di Carlo Dell’Aringa – professore di economia politica all’Università Cattolica di Milano
Il tema dell’efficienza della pubblica amministrazione è entrato nell’agenda del governo e sta animando il dibattito politico e sindacale. I media riportano continuamente casi di disfunzioni dei servizi pubblici mentre gli esperti e gli studiosi della materia denunciano che, dopo tante riforme della P.A., siamo praticamente ancora al punto di partenza. Si avanzano proposte di drastici interventi (ad esempio la Authority di Ichino), mentre tutti sono in attesa di capire quali saranno le proposte del governo e come reagiranno i sindacati. Questi ultimi non hanno una posizione di chiusura. Siamo alla vigila dei rinnovi dei contratti nazionali e i sindacati cercano giustamente di creare, nell’opinione pubblica, un clima favorevole o, per lo meno, non ostile nei confronti dei dipendenti pubblici.
Da parte sua il governo ha messo a disposizione della contrattazione collettiva le risorse finanziarie che i sindacati avevano richiesto. Con la Finanziaria, infatti, sono state aggiunte risorse economiche ulteriori rispetto a quelle inserite nella legge di bilancio dello scorso anno. Nel frattempo è passato un anno e, quindi, i contratti ancora una volta verranno rinnovati con ritardo. La situazione non appare particolarmente brillante. Tutti hanno motivo di lamentarsi. I dipendenti pubblici, che, ancora una volta, devono aspettare tempi lunghi per avere gli aumenti di stipendio loro dovuti. Il governo, che ha sostenuto impegni finanziari non indifferenti per rendere possibili i rinnovi e che chiede di avere in cambio maggiore produttività. E, infine, l’opinione pubblica che dalla lettura della stampa trae solo motivo di delusione e di insoddisfazione circa la qualità dei servizi pubblici offerti.
Insomma sembra di essere tornati, vagamente, alla situazione che aveva preceduto la riforma del pubblico impiego del 1993. Anche allora era opinione diffusa che, nonostante i vari governi che si erano succeduti sino ad allora fossero stati particolarmente generosi coi pubblici dipendenti, la produttività di questi ultimi era rimasta praticamente al palo. Per di più gli stessi pubblici dipendenti erano del tutto insoddisfatti circa le condizioni in cui si trovavano a svolgere il loro lavoro. Era, in definitiva il peggiore dei mondi possibili.
Sarebbe ingeneroso affermare che la famosa riforma del 1993, che prese l’ambizioso nome di “privatizzazione” del rapporto di lavoro pubblico, non ha fatto fare passi avanti alla P.A.. Questo non è vero. Il processo di riforma di questi anni ha dato frutti in molti campi ed è doveroso riconoscerli. Però non ha certamente dato tutti i frutti sperati. Le attese sono state in parte deluse e anche questo va riconosciuto. Una difesa acritica dell’esistente non solo sarebbe sbagliata ma sarebbe anche controproducente nei confronti degli stessi sindacati, che potrebbero subire critiche e attacchi sempre più forti da parte dell’opinione pubblica. Certamente le critiche sono spesso esagerate e talvolta sono anche di carattere strumentale. Ma in parte sono fondate, e proprio per questo richiedono risposte positive e non un atteggiamento preconcetto di chiusura.
Fra le possibili terapie si parla molto di aumentare la mobilità del personale pubblico. Si insiste anche sulla necessità di sveltire e di rendere più efficaci i provvedimenti di carattere disciplinare nei confronti dei “fannulloni”. Si tratta certamente di aspetti importanti e che presentano anche una valenza, da non trascurare, di carattere simbolico. Devo sinceramente dire, però, che nessuno dei due argomenti mi appassiona più di tanto. Essi sono solo due pezzi, sia pure importanti, di un “puzzle” molto più complesso. Come al solito occorre fare uno sforzo di sintesi, andare alle radici dei problemi e non attardarsi troppo su singoli aspetti che, per quanto importanti, rischiano di distrarre l’attenzione dalle vere cause di fondo.
I problemi vanno affrontati alla radice e i problemi sono quelli detti: il costo del lavoro corre troppo velocemente e la produttività della P.A. è bassa. Questi sono elementi che – come qualcuno sembra essersi accorto solo ora – contribuiscono a rendere il nostro Paese poco attraente agli investitori esteri. In aggiunta a tutto ciò, i pubblici dipendenti sono scontenti perché i contratti si rinnovano con ritardi non più accettabili. Che fare? Non si conosce la pozione magica per guarire la malattia. Ma si deve per lo meno impostare la risposta in modo corretto.
Il tentativo di introdurre premi incentivanti e di usare le progressioni economiche per premiare l’impegno e la professionalità non ha dato grandi risultati (e, forse, dicendo questo, si pecca di eccessiva generosità). I sistemi di valutazione, essenziali per gestire strumenti di incentivazione del personale, esistono in poche amministrazioni e talvolta funzionano solo sulla carta. Il famoso “management by objective”, cioè la “gestione per obiettivi”, che i nostri legislatori avevano importato dalle esperienze anglosassoni, è di difficile implementazione. Non esistono le condizioni, si dice. I dirigenti vorrebbero che gli obiettivi fossero loro indicati, ma pare che nessuno sia in grado, nelle singole amministrazioni, di individuarli e di assegnarli (tranne che in alcune amministrazioni , che sono le eccezioni).
Perché si è (quasi) fallito su questo punto? Occorre cercare di dare una risposta, almeno per evitare di scrivere nei prossimi contratti le stesse cose di sempre (sia pure usando qualche parola diversa) . Le leggi e contratti oggi in vigore, sono zeppi di norme che impongono di premiare i meritevoli e di sanzionare i fannulloni. Pensiamo di risolvere il problema aggiungendo altre norme e altre regole? Forse qualche norma andrebbe tolta, più che aggiunta.
