Ad un anno di distanza dal suo lancio, un importante giornale europeo, Politico, ha stilato un rendiconto dei risultati finora raggiunti, sullo stile delle recensioni dei film. E non è una pagella incoraggiante: su 12 materie – dalla finanza alle telecomunicazioni – la realizzazione delle proposte del Rapporto Draghi non registra nessun voto pieno, una stentata sufficienza in sei, nelle altre non più di una o due stellette su cinque. Il problema, come è stato chiaro fin dall’inizio, non è l’accoglienza, entusiastica su tutto il fronte, ma la capacità e, soprattutto, la volontà effettiva di mettere in opera le indicazioni dell’ex presidente della Bce. L’European Policy Innovation Center , nella sua quasi contemporanea graduatoria, conferma: su 383 indicazioni contenute nel Rapporto solo 43 (l’11,2 per cento) sono state soddisfatte, su altre 77 ci sono stati passi avanti (20,1 per cento, su 176 (46 per cento) si è cominciato a lavorare, del tutto per aria ce ne sono 87, ovvero il 22,7 per cento.
Se si vuol essere ottimisti, un tasso vicino ad un terzo fra realizzazioni totali o parziali, nell’arco di un anno, non sembra, a prima vista, una bocciatura. In qualche misura, ci possono essere semplicemente impacci burocratici. In fondo, a lavorare nel concreto e nel dettaglio sul Rapporto Draghi la Commissione ha destinato uno staff di non più di otto persone, all’interno della Segreteria generale, e non un vero e proprio – e più autorevole – direttorato. La differenza non è soltanto formale. L’analisi dell’Epic conferma che il cammino delle proposte è molto meno rapido ed efficiente nei casi in cui le competenze sono divise, piuttosto che quando fanno capo ad una sola struttura.
Ma i numeri raccontano un’altra storia e non è solo una questione tempistica: il Rapporto si sta arenando non sulla pigrizia della Commissione, ma sulle resistenze – dichiarate o silenziose – dei governi. La controprova è nella decisione di destinare, con il prossimo bilancio comunitario, alla gigantesca impresa di mettere in campo una politica industriale continentale, in grado di traghettare l’Europa al di là delle tecnologie mature che tuttora la caratterizzano, una cifra che arriva appena all’1.2 per cento del Pil dell’Unione. Senza soldi freschi (che nessuno ha voluto mettere in campo), senza la possibilità di chiederli al mercato indebitandosi (bloccata da Germania e Olanda), senza cessioni di sovranità in materia di tasse (osteggiate da Italia e altri), senza il coraggio di tagliare i fondi all’agricoltura e ai programmi regionali, alla visione di Draghi manca semplicemente la benzina per finanziare l’accentramento e il coordinamento delle produzioni strategiche. La scappatoia alternativa di aggirare la mancanza delle risorse indispensabili, allargando i margini degli aiuti di Stato alle industrie nazionali è la ricetta, dicono gli esperti, per disintegrare l’Unione, non per rilanciarla.
Ma non è solo questione di soldi. E’, infatti, sulle riforme a costo zero che la delusione è, forse, più grande. Le pagelle di Politico e dell’Epic rivelano impietosamente le difficoltà che incontra, capitolo per capitolo, il Rapporto Draghi e la loro natura. L’Europa è stata capace di procedere rapidamente, quando si è trattato di fare marcia indietro, rinunciando a regolamentazioni, nel campo delle emissioni auto, dei fertilizzanti, degli obblighi di rendicontazione delle aziende, ritenute troppo onerose. Quando si è trattato di fare, insomma, magari a ragione, meno Europa. Sta invece segnando il passo dove si tratta di approfondire l’integrazione. Niente da segnalare sulla fusione della supervisione di mercati finanziari e borse, sulla concentrazione nel campo delle telecomunicazioni, come della finanza (chiedere a Unicredit e Commerzbank). Un buco nero il capitolo energia e, in particolare, quella interconnessione delle reti di distribuzione, da cui far emergere i risparmi che allentino quello che, oggi, è il maggior svantaggio competitivo dell’Europa rispetto ad America e Cina.
La Ue non è mai stata una lepre, quando si tratta di riforme. Ma – come ha ricordato in questi giorni, con garbo ma con fermezza, proprio Draghi – di tempo non ce n’è più.
Maurizio Ricci





























