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Home - Approfondimenti - Analisi - Il possibile equilibrio degli interessi

Il possibile equilibrio degli interessi

2 Novembre 2007
in Analisi

di Marco Marazza – professore di Diritto del lavoro all’Università di Teramo

Il sistema capitalistico italiano affonda le sue radici nel riconoscimento costituzionale della libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41, primo comma, Cost.). L’impresa è libera nel senso che non può essere funzionalizzata alla soddisfazione di interessi diversi da quelli del suo titolare. Con la conseguenza che nessuno può sovrapporsi, nel merito, alla determinazione dell’imprenditore di avviare o cessare l’attività (ma anche di definire ed aggiornare il luogo, i contenuti ed il perimetro del ciclo produttivo). Ciò non di meno quella libertà non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale od in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana (art. 41, secondo comma, Cost.).

Il compito di trovare un convincente punto di equilibrio nel definire i limiti esterni entro i quali l’iniziativa economica può svolgersi liberamente spetta alla politica. Ma pensare che ciò possa avvenire una volta per tutte è fuori dalla realtà. L’evoluzione della società e dei bisogni degli associati richiede infatti un continuo lavoro di aggiornamento ed affinamento che sappia declinare, nel tempo, i concetti di libertà di iniziativa economica, di utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana.


Lo dimostra, più di ogni altra cosa, l’attuale dibattito sui problemi del mondo del lavoro. Dove, a distanza di molti anni dallo storico compromesso rappresentato dallo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), tutti i protagonisti rivendicano, chi da una parte chi dall’altra, una speciale attenzione del legislatore. I lavoratori, oggi divisi in un pericoloso conflitto generazionale, chiedono di porre termine alla stagione della precarietà e di alzare i livelli dei salari. Le imprese invocano una maggiore produttività. La coperta può sembrare corta, ma solo per chi non ha il coraggio di pensare, fuori da ogni retorica ideologica, soluzioni realmente innovative.


I diritti sanciti dalla nostra Costituzione non possono essere collocati in un’ipotetica scala gerarchica nella quale alcuni sono destinati a prevalere ed altri a soccombere. Avendo pari dignità, perché tutti strumentali ad una determinata visione della società, quei diritti devono piuttosto essere contemperati in una logica di reciproci vantaggi e sacrifici. Ed in questa prospettiva è necessario focalizzare che la libertà di iniziativa economica, e quindi l’impresa, rappresenta un valore capace di contribuire al benessere collettivo (art. 2 Cost.), sia in termini di occupazione (più impresa, più posti di lavoro) che di redistribuzione del reddito (più profitti, maggiori salari, più entrate fiscali). Ne deriva che se la Costituzione affida alla Repubblica il compito di tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.) ciò deve avvenire nel rispetto della libertà dell’iniziativa economia privata. Non diversamente da quando si dice, nella prospettiva opposta, che l’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.


Quando poi si entra nel merito delle tecniche di contemperamento dei diritti occorre anche tenere presente che i valori costituzionali non possono essere valutati al di fuori del contesto storico di riferimento. Se il concetto di dignità umana ha registrato nel tempo un costante aggiornamento (basti pensare alle nuove categorie di danno biologico, esistenziale, ed in generale alla più consapevole percezione dei beni immateriali dell’individuo), altrettanto può dirsi per il concetto di libertà di impresa. L’iniziativa economica privata è in concreto libera non solo perché l’individuo può liberamente disporre delle sue risorse economiche ma anche perché l’impresa, una volta avviata, è governata da regole che le consentono di competere, e quindi sopravvivere, nel mercato.
In altri termini, il corretto bilanciamento dei valori costituzionali in giuoco postula, da un lato, l’accettazione dell’interesse antagonista come interesse comunque strumentale al bene collettivo e, dall’altro, un costante lavoro di aggiornamento sui contenuti.


