Lilli Carollo – Dottoranda di ricerca in Relazioni di Lavoro Internazionali e Comparate
Il progetto di Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro non e3siste più. Ma continua ad esistere l’esigenza di razionalizzare e riorganizzare il sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Ripercorrere, sul piano giuridico, la vicenda serve a individuare le ragioni che hanno portato al ritiro del progetto, per averle chiare quando si metterà mano ad un nuovo testo.
E’ oramai ufficiale il tramonto del progetto di revisione della materia della salute e sicurezza sul lavoro ([1]), che avrebbe dovuto trovare attuazione entro il 30 giugno 2005, attraverso atto normativo delegato, secondo le direttive di cui all’art. 3, legge n. 299/2003, meglio conosciuta come “Legge di semplificazione 2001”.
Si ritiene utile ripercorrere l’iter, e, per quanto possibile, i contenuti, soprattutto quelli che hanno generato maggior dibattito, dell’elaborato normativo predisposto dall’Esecutivo ([2]), approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri in data 18 novembre 2004, passato all’esame delle Commissioni parlamentari competenti, ed oggetto di confronto, con Regioni, Enti istituzionali e parti sociali.
Prima di addentrarsi negli aspetti caratterizzanti il sistema normativo prevenzionistico proposto, e rilevare quali questioni (giuridiche) abbiano generato l’impossibilità all’attuazione legislativa di realizzarsi compiutamente, è opportuno riconoscere l’attuale e perdurante necessità, ravvisata dagli stessi attori istituzionali ([3]) e sociali operanti nella materia degli infortuni e delle malattie professionali, della revisione, razionalizzazione e riorganizzazione del sistema prevenzionistico attualmente vigente nel nostro Paese, in ragione della urgenza di arrestare il fenomeno infortunistico ([4]), rendendo un sistema di norme a tutela della sicurezza sul lavoro adeguato anche agli ingenti mutamenti del nostro mercato del lavoro.
Vale la pena ricordare che l’apparato normativo vigente, la cui norma principio “di chiusura” del sistema, l’art. 2087 c.c., risale al 1942, è composto altresì dal d.lgs. n. 626/1994, e successive modifiche ed integrazioni; tale ultimo complesso normativo, frutto della trasposizione di una lunga serie di direttive comunitarie (direttiva quadro n. 89/391/CEE e direttive speciali, c.d. direttive “figlie”), è stato a sua volta inserito in un altrettanto ampio sistema di norme per lo più risalenti agli anni cinquanta, tuttora in vigore, purché non contrastanti con la normativa succedutasi nel tempo (art. 98, d. lgs. n. 626/1994).
La questione inerente la complessità del sistema, evidentemente, non rileva solamente in quanto il sistema prevenzionistico necessita di norme di carattere obbligatorio, nonché di una serie di regole calate in norme di legge la cui matrice proviene da diverse discipline tecnico-scientifiche, ma anche in virtù del fatto che il “nuovo” modello di ispirazione comunitaria, compartecipativo, aperto, modellato secondo procedure tipo, si è trovato a fare i conti con disposizioni per lo più antiquate, generalmente volte a regolare procedure prevenzionistiche per singole situazioni o singole attrezzature, macchinari, luoghi di lavoro, ecc. Ed infatti, il progresso tecnico, quale valore strumentale allo sviluppo della sicurezza sui luoghi di lavoro, rende per sua natura obsolete numerose norme di carattere tecnico appartenenti all’attuale sistema.
Tale complessità può forse considerarsi anche concausa di una disattenta attuazione delle direttive, il che ha prodotto una serie di condanne da parte della Corte di Giustizia europea ([5]).
E difatti, l’idea di redigere un Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro è da tempo considerata dal legislatore. Addirittura, la prima proposta risale al 1978, basata sulla delega disposta ex art. 24, legge del 23 dicembre 1978, n. 83 (Riforma del Servizio Sanitario Nazionale), alla quale hanno fatto poi seguito diversi progetti, sia precedenti che successivi all’emanazione del decreto legislativo n. 626/1994 ([6]).
