile, dalla Marzotto a Benetton e ad altre centinaia di medie aziende dello stesso settore che hanno assicurato per decenni un’occupazione quasi interamente al femminile. Quel Veneto è in via di estinzione e con esso la perdita di buona parte di quell’occupazione “garantita”. In questo contesto, certamente il presidente Luca Zaia è in grado di capire che un grande territorio come il Veneto può ancora trascinare lo sviluppo dell’intero Paese. E quindi, già nel 2022, aveva sollecitato il governo a perorare la causa dell’investimento a Vigasio, in provincia di Verona, come sede della prima Chip Factory in Italia della multinazionale americana Intel. Ma anche questo progetto è naufragato e Intel ha preferito investire 58 miliardi di dollari fra Israele, Germania e Polonia.
A Pordenone, principale centro manifatturiero del Friuli-Venezia Giulia, la crisi dell’industria ha colpito l’intero sistema economico finanziario e sociale. La stessa banca francese Crèdit Agricole, che aveva la sua sede direzionale in città, ha deciso di spostarne la sede e il centro direzionale a Parma perché a Nordest gli investimenti languono e gli stessi studi professionali che lavorano con l’industria hanno sempre meno clienti. I neolaureati di Pordenone molto spesso decidono di rimanere a Milano, Padova, Bologna oppure vanno all’estero (le mete preferite sono Germania, Spagna, Inghilterra e Canada).
Inutile poi negare che il contesto in cui avviene questo progressivo esodo, oltre alla questione salariale, è quello in cui si può osservare una chiara tendenza della precarizzazione e della diminuzione delle tutele togliendo, di conseguenza, qualsiasi valore sociale al lavoro. L’apogeo delle conquiste politico-sociali dell’industrialismo capitalista, che aveva fornito al lavoratore salariato uno status socialmente garantito sembra ormai appartenere al passato. Il lavoro garantito si sfalda sempre di più, per essere sostituito dal lavoro interinale, da contratti di lavoro a termine o dal lavoro autonomo saltuario. Di conseguenza, i diritti stabiliti dalla tutela salariale collettiva e le misure di previdenza sociale conseguiti dai contratti dei grandi sindacati confederali e dalle leggi sul lavoro sono oggi gravemente compromessi. Il Referendum del 8 e 9 giugno per un lavoro più tutelato e dignitoso e la cittadinanza italiana per gli stranieri ha il merito di porre la questione del lavoro all’attenzione della politica e dell’intero Paese, mettendo così in evidenza anche i gravi limiti della contrattazione fra le parti sociali, se non l’impossibilità di affrontare per la sola via contrattuale la drammatica ampiezza di un sistema lavoro che interessa milioni di lavoratrici e lavoratori condannati a rimanere poveri pur lavorando a cui si sommano poi i 5 milioni e 700 mila persone che vivono in povertà assoluta.
Se le garanzie sociali dell’industrialismo capitalista sono venute meno, sulle sue ceneri avanza un capitalismo dei servizi a basso contenuto tecnologico, un capitalismo di risulta che rifiuta la rappresentanza del sindacato confederale e, soprattutto, ha la mano pesante sulle lavoratrici. Le lavoratrici italiane, ormai da decenni, percepiscono uno stipendio con non consente più un tenore di vita dignitoso, anche in professioni come quello dell’insegnante e simili che in passato garantiva uno status sociale di tutto rispetto. Ora molte donne lavoratrici sono diventate una massa indistinta di persone senza diritti. Quando trovano un lavoro è perlopiù mal pagato e precario, costringendole ad accettare quel che offre un capitalismo sempre più “becero” dove primeggia la grande distribuzione (a livello nazionale 480 mila dipendenti), il piccolo commercio, il lavoro stagionale nelle zone turistiche, il lavoro in nero, la rozza arroganza di imprenditori, di capi e capetti autoritari. Non solo, ma pochi sanno che in questo settore, ma anche in agricoltura, nella pesca e altri di poche migliaia di lavoratori, negli ultimi anni sono nati sindacati (la Cgil parla di 1.600), cosiddetti pirata, senza iscritti, che possono firmare accordi aziendali a supporto dei datori del lavoro che rifiutano i salari contrattuali nazionali sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil e praticando un uso selvaggio della flessibilità dell’orario di lavoro.
