Parafrasando Mao tse Tung, grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione non è affatto eccellente. Nient’affatto eccellente. La politica italiana assomiglia ormai a un vulcano che erutta lava e lapilli, soprattutto lapilli. Ovvero piccoli partiti personali che vengono creati soprattutto per volontà dei loro leader. Dopo Italia viva di Matteo Renzi, Azione di Carlo Calenda, Italexit di Gianluigi Paragone, Italia al centro di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, Coraggio Italia di Gaetano Quagliarello, è arrivato anche quello di Luigi Di Maio, si chiama Insieme per il futuro, ed è nato martedì 21 giugno grazie a una scissione nei Cinquestelle. Sicuramente ci stiamo dimenticando di altri gruppetti nati in Parlamento, ma siamo certi che esistono o che esisteranno da qui alle prossime elezioni politiche del 2023. Ormai basta che qualcuno si senta in minoranza nel proprio partito, che non tenta neanche di cimentarsi in una battaglia politica interna per riuscire a cambiare la linea e magari a diventare maggioranza al congresso successivo. Per carità, mica siamo nel Novecento… non si può perdere tempo, non vale la pena stare lì a combattere, invece bisogna agire subito, battere il ferro finché è caldo, ottenere un’immediata visibilità in televisione, sui social e sui giornali e magari entrare nella classifica dei sondaggi. E non importa se i consensi sono bassi, spesso bassissimi e oscillano intorno al 2 per cento, importa esserci. Altro che Cartesio, qui non serve cogitare, fondamentale è apparire e quindi esistere: appaio ergo sum.
Le idee, il programma, il progetto politico – per utilizzare un concetto che non interessa più nessuno di questi sedicenti leader – sono secondari, anzi non ci sono proprio. Quel che conta è avere il proprio orticello da coltivare sperando che prima o poi da quel campetto nasca qualche prodotto buono per il mercato elettorale, in grado magari di diventare decisivo per questo o quell’altro schieramento, destra o sinistra pari sono. Fondamentale è allora avere un nome – un logo si dice oggi – e un capo che parla sui media. Dopo di che, si vedrà, si vedrà quanti voti arrivano e come venderli al miglior offerente.
L’ultimo in ordine di arrivo è appunto il partito di Di Maio, nato perché l’ex capo politico dei grillini non era in sintonia con l’attuale capo politico, ossia Giuseppe Conte. Il ministro degli Esteri e coloro che l’hanno seguito nella nuova avventura – una sessantina di parlamentari, non pochi – hanno detto che non potevano più rimanere in un Movimento che rispetto alla guerra in Ucraina non accettava di schierarsi con la Nato a occhi chiusi ma che, al contrario, dimostrava pulsioni filo putiniane. Semplicemente perché aveva avanzato qualche dubbio sull’opportunità di continuare a fornire armi, anche pesanti, a Kiev. Dubbi discutibili ma legittimi, visto che sono gli stessi che nutre la maggioranza degli italiani. Ma, diciamocelo francamente, il merito delle questioni non c’entra nulla: Di Maio ha rotto sull’Ucraina, ma avrebbe potuto farlo su qualsiasi altra questione all’ordine del giorno, il suo obiettivo era solo quello di avere una formazione politica a sua immagine e somiglianza. E tutto quello che lo stesso Di Maio aveva detto nel recente passato, i suoi fulmini contro i “voltagabbana”, coloro che “cambiano casacca”, e che se “lasciano il partito che li ha eletti devono dimettersi dal Parlamento”? Visto che il ministro proviene dalla Campania, “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o passato…”.
Non a caso la nuova formazione politica dei dimaiani (si chiamano così…) il suo passato l’ha già rimosso e parla di futuro già nel nome. Ma la domanda è se ce l’abbia un futuro politico degno di questo nome oppure se si tratti dell’ennesimo gruppuscolo che durerà qualche mese per poi deflagrare o sciogliersi dentro qualcosa di più consistente. La seconda ipotesi è la più probabile, ma intanto un risultato l’ha già ottenuto, ossia quello di indebolire la casa madre, cioè il Movimento di Conte – che già non si sentiva troppo bene – e quel cosiddetto campo largo sognato da Enrico Letta in vista della sfida elettorale dell’anno prossimo. Il leader del Pd per ora non arretra, anzi rilancia spiegando che per battere la destra bisogna mettersi tutti insieme.
Ma è verosimile un’alleanza che tenga insieme Renzi, Calenda, Di Maio, Conte, Speranza, Bersani, lo stesso Letta insieme ai renziani del suo partito e chi più ne ha più ne metta? E’ vero che le strade della politica, come quelle del Signore, sono infinite, ma paradossalmente l’Unione di Prodi del 2006 aveva più senso di quella vagheggiata oggi dal segretario Dem. Che ci ricorda un bellissimo e drammatico film: “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah.
Riccardo Barenghi