Il Parlamento è dunque tornato a delegare il Governo in materia di riordino della normativa prevenzionistica, come si accennava, attraverso l’art. 3 della legge n. 229/2003 disponendo la revisione dell’intero sistema normativo di prevenzione attraverso l’adozione, entro un anno ([7]), di uno o più decreti legislativi volti al “riordino, coordinamento, armonizzazione e semplificazione delle disposizioni vigenti per l’adeguamento alle normative comunitarie e alle convenzioni internazionali in materia”, art. 3, lett. a) ([8]), secondo principi delega che riprendevano sostanzialmente quanto espresso dal documento programmatico presentato nell’ottobre 2001 dal Governo, Libro Bianco, capitolo II 3.9, Igiene e sicurezza ([9]).
Secondo attenta dottrina in materia ([10]), l’intervento del legislatore delegato non doveva limitarsi comunque alla semplificazione e riorganizzazione dell’apparato vigente, ma altresì avrebbe dovuto spingersi ad azione correttiva e di innovazione del sistema, al fine soprattutto di evitare ulteriori condanne da parte dell’UE, vigile, come accennato, della corretta applicazione della materia. Secondo tale orientamento, comunque, la semplificazione doveva risultare come azione principale, volta a chiarificare ed a “rendere leggibile la norma” attraverso un intervento mirato a “tagliare i rami secchi, sfrondando quello che è superfluo senza intaccare il nucleo del precetto” ([11]).
La delega ex art. 3, cit., si articolava in dodici criteri direttivi, il cui asse portante era costituito, come visto, dal riordino, coordinamento, armonizzazione e semplificazione delle disposizioni vigenti allo scopo di adeguarle alle normative comunitarie e alle convenzioni internazionali in materia (lett. a), nel rispetto del nuovo assetto istituzionale previsto dall’art. 117 Cost. (lett. i).
Il legislatore delegato ha inteso attuare il predetto principio individuando nel testo elaborato i principi ed i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, secondo quanto stabilito dall’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., lasciando perciò alla legislazione concorrente delle Regioni eventuali modulazioni di tutela comunque di carattere migliorativo, tali da non intaccare le garanzie minime in materia di lavoro e sicurezza ([12]).
I principi fondamentali di cui sopra venivano tratti dalle disposizioni comunitarie in materia e avrebbero perciò costituito nel nostro ordinamento norme inderogabili di legge. Si preannuncia da ora, rinviando alla conclusione del presente contributo l’analisi delle motivazioni, che è proprio l’impostazione resa all’ambito delle competenze in materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad aver impedito il percorso attuativo della delega, essendosi pronunciato con parere in modo sfavorevole il Consiglio di Stato.
Venendo ora ai contenuti dell’elaborato approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri, va considerato, innanzitutto, come lo schema di decreto, mosso dalle sollecitazioni comunitarie così come da orientamenti giurisprudenziali consolidati da circa un decennio, nonché dall’emanazione della riforma del mercato del lavoro, c.d. Riforma Biagi ([13]), si trovava ad attuare due importanti criteri direttivi riguardanti nello specifico la sicurezza e salute nel lavoro flessibile.
Così, la lett. f) dell’art. 3, legge delega n. 229/2003, prevedeva “l’assicurazione della tutela della salute e sicurezza sul lavoro in tutti i settori d’attività, pubblici e privati, e a tutti i lavoratori, indipendentemente dal contratto stipulato con il datore di lavoro o con il committente”. Mentre la lett. g), art. cit., disponeva, inoltre, “l’adeguamento del sistema prevenzionistico e del relativo campo d’applicazione alle nuove forme di lavoro e tipologie contrattuali, anche in funzione di contrasto rispetto al fenomeno del lavoro sommerso e irregolare”.
Invero, uno degli aspetti centrali del testo ritirato è quello riguardante il campo di applicazione soggettivo prospettato. Venivano, innanzitutto, ricompresi nel raggio di tutela tutti i lavoratori, dipendenti pubblici o privati, anche con contratto di lavoro speciale o a tempo determinato.