Con questa chiave di lettura possono essere affrontati i problemi attuali del mondo del lavoro. Esemplificativamente rappresentati dalla difficoltà di trovare un punto di equilibrio tra una doppia (ed inusuale) coppia di interessi antagonistici. Lavoro (più salario) – Capitale (più produttività). Lavoro (tutelato) – Lavoro (non tutelato = precario). Ed è proprio questa la novità più significativa che emerge nell’inizio del nuovo secolo: l’evoluzione del tradizionale conflitto di classe in un conflitto anche interno al mondo del lavoro e, prevalentemente, di tipo generazionale. Alimentata da un’imposizione dei padri (più sindacalizzati, più pensionati, più garantiti) sui figli (meno sindacalizzati, meno pensionati, più precari), riconducibile ad una concatenazione più o meno consapevole di scelte e provvedimenti la cui lettura complessiva lascia pochi dubbi: nessuna modifica sullo statuto protettivo di coloro (i padri) che già erano nel mercato del lavoro; moltiplicazione delle tipologie contrattuali flessibili per i nuovi ingressi nel mercato del lavoro (i figli); largo utilizzo dei contratti meno garantiti (le collaborazione autonome) per l’acquisizione delle professionalità più basse e meno retribuite (i precari, di solito figli); sottrazione del trattamento di fine rapporto ai nuovi assunti (i figli); finanziamento delle pensioni degli infra sessantenni (i padri) con l’aumento della contribuzione dei collaboratori autonomi (i figli).


Possiamo anche fare finta che sia necessario continuare a qualificare il conflitto sociale nei tradizionali termini di puro conflitto di classe (lavoro-capitale). Sostenendo, ad esempio, che siano le imprese e la collettività a doversi far carico dei costi necessari a colmare il gap di tutele tra padri e figli. Portando i secondi al livello dei primi. Ma il debito pubblico, con il quale i padri hanno costruito i loro privilegi, rende oggi difficilmente ipotizzabile un intervento delle casse statali. Ed in molti, sia a destra che a sinistra, sono convinti che le imprese non abbiano la competitività necessaria per sostenere, a produttività invariata, maggiori oneri. Allora, se è vero che le imprese sono deboli e che la costituzione impone, tramite il riconoscimento della libertà di iniziativa economica, un contesto di regole capaci di sostenere la loro competitività nell’interesse collettivo, la soluzione del rebus deve essere cercata altrove.


In primo luogo una qualsiasi riforma deve ricondurre ad unità questa doppia coppia di interessi riproponendo, nei termini appropriati, il tradizionale conflitto di classe. Ciò è possibile solo introducendo efficaci meccanismi di riequilibrio. Tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi. Tra lavoratori con contratto a tempo indeterminato e lavoratori temporanei. Tra lavoratori che hanno la certezza di un efficace sistema pensionistico ed altri che temono per il loro futuro. E così via. Qualcuno deve avere e qualcuno deve dare. Ed il criterio più razionale per governare il riequilibrio non può che essere quello che fa riferimento alla effettiva debolezza dell’individuo nella società e nel mercato del lavoro. Destinando ai più deboli, non importa se padri o figli, un blocco di tutele essenzialmente unitario, governato in una logica prettamente collettiva ed adattato ad una forma contrattuale prevalente: il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Destinando invece agli altri (a partire dai dipendenti con funzioni direttive, non importa se padri o figli) un diverso e più moderno approccio culturale alle tutele del lavoro. Caratterizzato da un’accentuazione della libertà individuale rispetto alla garanzia collettiva. Dalla valorizzazione della competizione e delle differenze che ne derivano, dalla pluralità dei modelli contrattuali. Introducendo, progressivamente ed anche consensualmente, un concetto di flessibilità destinato, a questo punto, a non sconfinare nel disvalore della precarietà. Proprio in ragione della diversa forza economica delle persone coinvolte.


Ricondotti ad unità gli interessi del lavoro, sarà poi più agevole confrontarli con quelli del capitale. Scambiando la maggiore produttività, pretesa dai dipendenti più forti, con l’atteso aumento – per tutti – dei livelli salariali. In un contesto di regole coerentemente capaci di premiare l’imprenditore virtuoso, di scoraggiare l’impresa scarsamente competitiva e di punire l’impresa che non rispetta le regole.

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