Non vi è dubbio che il punto centrale e delicato sia sempre quello della dirigenza. Ma la dirigenza è stretta in una morsa, con il sindacato da una parte e il “politico” dall’altra. Persino l’alta dirigenza è stata contrattualizzata. Non è venuto il sospetto che si è esagerato a voler “contrattualizzare” tutti ? Non occorre ripensarci? La contrattazione, poi, abbraccia e si spalma su quasi tutte le materie. Alla dirigenza non rimane quasi niente da decidere. E le prerogative manageriali? Siamo sicuri che la contrattazione non abbia invaso dei territori che, nel settore privato, sono saldamente nelle mani dei managers? Quando si parla di “privatizzazione” non possiamo pensare di “importare” dal privato quello che fa comodo e dimenticare quello che sarebbe utile, ancorché scomodo. In sintesi la domanda è : il sindacato non dovrebbe fare un passo indietro?
Il “politico”, poi, rappresenta il versante drammaticamente deficitario. Egli dovrebbe rappresentare quello che nel privato è il “datore di lavoro”. Il datore di lavoro, in genere, pensa ai costi e ai ricavi. Cerca di produrre in modo efficiente e di vendere il più possibile. Tiene bassi i costi e aumenta la qualità del prodotto. Questo è quanto succede nel settore privato (e succede sempre di più, a causa dell’aumentata concorrenza). E nel pubblico, succedono le stesse cose? Abbiamo un datore di lavoro che si comporta allo stesso modo? Un datore di lavoro che, ai tavoli negoziali, apre un “conflitto” fisiologico con la “controparte” sindacale per ottenere il più possibile in termini di minor costo e di migliore qualità del prodotto? Certamente il settore pubblico non è come il settore privato e occorre tenere conto di importanti differenze, ma è la stessa legge di riforma che impone al politico e all’amministratore di comportarsi come il “privato datore di lavoro”. Nel settore pubblico si trovano “veri” datori di lavoro molto raramente. E non si può sperare di cambiare molto lo stato delle cose nella nostra P.A., se non si ha un forte cambiamento su questo fronte, e cioè quello della politica. Se i politici si preoccupano soprattutto di acquisire facile consenso nel breve periodo e tutto viene piegato a questo scopo, è inevitabile che gli obiettivi di lungo periodo, quelli che fanno riferimento alla qualità dei servizi e al benessere dei cittadini utenti, risultano inesorabilmente sacrificati. E non può esservi legge di riforma, per quanto perfetta, che possa sopperire a questa grave lacuna del ruolo della “politica”.
Sul costo del lavoro si potrebbe ripetere una storia analoga. In alcuni settori (enti locali, ma non solo) le progressioni orizzontali sono state utilizzate “a pioggia”, né più né meno come i premi di produttività. Il risultato è stato che le retribuzioni sono cresciute in questi ultimi anni del 10-15 per cento in più che nel settore privato. E’ un altro caso grave di irresponsabilità politica. Sorprende che il settore che, in questo “sforamento”, si è maggiormente distinto sia quello degli enti locali, che, per certi aspetti, dovrebbe essere il fiore all’occhiello della pubblica amministrazione italiana. Ma l’abitudine ad aumentare gli stipendi dei propri dipendenti e poi a mettere il costo relativo a piè di lista, a carico dello Stato, è difficile da cambiare. Anche qui occorre creare condizioni che impongano agli amministratori delle cosiddette “autonomie” di assumersi la responsabilità politica delle loro decisioni. Passi verso forme più decise di federalismo fiscale possono certamente aiutare. Ma non saranno decisivi se, anche in questo caso, come in quello prima discusso, non dovesse cambiare in meglio il funzionamento del sistema di rappresentanza politica. Non cambierà nulla se i rappresentati politici non metteranno al primo posto delle loro preoccupazioni la buona qualità dei servizi per i cittadini e le imprese.
Per rinnovare i contratti nazionali occorrono poi tempi biblici. Si impiegano quantità rilevanti di risorse pubbliche e non si riesce nemmeno a “comperare” la tranquillità e la riconoscenza dei pubblici dipendenti. Il vecchio e saggio detto secondo cui i soldi, quando si devono dare, vanno dati “pochi , maledetti e subito” è praticamente sconosciuto nel mondo della pubblica amministrazione. I soldi (spesso troppi) vengono dati sempre troppo tardi, quando non servono più, né per incentivare comportamenti virtuosi , né per instaurare e confermare un rapporto di reciproca fiducia. E anche in questo caso il problema è di responsabilità politica. Si è costruito, anche oltre quello che la legge prevede, un vero labirinto di soggetti, decisioni e controlli per lo svolgimento della contrattazione collettiva nazionale. E’ costantemente aumentato il numero di soggetti istituzionali che entrano nel processo e, nei fatti, non si capisce più su chi ricada la responsabilità della conduzione del negoziato. Si prenda un settore qualsiasi: la sanità. Qui operano: il comitato di settore , la conferenza dei presidenti delle Regioni, il coordinamento degli assessori regionali, il ministro della Sanità, il ministro dell’Economia, il ministro della Funzione Pubblica, la Corte dei Conti. Tutti intervengono nel processo, anche quando il loro ruolo non è previsto da alcuna norma di legge. L’unica istituzione formalmente incaricata del negoziato, e cioè l’Aran, rischia, soprattutto in seguito a quanto successo in questi ultimi anni, di svolgere un puro ruolo notarile. Tanti responsabili è uguale a nessun responsabile.
Si capisce quindi perché il sindacato è preoccupato. Le relazioni sindacali nel pubblico impiego rischiano molto se non si interviene in tempo.