Con una previsione non concordante con quanto disposto dall’art. 66, comma 4, d.lgs. n. 276/2003, che garantiva l’applicazione del d. lgs. n. 626/1994 ai collaboratori coordinati e continuativi nella modalità a progetto, ove svolgessero l’attività presso i locali del committente, l’art. 3, comma 5, dello schema di decreto, disponeva che i collaboratori coordinati e continuativi, anche nella modalità a progetto, avrebbero goduto della tutela limitata di cui all’art. 10, e dunque, tra l’altro, ricevere dal committente “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività” (art. 10, comma 1, lett. b)) ([14]).
Diversamente, i lavoratori autonomi ed i componenti dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c., avrebbero dovuto, ex art. 9, munirsi degli appropriati dispositivi di protezione individuale (DPI), nonché sottoporsi a sorveglianza sanitaria, ove ne fosse previsto l’obbligo ([15]).
Infine, i lavoratori a domicilio di cui alla l. n. 877/1973 e coloro ai quali si applica il contratto collettivo dei proprietari di fabbricati sarebbero stati titolari del diritto di informazione e del diritto di formazione di cui agli artt. 28 e 29 dello schema di decreto.
Ulteriore novità del campo di applicazione soggettivo avrebbe riguardato tutte le attività lavorative svolte nella modalità di telelavoro, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto. Ai telelavoratori, difatti, si garantiva, innanzitutto, l’applicazione delle norme sul lavoro ai videoterminali; a ciò si aggiungeva la consegna dei dispositivi di protezione individuale (DPI) e di attrezzature di lavoro conformi alle norme di cui ai titoli ad esse relativi, qualora fosse il datore di lavoro, anche tramite terzi, a fornirle.
Dunque, a rimanere esclusi dal raggio di tutela erano i lavoratori domestici di cui alla l. n. 339/1958 e coloro che svolgono piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza domiciliare ai bambini, alle persone ammalate o portatrici di handicap, e l’insegnamento privato supplementare (art. 70, lett. a) e b), d.lgs. n. 276/2003).
Altro carattere portante del testo consisteva nella valorizzazione delle norme di buona tecnica; ciò veniva realizzato trasformando le disposizioni legislative relative ad elementi di natura tecnica o costruttiva contenute nei provvedimenti risalenti agli anni cinquanta equiparandole alle norme emanate da organismi di standardizzazione, nazionali, europei ed internazionali, come CEN, CENELEC, ISO, IEC, UNI e CEI; intenzione del legislatore era quella di predisporre un meccanismo automatico di aggiornamento degli standard tecnici di sicurezza al progresso scientifico e tecnologico, mantenendo allo stesso tempo, come già rilevato sopra, i principi di derivazione comunitaria come parametro per l’individuazione di norme inderogabili di legge, sanzionate penalmente ([16]).
Nel nuovo testo veniva dato altresì spazio alle buone prassi, e cioè a procedure e metodi organizzativi finalizzati ad ottenere una riduzione dei rischi volti ad orientare la condotta di datori di lavoro, dei lavoratori, e di tutti i soggetti interessati (art. 5, lett. m)).
Strettamente connessa all’ambito di riconduzione di molte disposizioni di natura tecnica risalenti agli anni cinquanta a norme di buona tecnica, era poi la regolamentazione all’interno del sistema prevenzionistico del potere dispositivo in capo all’organo di vigilanza.
Secondo l’impostazione resa dal legislatore delegato, il potere di disposizione avrebbe reso tale ultimo soggetto legittimato ad impartire, appunto, una disposizione in luogo di una sanzione penale, ove avesse accertato un inadempimento da parte del datore di lavoro relativo agli elementi di natura tecnica, ricondotti nella bozza di testo normativo, come già più volte accennato, alle “norme di buona tecnica”, nonché avesse rilevato un inadempimento relativo alle “buone prassi”.
Il meccanismo, secondo le linee progettuali, sarebbe stato idoneo ad aggiornare via via il sistema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, offrendo all’organo di vigilanza, soggetto esperto nel riconoscere gli standard tecnici raggiunti in ciascun settore produttivo, la funzione di disporre, appunto, “le soluzioni costruttive ed organizzative più idonee” ed “assicurare il miglior livello di tutela antinfortunistica” ([17]).