Per quanto possa sembrare paradossale, a passare all’attacco per difendere i diritti dei lavoratori è scesa in campo anche la Magistratura milanese. E, guarda caso, contro Esselunga, il colosso della distribuzione di proprietà della famiglia lombarda Caprotti che possiedono oltre 170 superstore e supermarket fra Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Piemonte, Veneto, Liguria e Lazio, otto miliardi di fatturato, 25.000 occupati, in maggioranza donne. Il procuratore Paolo Sartori, nell’inchiesta condotta con la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate, ha eseguito un sequestro preventivo d’urgenza per quasi 48 milioni di euro per “illecita somministrazione di manodopera”. Esselunga è accusata di aver adottato lo schema dei “serbatoi di manodopera” nei propri servizi di logista. La manodopera viene fornita loro da una serie di società cooperative che nascono e muoiono in breve tempo. Un meccanismo illecito “di fatture inesistenti e fittizi contratti d’appalto di manodopera”.
Nei giorni scorsi la Filt-Cgil di Milano ha proclamato lo sciopero dei driver delle consegne nei quattro depositi lombardi dell’azienda. L’azienda ha addirittura minacciato cassa integrazione per i 750 lavoratori dei centri coinvolti se le agitazioni fossero continuate. Il procuratore Sartori si è poi occupato di Amazon Italia che si è vista recapitare un sequestro preventivo per 120 milioni: pagati senza far rumore. In Germania, dopo due giornate di sciopero dei 9 mila dipendenti, Amazon ha accettato la richiesta dei driver dell’applicazione del salario minimo in vigore in Germania di 12,41 euro, salito a 12,82 dal gennaio di quest’anno.
Nel nostro Paese, a lanciare la sfida sul salario garantito ci ha pensato per primo l’ex sindaco di Firenze, Dario Nardella. Il 19 marzo 2024 ha fatto approvare una delibera di Giunta in cui si stabilisce che “nessuno dovrà guadagnare meno di nove euro all’ora negli appalti in cui il Comune è stazione appaltante”. Bravo Nardella, ma sulle condizioni di lavoro e sul lavoro riservato alle donne lavoratrici nessuno batte i pugni: sia chiaro. Di solito sono le donne le prime a perdere il posto di lavoro. Non solo le delocalizzazioni hanno colpito principalmente le attività dove lavoravano le donne, ma spesso svolgono lavori che vengono progressivamente assorbiti dalla tecnologia. Sono anche le prime ad accettare percorsi d’uscita dalle aziende per prendersi cura dei figli e dei genitori anziani. Con la riorganizzazione industriale e tecnologica del 2007-2008 sono state declassate ad inutili esuberi. In prevalenza lavorano in attività come il commercio dove i salari contrattuali sono inferiori rispetto a quelli dell’industria e spesso sono contratti precari e a part time. Inoltre, nella grande distribuzione viene consentito alle aziende di modificare la presenza al lavoro da un giorno all’altro, obbligando le lavoratrici a tenersi disponibile dal lunedì alla domenica. È quello che accade in ciascun supermercato della grande distribuzione presenti in Italia, dove un insindacabile capo, può decidere di farti lavorare (a sua discrezione) quattro, cinque o sei ore al giorno, dalle 8,30 del mattino alle dieci di sera domenica compresa.
In queste condizioni nessuno può cercarsi un altro lavoro per integrare lo stipendio mensile. Alla fine del mese ti devi accontentare di 600/700 euro, tutto compreso. Triste da dire, ma ora il rischio è che questo processo, già in atto da almeno due decenni, si normalizzi definitivamente.
Giannino Padovan -Ex segretario regionale Cgil FVG, ex consulente risorse umane