Le restanti norme, quelle non di natura tecnica, e direttamente afferenti ad obblighi riconducibili a principi fondamentali in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, rimanevano pertanto accompagnate da sanzione penale e dalla possibilità di beneficiare dell’oblazione ex art. d.lgs. 758/1994, come di fatto previsto dal sistema vigente.
Uno degli elementi portanti, poi, di quello che auspicava essere il nuovo testo di normativa prevenzionistica, era il particolare coinvolgimento degli Enti bilaterali rispetto a quanto previsto dal d.lgs. n. 626/1994; “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”, art. 5, lett. n), erano considerati destinatari, in un’ottica di complessiva semplificazione degli adempimenti di sicurezza per le piccole e medie aziende, di una funzione promozionale di buone prassi, promotori della programmazione di attività formative a fini prevenzionistici, nonché dello sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro, come di ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento.
Oltre a quanto poc’anzi esposto, ai medesimi Enti era attribuita la funzione di organi di prima istanza in merito a controversie sorte sulla applicazione dei diritti di rappresentanza, informazione e formazione previsti dalle norme vigenti in materia (art. 27, comma 2).
Sempre poi nell’ottica di semplificazione degli adempimenti, con riferimento in particolare alle piccole imprese, lo schema citato affidava agli Enti bilaterali poteri certificatori circa la conformità della normativa prevenzionistica delle aziende di dimensioni limitate (fino a 100 dipendenti), a seguito di richiesta del datore di lavoro (art. 27, comma 4).
Ripercorsi dunque i principali elementi caratterizzanti l’elaborato normativo proposto dal Governo, non resta che individuare quali questioni di carattere giuridico ne hanno impedito l’attuazione definitiva in atto con forza di legge.
Sulla scia delle valutazioni pervenute dalla Conferenza Stato-Regioni alla seduta del 3 marzo 2005, tendenzialmente negative, ad eccezione delle posizioni della Regione Lazio e dei Comuni, l’iter di attuazione si è arrestato di fronte alla pronuncia del Consiglio di Stato, parere del 7 aprile 2005 ([18]).
Il summenzionato provvedimento non ha accolto la lettura da parte del legislatore delegato dell’art. 117 Cost., inerente, come visto, la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni nella materia de qua.
Nel particolare, il Consiglio di Stato ha asserito l’estraneità della materia relativa alla sicurezza del lavoro dalla materia dell’”ordinamento civile dello Stato” riconducendo la stessa (nel suo insieme) alla materia di legislazione competente della “tutela e sicurezza del lavoro”. In tal senso il Consiglio di Stato sostiene che “il legislatore statale può adottare solo norme costituenti principi fondamentali e non anche disposizioni di dettaglio, benché cedevoli”; le suddette disposizioni di dettaglio preesistenti “restano in vigore con carattere della cedevolezza” fin quando sostituite da disposizioni provenienti dalla autorità territoriale competente. Ed ancora, secondo la medesima visione, verso le norme di dettaglio preesistenti, il legislatore statale può svolgere solo attività ricognitiva, non essendo legittimato ad apportare innovazioni alle stesse. Anche in fase di trasposizione di direttiva comunitaria nelle materie attribuite alle Regioni o alle Province autonome, in via esclusiva o concorrente, allo Stato è consentito esclusivamente legiferare in via preventiva nei termini della cedevolezza ed ad efficacia differita alla scadenza dell’obbligo comunitario di attuazione della direttiva nei confronti delle sole Regioni inadempienti (Cons. Stato, Ad. Gen., 25 febbraio 2002, n. 2/2002)”.
Da quanto sin qui esposto, dunque, si rileva il netto sfavore del Consiglio di Stato circa l’impostazione resa in fase di attuazione dal legislatore delegato ([19]), e la volontà dell’organo istituzionale di incidere notevolmente su quello che sarà il nuovo impianto normativo in materia di salute e sicurezza, che, secondo il parere ultimo citato, dovrebbe strutturarsi secondo un’area di norme comuni costituite dai principi fondamentali dettati dal legislatore statale, e dai singoli (e diversi) micro-sistemi territoriali costituiti da norme prevenzionistiche di dettaglio.
Merita attenzione considerare, comunque, come simile lettura, che lascia ampio margine di azione alle Regioni in una materia così delicata, apra considerevoli dubbi dinnanzi ai principi costituzionali che permeano la stessa, quali gli artt. 3, 4, 32 Cost., oltre a porre un interrogativo imprescindibile circa la natura del sistema sanzionatorio compatibile con tale prospetto (e soprattutto adeguato alla materia della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), venendo meno l’applicazione della sanzione penale in ordine all’inadempimento delle disposizioni predisposte su base territoriale.
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L. Fantini, Norme di buona tecnica, buone prassi e potere di disposizione nel “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro, in Bollettino Adapt, n. 6/2005, www.csmb.unimo.it
[1] Resoconto sommario della XI Commissione permanente del Senato della Repubblica Lavoro, Previdenza sociale, seduta del 17 maggio 2005, n. 314.
[2] Il testo, cui si farà riferimento anche in seguito, è consultabile in Bollettino Adapt, 2004, n. 44, www.csmb.unimo.it
[3] Si consideri che la Commissione europea si è pronunciata, attraverso la Comunicazione del 5 febbraio 2004 – COM(2004)62 final – rivolta al Parlamento europeo, Consiglio, Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle Regioni, sullo stato dell’arte dell’applicazione della direttiva quadro n. 89/391/CEE, e delle direttive particolari inerenti ai luoghi di lavoro (n. 89/654/CEE), alle attrezzature di lavoro (n. 89/655/CEE), ai dispositivi di protezione individuale (n. 89/656/CEE), alla movimentazione manuale dei carichi (n. 90/269/CEE), alle attrezzature munite di videoterminali (n. 90/270/CEE). Nel documento la Commissione rileva come, malgrado la normativa europea abbia innalzato i livelli di tutela prevenzionistica all’interno degli ordinamenti degli Stati membri, si evidenziato comunque aree in cui l’applicazione della normativa risulta scarsa, e allarmante è perciò lo stato di ris<chio subito dai lavoratori. In particolare, l’attenzione deve essere concentrata sulle piccole e medie imprese, sui lavoratori giovani, sui lavoratori con bassa qualifica e su coloro che abbiano contratti di lavoro flessibile, attraverso una reciproca collaborazione tra i diversi attori, istituzionali e non, come i datori di lavoro, i rappresentanti dei lavoratori ed i lavoratori stessi.
[4] INAIL, Alcuni spunti sul fenomeno infortunistico 2004, 28 aprile 2005, in www.inail.it. Malgrado un lieve calo del fenomeno infortunistico in Italia, si registra ancora un consistente numero di infortuni e malattie professionali che a seconda delle aree del Paese, del settore produttivo, del tipo di attività, risulta comunque allarmante. Sebbene si rileva un arresto della imponente crescita registrata negli scorsi anni degli infortuni per i lavoratori atipici, la questione necessita di essere risolta, attraverso soprattutto una normativa pensata ad hoc per le tipologie di lavoro flessibile. Determinante è invece puntare l’attenzione sul fenomeno infortunistico dei lavoratori extra-comunitari che, secondo i dati, ha conseguito in questo ultimo anno un’impennata considerevole.
[5] Come ci ricorda L. Montuschi, Aspettando la riforma: riflessioni sulla legge n. 229 del 2003 per il riassetto in materia di sicurezza sul lavoro, in ADL, 3, 2004, 749 ss.
[6] Nel corso della X Legislatura è stato presentato il ddl n. 2154/1990 da parte dei senatori Toth, Lama ed altri. Nel corso della XIII Legislatura sono stati presentati il ddl n. 2389 d’iniziativa del sen. Smuraglia ed il ddl n. 2852, d’iniziativa del sen. Mulas. Un terzo progetto veniva promosso dal Governo sull’ipotesi di delega minimale contenuta nella Legge Comunitaria 1993 (art. 8, legge n. 146/1994) e predisposto da un gruppo d’esperti presso il Ministero del lavoro, coordinato dal Prof. Marco Biagi.
[7] Il termine entro cui attuare la delega è stato da ultimo prorogato al 30 giugno 2005 attraverso la legge 27 dicembre 2004, n. 306, c.d. “legge milleproroghe”.
[8] Per un’analisi sui diversi criteri di delega ex art. 3, legge n. 229/2003 si rinvia a M. Lai, Il nuovo “codice” sulla sicurezza del lavoro: spunti di riflessione, in DRI, 2003, n. 2; M. Lepore, A. Antonucci, Le prospettive di un Testo Unico di sicurezza alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione, in DRI, 2003, n. 2.
[9] Il Libro Bianco rilevava, tra l’altro, l’inesistenza di normative specifiche e peculiari, poste a tutela di tutte le emergenti forme di lavoro alternative al tradizionale rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
[10] L. Montuschi, op. cit., 752.
[11] Così, ancora, L. Montuschi, op. cit., 765.
[12] L’impostazione dottrinale del sistema normativo adottato risale M. Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in DRI, n. 2 , 2002, 157.
[13] L’esigenza di prevedere norme specifiche riguardanti la tutela della salute e sicurezza nelle forme contrattuali con carattere di flessibilità può rinvenirsi in due progetti presentati nel corso della precedente legislatura. Così, il ddl n. 2389 del sen. Smuraglia, approvato il 21 giugno 1999 dalla Commissione Lavoro del Senato, e poi decaduto per fine legislatura, richiedeva all’art. 4, punto 3, di “assicurare l’applicazione delle disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro a tutti i lavoratori, considerando tali tutti i titolari di un rapporto di lavoro subordinato, le categorie di lavoratori ad essi equiparate secondo le disposizioni vigenti, (…), i titolari di rapporti di prestazione continuativa e coordinata a carattere prevalentemente personale, nonché i titolari di rapporti di lavoro atipici o, comunque, non classificabili secondo gli schemi tradizionali (…)”. Al riguardo si veda C. Smuraglia, Sicurezza e igiene del lavoro. Quadro normativo. Esperienze attuative e prospettive, in RGL, 2001, 477 ss; C. Smuraglia, Sicurezza del lavoro e obblighi comunitari. I ritardi dell’Italia nell’adempimento e le vie per uscirne, in RIDL, 2002, I, 183 ss; M. Lai, Sicurezza del lavoro: aspettando il Testo Unico, in ISL, 1999, 381 ss. Il secondo testo veniva redatto dalla Commissione Biagi e predisponeva all’interno delle disposizioni generali, un intero capo, l’VIII, dedicato a “gruppi di lavoratori soggetti a particolare tutela” tra i quali venivano compresi i “prestatori di lavoro temporaneo nei casi di lavorazioni particolarmente pericolose o che richiedono una sorveglianza medica speciale”. Sul progetto e modalità di redazione di Testo Unico da parte della Commissione Biagi, si veda il saggio di M. Biagi, L. Alberti, A.M. Faventi, M. Lepore, L.M. Mariani, G. Natullo, G. Rocca, M. Rossi, M. Tiraboschi, Per un testo unico in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, in DRI, 1997, 77 ss.
([14]) In tal senso M. Lai, Prospettive di riforma nello schema di Testo unico, DPL, n. 3, 2005, 138; P. Soprani, A che punto è arrivato il Testo unico sulla sicurezza?, in ISL, n. 3, 2005, 125.
[15] Così, secondo i dettati della raccomandazione 2003/134/CE relativa ai lavoratori autonomi.
[16] In tal senso, e per una più approfondita lettura in argomento, L. Fantini, Norme di buona tecnica, buone prassi e potere di disposizione nel “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro, in Bollettino Adapt, n. 6/2005, www.csmb.unimo.it
[17] In tal senso si esprimeva la relazione tecnica di accompagnamento dello schema di decreto legislativo, il cui testo è consultabile all’indice A-Z, voce Sicurezza, (obbligo di), www.csmb.unimo.it.
[18] Consultabile in Bollettino Adapt, 2005, n. 16, www.csmb.unimo.it
[19] Per un approfondimento, si veda L. Fantini, Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla salute e sicurezza sul lavoro nell’attuale assetto costituzionale. La potestà legislativa statale e regionale in materia di “tutela e sicurezza del lavoro, in DRI, Osservatorio Legislazione, prassi amministrativa e contrattazione collettiva, alla voce Sicurezza (obbligo di), n. 3, 2005, in corso di pubblicazione.